di Emanuela Pessina

BERLINO. Le riflessioni dei leader europei circa la questione del debito sovrano continuano a riempire le prime pagine dei quotidiani, ma ancora non si riesce a intravedere nessuna possibile soluzione finale. Con i loro ghirigori retorici, infatti, i politici continuano a eludere i nodi della questione, quasi a evitare quello scontro ormai necessario per intraprendere dei passi concreti. Questa volta è il premier italiano Mario Monti a esprimere il proprio parere, ovviamente a favore della crescita economica e contro la politica di austerità predicata da Berlino.

In una video conferenza con Bruxelles, Monti ha invitato la Germania a riflettere «velocemente e profondamente» sulle conseguenze delle misure di austerità, sulla necessità di evitare il contagio fra i Paesi più deboli e a fare maggiori sforzi per la crescita economica. Per Monti non ci sono dubbi: i mercati sono sotto pressione per la mancanza di un percorso orientato allo sviluppo economico dei Paesi europei stessi.

Fra le misure per combattere la crisi, Monti ha citato la diretta ricapitalizzazione delle banche, da intraprendere non attraverso gli Stati ma direttamente dal Fondo salva Stati permanente. Le sua parole hanno invece escluso l'espansione del mandato della Banca centrale europea (Bce), poiché il suo mandato attuale implica già la stabilità finanziaria e «una sua espansione potrebbe avere degli effetti controproducenti, come quello di ritardare l'adozione di riforme strutturali a livello nazionale». A non essere apertamente affrontato dal premier italiano è il tema degli eurobonds, il vero e proprio cruccio della politica del Vecchio continente e l’ostacolo reale all’unanimità di condotta dei leader europei. Monti, a quanto pare, preferisce prenderla larga.

Nessuna risposta diretta da Berlino all’appello di Monti, ma Angela Merkel, lo scorso week end, non ha perso un’ulteriore occasione per chiarire la sua posizione in materia fiscale, e questa volta lo ha fatto senza mezze parole, puntando dritto al nocciolo della questione. In un incontro con i segretari del partito cristianodemocratico (CDU), sabato scorso la Cancelliera ha ribadito che non accetterà «in nessuna circostanza» gli eurobond. Indebolita nella sua posizione europea dalla vittoria di Francois Hollande in Francia, che è andato a sostituire l’ex-presidente Nicolas Sarkozy rompendo la diarchia Berlino- Parigi, in precedenza la Merkel non aveva escluso la possibilità di introdurre le Titoli di Stato europei alla fine di un processo di riforme.

Certo, per la Cancelliera tedesca la cose sono un po’ cambiate in queste ultime settimane: dopo la sconfitta elettorale in Nord Reno-Vestfalia e il conseguente licenziamento del ministro dell’Ambiente Norbert Roettgen (CDU), che si era candidato proprio per quelle regionali, la Cancelliera si è vista ridurre la fiducia da parte dei suoi elettori e del suo partito, i cristianodemocratici. E i tre quarti dei tedeschi sono assolutamente contrari agli eurobond, uno strumento che costringerebbe l’operosa Germania nel ruolo di chi lavora per pagare i debiti degli Stati più indisciplinati e spendaccioni, quali Grecia, Portogallo, Italia e Spagna.

Osteggiare gli eurobond è quindi per la Cancelliera il primo passo per riconquistare l’elettorato in vista delle elezioni generali del 2013. Sotto elezioni l’opinione pubblica conta più che mai: e la Merkel non può deludere i propri elettori. Di tutt’altra parrocchia Mario Monti, che, al termine della video conferenza con Bruxelles, si è sentito di commentare: «Il nostro Governo può sopportare l'impopolarità dell'opinione pubblica, ma deve pensare alla sostenibilità fiscale e procedere come vuole Bruxelles».

E per piacere a Bruxelles non si può certo non piacere a Berlino, la capitale che, per la risoluzione della questione del debito sovrano, per il momento fa la voce più grossa di tutti. Costi quel che costi, un Governo tecnico ha degli obiettivi e non è tenuto a piacere ai propri cittadini.

Tutto viene rimandato, ancora una volta, al prossimo vertice, indetto proprio da Mario Monti a Roma il prossimo 22 giugno, cui sono invitati i leader delle prime quattro economie della zona euro. Il primo, fra l’altro, di una serie di vertici che coinvolgeranno tutte le potenze europee. Ma la speranza di arrivare a una soluzione è sempre più debole: fra conferme, smentite, cambi di direzione e commenti, sembra quasi che la strategia europea per uscire dalla crisi sia diventata quella di prender tempo e rinviare. Aspettando che qualcosa cambi.

 

 

 

di Michele Paris

Un agghiacciante articolo apparso settimana scorsa sul New York Times ha descritto esaustivamente le modalità con cui la Casa Bianca autorizza l’assassinio mirato di presunti terroristi islamici in paesi come Pakistan, Yemen e Somalia. Il lungo resoconto del quotidiano americano fa luce su un programma palesemente illegale e condotto nella quasi totale segretezza, nel quale il presidente Obama si assume l’intera responsabilità di decidere della vita e della morte di individui che quasi mai rappresentano una reale minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti.

Con cadenza settimanale, un centinaio di membri dell’apparato anti-terrorismo americano si riuniscono in videoconferenza per valutare le biografie di sospettati di terrorismo che vengono poi raccomandati al presidente per entrare in una apposita “kill list”. Questo processo segreto di “nomination”, scrive macabramente il Times, si risolve nella decisione finale di Obama, il quale stabilisce personalmente chi debba essere assassinato con un’incursione dei droni impiegati oltreoceano.

Secondo le parole del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, il presidente “è determinato nello stabilire fin dove debbano arrivare queste operazioni”, cioè in sostanza si attribuisce il potere di uccidere chiunque sia sospettato di far parte di organizzazioni terroristiche e si trovi sul territorio di paesi sovrani non in guerra con gli USA, senza passare attraverso un procedimento legale. Nelle sue decisioni, Obama è costantemente assistito dal capo dei consiglieri per l’anti-terrorismo, John Brennan, veterano della CIA profondamente implicato nelle torture dei detenuti durante l’amministrazione Bush.

I reporter del Times, Jo Becker e Scott Shane, hanno potuto contare su decine di interviste con esponenti del governo americano, alcuni dei quali descrivono quella che appare come un’evoluzione senza precedenti nella condotta di un presidente che, già docente di diritto costituzionale, è passato dalle promesse di chiudere Guantanamo e di porre fine agli eccessi che avevano caratterizzato i due mandati del suo predecessore all’approvazione senza battere ciglio di operazioni letali.

In seguito ad un bombardamento sferrato all’inizio del 2009 dai droni in Pakistan, che fece un elevato numero di vittime civili, la Casa Bianca emise una direttiva per chiedere maggiore precisione ai vertici della CIA. In realtà, il programma non sembra essere cambiato in maniera significativa. L’amministrazione Obama si è semplicemente limitata ad adottare un diverso metodo nel conteggio dei morti causati dai droni, considerando tutti i maschi adulti assassinati come “nemici in armi”, a meno che non emergano prove della loro innocenza, ovviamente dopo il loro decesso.

Secondo la logica dell’antiterrorismo USA, d’altra parte, tutte le persone che si trovano in un’area conosciuta per le attività terroristiche, o dove sono stati individuati operativi di Al-Qaeda, sono esse stesse militanti che meritano di essere eliminati sommariamente.

Una delle operazioni che secondo il Times ha maggiormente diviso l’amministrazione Obama è stata quella che ha portato all’uccisione di Baitullah Mehsud, leader dei Talebani del Pakistan le cui attività non rappresentavano una minaccia imminente per Washington, dal momento che erano rivolte in gran parte al governo di Islamabad. Obama, dietro insistenza delle autorità pakistane che volevano Mehsud morto, prese la decisione di eliminarlo poiché era una minaccia per il personale americano in Pakistan.

Inoltre, quando nell’agosto 2009 l’allora direttore della CIA, l’attuale Segretario alla Difesa Leon Panetta, informò Obama che il bersaglio era in vista, avvertì che un attacco avrebbe causato danni collaterali significativi, dal momento che Mehsud si trovava presso un’abitazione assieme alla moglie e ad alcuni familiari. Senza alcuno scrupolo, il presidente diede l’ordine di colpire, causando la morte dei civili innocenti presenti sul posto.

A dare un impulso decisivo al programma dei droni in Yemen fu poi il fallito attentato del giorno di Natale del 2009, quando un giovane nigeriano addestrato nel paese della penisola arabica cercò di fare esplodere un aereo diretto all’aeroporto di Detroit. La stagione delle stragi in Yemen sotto la direzione di Obama era peraltro già iniziata poco prima. Il 17 dicembre 2009, infatti, un’incursione aerea uccise, assieme al bersaglio stabilito, anche due intere famiglie del tutto innocenti, mentre le “cluster bombs” rimaste sul terreno fecero poco più tardi ulteriori vittime civili, provocando le violente proteste della popolazione locale.

Il nuovo giro di vite che la Casa Bianca avrebbe deciso dopo questi fatti non portò ad una maggiore cautela nell’uso dei droni, tanto che oggi il Pentagono può condurre attacchi in Yemen contro sospettati di cui non conosce nemmeno il nome.

I presunti “principi” a cui si ispirerebbe Obama nell’autorizzare gli assassini mirati, per il Times sono stati messi alla prova nella vicenda di Anwar al-Awlaki, il predicatore estremista con cittadinanza americana trasferitosi in Yemen. Secondo gli americani, Awlaki era coinvolto non solo nel già ricordato attentato del Natale 2009, ma anche nella sparatoria di Fort Hood del mese precedente, nella quale un maggiore dell’esercito USA uccise 13 persone.

Di fronte all’eventualità di uccidere un cittadino statunitense in un paese sovrano con un procedimento segreto e senza processo spinse Obama a chiedere il parere dell’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia. Quest’ultimo, calpestando il dettato del Quinto Emendamento della Costituzione, stabilì in maniera sconcertante che la garanzia di un giusto processo per Awlaki poteva essere assicurata da una semplice deliberazione interna di un organo dell’esecutivo. Con questa copertura pseudo-legale, scrive il Times, il presidente democratico sostenne che il via libera all’assassinio di un sospetto con passaporto americano diventò “una decisione semplice”.

Lo scopo dell’articolo non è in ogni caso quello di smascherare uno degli aspetti più oscuri del governo degli Stati Uniti, ma sembra piuttosto essere stato realizzato con la collaborazione stessa dell’amministrazione Obama per propagandare un’immagine forte del presidente sulle questioni della sicurezza nazionale, prevenendo gli attacchi da destra dei repubblicani in campagna elettorale.

Il ritratto di Obama che ne esce è comunque quello di un presidente che appare perfettamente in sintonia con l’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, le cui politiche criminali intende portare avanti senza scrupoli o esitazioni. Tutto ciò nonostante la sua elezione nel 2008 sia stata dovuta in gran parte alla repulsione diffusa nel paese per gli abusi commessi sotto l’amministrazione Bush. Significativo nel delineare la personalità di Obama, a cui, va ricordato, nel 2009 è stato assegnato il Nobel per la Pace, è il commento del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, che lo definisce perfettamente “a suo agio con l’uso della forza”.

Ancora più allarmante è però lo scenario politico americano che il Times contribuisce a descrivere. Dopo oltre un decennio di “guerra al terrore”, ogni organo dello stato dimostra un progressivo disinteresse, se non aperto disprezzo, per i più elementari diritti democratici.

L’autorità autoassegnatasi da Obama di decidere gli assassini mirati condotti dalla CIA e dal Pentagono sancisce infatti la legittimità di un programma criminale senza precedenti per un paese civile, con profonde e inquietanti implicazioni per gli Stati Uniti e non solo.

Una deriva quella raccontata dal New York Times che risulta ancora più preoccupante alla luce del sostanziale silenzio non solo dell’intera classe politica ma anche di intellettuali e commentatori liberal, da tempo ormai quasi interamente allineati alla causa dell’anti-terrorismo, così come della “guerra umanitaria”, e disposti ad accettare qualsiasi eccesso per assicurare la permanenza alla Casa Bianca di un presidente democratico.

di Michele Paris

Il moderato ottimismo che la settimana scorsa aveva segnato la vigilia dei colloqui di Baghdad sul nucleare iraniano ha lasciato spazio in fretta ad un nuovo deterioramento dei rapporti tra la Repubblica Islamica e l’Occidente. Le tensioni riemerse negli ultimi giorni indicano così un imminente fallimento dei negoziati, ancora una volta a causa principalmente dell’atteggiamento ambiguo e provocatorio tenuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Già nel corso del vertice tra l’Iran e i cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) nella capitale irachena le trattative erano giunte in prossimità del punto di rottura, per essere poi apparentemente salvate nel secondo giorno di discussioni, al termine del quale le parti coinvolte hanno finito per fissare un nuovo summit, in programma il 18 giugno a Mosca. Alla luce della posizione assunta dai P5+1, a molti è già apparso un successo l’essere riusciti a stabilire un’altra data per proseguire i colloqui.

Lo scontro tra le delegazioni presenti a Baghdad è avvenuto sulla proposta avanzata dalla responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton, con la quale i P5+1 chiedono all’Iran, tra l’altro, lo stop all’arricchimento dell’uranio ad un livello del 20%, l’invio all’estero di quello già arricchito a questo livello e la chiusura dell’installazione nucleare di Fordow. Se pure da Teheran erano giunti segnali di disponibilità al compromesso anche sul congelamento dell’arricchimento dell’uranio al 20%, qualsiasi ipotesi di accordo è crollata di fronte ai modesti incentivi promessi in cambio dall’Occidente.

Come gesto di buona volontà, l’Iran si aspettava infatti un allentamento delle sanzioni già in atto e che colpiscono il proprio settore petrolifero, nonché la cancellazione di quelle adottate dall’Unione Europea che entreranno in vigore il primo luglio prossimo. Riguardo a Fordow, poi, su richiesta di Israele gli USA ne hanno chiesto la chiusura in quanto esso è un sito sotterraneo e quindi praticamente impossibile da distruggere con bombardamenti mirati. La pretesa occidentale comporta perciò il trasferimento degli equipaggiamenti situati in questa struttura in un sito in superficie, dove diventerebbero un facile bersaglio di un’eventuale incursione aerea americana o israeliana.

Comprensibilmente, la posizione dell’Iran si è irrigidita e qualche giorno più tardi il capo dell’Agenzia per l’Energia Atomica, Fereydoon Abbasi, ha affermato che il suo paese “arricchisce l’uranio in base ai propri bisogni [al 20%] senza chiederne il permesso a nessuno”. Perciò, “i negoziatori iraniani non si muoveranno dalle loro posizioni se la controparte continuerà a mantenere un simile atteggiamento”. Abbasi ha poi annunciato che l’Iran intende costruire due nuove centrali nucleari nel 2013.

Di conseguenza, da Teheran è stato rimesso in discussione anche l’accordo con l’AIEA per ispezionare il sito militare di Parchin che sembrava a portata di mano prima del vertice di Baghdad. In seguito alla visita a Teheran del direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Yukiya Amano, un’intesa sembrava essere a portata di mano ma lo stesso Abbasi ha successivamente indicato la nuova posizione di Teheran, secondo la quale l’AIEA dovrà presentare prove concrete di presunte attività illegali a Parchin per ottenerne l’accesso. Le accuse dell’Agenzia dell’ONU si basano su discutibili e datati rapporti di intelligence occidentali e israeliani.

Il cambiamento dell’atmosfera attorno alla questione del nucleare iraniano nell’arco di pochi giorni rivela come i P5+1, con gli Stati Uniti in prima fila, intendano strumentalizzare i colloqui in corso per esercitare altre pressioni su Teheran e inviare ultimatum inaccettabili ai vertici della Repubblica Islamica. A dimostrazione di ciò, vi è il fatto che i rappresentanti dei governi occidentali a Baghdad hanno per l’ennesima volta deciso di ignorare le aperture e la disponibilità al dialogo mostrata dagli iraniani, i quali durante il vertice avevano anche presentato una loro proposta che comprendeva, oltre al nucleare, altre questioni relative alla sicurezza in Medio Oriente.

La linea dura di Washington e il sostanziale fallimento dei negoziati va dunque al cuore della crisi del nucleare iraniano, in buona parte fabbricata dall’Occidente e da Israele. Il nodo cruciale che impedisce una risoluzione pacifica della questione è stato messo in luce chiaramente qualche giorno fa da Flynt e Hillary Leverett sul loro blog Race for Iran.

I due ex membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti hanno scritto che “la determinazione a dominare la regione mediorientale distorce gravemente l’approccio diplomatico dell’amministrazione Obama, dal momento che essa utilizza i negoziati sul nucleare con Teheran per convincere la Repubblica Islamica a cedere alle richieste americane”, mentre i colloqui dovrebbero piuttosto essere “uno strumento importante per giungere al riallineamento delle relazioni USA-Iran”.

In altre parole, per Washington la questione del nucleare iraniano è semplicemente un pretesto per fare pressioni su Teheran con l’obiettivo di spingere l’Iran ad allinearsi agli interessi americani in Medio Oriente o, vista l’impraticabilità di questa opzione, per giungere ad un cambio di regime.

Infatti, aggiungono i Leverett, “non esistono argomenti seri per non riconoscere il diritto dell’Iran all’arricchimento dell’uranio”. L’amministrazione Obama, perciò, non vuole un accordo poiché ciò comporterebbe il riconoscimento della “Repubblica Islamica come un attore importante con legittimi interessi nazionali”, limitando l’espansione dell’egemonia USA nella regione.

La relativa disponibilità mostrata dagli Stati Uniti in queste settimane per tenere in piedi un tavolo di trattative con l’Iran è dovuta a svariati fattori secondo i Leverett, come la necessità di contenere l’aumento del costo del petrolio in un periodo di crisi economica e di frenare le tendenze guerrafondaie di Israele che potrebbero mettere a repentaglio la rielezione di Obama a novembre. Questa decisione, tuttavia, è di natura puramente tattica e “non comporta alcuna riconsiderazione della strategia generale della Casa Bianca”.

L’atteggiamento di Washington, in ogni caso, oltre a creare un nuovo scontro con i rappresentanti iraniani che hanno immediatamente smascherato la doppiezza americana, rischia di creare più di un malumore anche a Tel Aviv, da dove si spinge insistentemente per un’azione militare.

A confermalo è stato ad esempio il commento sibillino del vice-primo ministro israeliano, Moshe Yaalon, durante una recente intervista rilasciata alla radio dell’esercito. Dopo aver ribadito che i colloqui di Baghdad sono serviti solo a dare più tempo all’Iran per “perseguire il suo progetto nucleare”, Yaalon ha aggiunto che, “con dispiacere, non vedo nessun senso di urgenza e forse è addirittura nell’interesse di alcuni paesi occidentali prendere tempo” attraverso i negoziati.

Le attività per destabilizzare l’Iran e per colpire il suo programma nucleare, intanto, non sembrano conoscere sosta. Lunedì, infatti, è apparsa sui giornali di mezzo mondo la notizia della scoperta di un nuovo virus devastante che avrebbe colpito i sistemi informatici iraniani. Dopo Stuxnet, che nel 2010 fece seri danni agli impianti iraniani, ora è la volta di Flame, il quale sarebbe di gran lunga più distruttivo del suo predecessore. Pur senza conferme né smentite, è opinione condivisa che tali virus siano stati creati dagli Stati Uniti o da Israele.

Ad aggiungersi alle pressioni su Teheran è arrivata infine mercoledì anche la rivelazione da parte dell’AIEA dell’esistenza di nuove immagini satellitari che evidenzierebbero come gli iraniani stiano ripulendo il sito militare di Parchin, in modo da rimuovere ogni prova di test nucleari in vista dell’arrivo degli ispettori internazionali.

Le accuse sono state immediatamente respinte dal rappresentante dell’Iran presso l’AIEA, Ali Asghar Soltanieh, il quale le ha definite “senza fondamento”. I presunti esperimenti su detonazioni di armi nucleari, secondo rapporti di intelligence occidentali e israeliani, sarebbero stati condotti a Parchin nel 2000. Oltre al fatto che gli iraniani avrebbero stranamente atteso dodici anni per ripulire il sito, gli esperti avvertono che difficilmente le tracce di uranio potrebbero essere rimosse.

A sostenerlo, tra gli altri, è stato l’ex membro dell’AIEA Robert Kelly, il quale ha affermato alla Reuters che “se l’Iran sta ripulendo l’edificio e gli equipaggiamenti all’aperto, nel caso ci fosse la presenza di uranio, lasciare che l’acqua contaminata scorra all’esterno significa che gli ispettori dell’AIEA avranno il 100% di probabilità di trovarne traccia”.

di Michele Paris

Il procedimento legale interamente basato su motivazioni politiche contro il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, mercoledì ha trovato forse il definitivo suggello con l’attesa sentenza della Corte Suprema britannica che ha dato il via libera alla sua estradizione in Svezia. A Stoccolma, Assange dovrà fronteggiare le più che discutibili accuse di stupro ai danni di due cittadine svedesi e, soprattutto, rischia di venire nuovamente estradato nel prossimo futuro, questa volta verso gli Stati Uniti.

Al supremo tribunale della Gran Bretagna i legali di Assange avevano fatto un estremo ricorso dopo che lo scorso novembre l’Alta Corte di Giustizia di Londra aveva a sua volta respinto l’appello contro l’estradizione del loro assistito in seguito al mandato di arresto europeo (EAW) emesso dalle autorità svedesi. Consegnatosi spontaneamente alla polizia britannica nel dicembre 2010, Assange è stato costretto da allora agli arresti domiciliari in una villa del Norfolk appartenente ad un suo sostenitore.

Con Assange assente dall’aula perché bloccato dal traffico londinese, la Corte Suprema ha emesso il proprio verdetto con 5 giudici favorevoli all’estradizione e 2 contrari. Secondo la Corte, “non è stato semplice giungere ad una conclusione” del caso, ma “la richiesta di estradizione contro Assange rispetta i requisiti di legalità e perciò il suo appello deve essere respinto”.

Dopo la sentenza, uno dei legali di Assange, l’avvocato Dinah Rose, ha annunciato che verrà chiesta la riapertura del caso, poiché la decisione della Corte è stata emessa sulla base dell’interpretazione della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati tra gli Stati, della quale non si è mai dibattuto durante il procedimento in aula.

Secondo un autorevole avvocato citato ieri dalla Associated Press, però, la riapertura di un caso su cui la Corte Suprema si è già espressa sarebbe un evento senza precedenti. Il presidente della Corte, giudice Nicholas Phillips, ha comunque concesso due settimane ai legali di Assange per decidere le loro prossime mosse. L’estradizione, dunque, non verrà eseguita prima della metà di giugno.

Anche se la Corte Suprema dovesse rifiutarsi di riaprire il caso, inoltre, Assange potrebbe in ultima istanza rivolgersi alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, alla quale tuttavia i suoi difensori dovranno dimostrare che in Svezia sarebbe messa a rischio la salute fisica e mentale del loro cliente.

Tutta la vicenda legale che ha coinvolto Julian Assange è motivata dal desiderio di alcuni governi, a cominciare da quello americano, di vendicare la pubblicazione su WikiLeaks in questi anni di centinaia di migliaia di documenti classificati, tra cui i cablo del Dipartimento di Stato USA che hanno contribuito a smascherare la vera faccia dell’imperialismo statunitense in ogni angolo del pianeta.

Le accuse di molestie sessuali e di stupro presentate da due donne svedesi che avevano ospitato Assange durante un suo soggiorno a Stoccolma erano infatti state inizialmente archiviate dal pubblico ministero incaricato perché insignificanti, per essere poi riesumate, dopo che il blogger/attivista australiano aveva lasciato il paese scandinavo, in seguito all’intervento di un avvocato e politico legato al partito socialdemocratico locale.

Ha destato peraltro non pochi sospetti l'identità di una delle denuncianti, militante delle organizzazioni terroristiche cubanoamericane di stanza in Florida con numerosi precedenti di collaborazione con la CIA. Assange, dal canto suo, si è sempre detto disposto a collaborare con le autorità svedesi e per questo, oltre al fatto che le accuse sollevate contro di lui in Svezia non costituiscono un reato per cui è prevista l’estradizione in Gran Bretagna, i suoi legali avevano sostenuto che uno strumento anti-democratico come il mandato di arresto europeo non doveva applicarsi al suo caso.

Soprattutto, la richiesta di estradizione era stata emessa da un pubblico ministero svedese che, secondo la difesa, non rappresentava un’autorità giudiziaria competente. Su quest’ultima questione si è espressa appunto mercoledì la Corte Suprema britannica, respingendo l’interpretazione dei legali di Assange.

Il timore dell’ideatore di WikiLeaks e dei suoi sostenitori è che ora dalla Svezia possa essere più facilmente estradato negli Stati Uniti dove, come hanno confermato anche alcune delle e-mail del think tank americano Stratfor, pubblicate dallo stesso sito investigativo qualche mese fa, sarebbe già stato istituito un “Grand Jury” per incriminarlo secondo il dettato dell’Espionage Act del 1917, una legge che prevede anche la pena capitale.

Molti politici di spicco negli USA hanno d’altra parte accusato Assange di aver favorito il terrorismo se non addirittura di essere egli stesso un cyber-terrorista. Secondo le pratiche pseudo-legali create negli Stati Uniti nell’ambito della “guerra al terrore”, simili accuse sarebbero sufficienti per far scattare un’eventuale detenzione indefinita nei suoi confronti.

L’amministrazione Obama appare intenzionata a fare della vicenda Assange un esempio per mettere a tacere qualsiasi voce critica che intenda denunciare i crimini americani nel mondo.

A prefigurare ciò che potrebbe attendere Assange negli USA è la sorte riservata a Bradley Manning, il giovane soldato americano accusato di aver passato i documenti riservati del Dipartimento di Stato a WikiLeaks. Dopo due anni di detenzione in condizioni disumane, Manning ha da poco iniziato ad affrontare il suo processo davanti ad una corte marziale, con il rischio concreto di vedersi infliggere una condanna all’ergastolo.

di Michele Paris

A seguito del massacro di venerdì scorso a Houla, in Siria, i governi occidentali e i loro alleati nel Golfo Persico hanno aumentato nuovamente le pressioni su Damasco nel tentativo di spianare la strada ad un intervento armato per rovesciare il regime di Bashar al-Assad. Tra gli scambi di accuse di governo e opposizioni sulla responsabilità della strage, nella quale hanno perso la vita almeno 108 persone, tra cui decine di donne e bambini, l’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, si è recato nella capitale siriana per incontrare i vertici del regime, con i quali ha discusso del più recente episodio di violenza e di un piano di pace sempre più vicino al fallimento.

Come è noto, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU domenica scorsa ha emesso una dichiarazione non vincolante per condannare i fatti di Houla ma, su insistenza di Mosca, non ha apertamente puntato il dito contro Damasco per le uccisioni, anche se il regime è stato accusato di aver bombardato la località della Siria centrale. Anche il capo della missione di pace nel paese, generale Robert Mood, ha affermato che l’artiglieria pesante ha colpito l’area residenziale di Houla, ma la maggior parte dei morti è dovuta a colpi di arma da fuoco esplosi da distanza ravvicinata e addirittura ad accoltellamenti. Mood ha aggiunto che “da quanto ho appreso sul campo in Siria, bisogna evitare di saltare alle conclusioni”.

Un resoconto simile dell’accaduto è stato descritto martedì anche da un portavoce dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, il quale ha sostenuto che, in base alle testimonianze raccolte dagli osservatori, meno di venti persone sarebbero morte a causa dei colpi dell’artiglieria, mentre gli altri sono stati il bersaglio di esecuzioni sommarie in due distinti episodi.

Nonostante la cautela anche delle Nazioni Unite, come è sempre avvenuto finora, i governi occidentali hanno accettato integralmente la ricostruzione degli eventi di venerdì a Houla fatta dalle opposizioni siriane, le quali assegnano l’intera responsabilità al regime. Per Damasco, tuttavia, le cose sono andate diversamente. A negare pubblicamente la responsabilità delle forze di sicurezza, oltre al ministero degli Esteri, è stato lunedì anche l’ambasciatore siriano all’ONU, Bashar al-Jaafari.

Quest’ultimo ha infatti condannato “il massacro orribile e ingiustificabile” di Houla, definendo uno “tsunami di menzogne” quello proveniente da alcuni paesi membri del Consiglio di Sicurezza che cercano di fuorviare la comunità internazionale sul ruolo della Siria. Per Jaafari, né il generale Mood né nessun altro ha affermato davanti al Consiglio di Sicurezza che il governo siriano è colpevole dell’accaduto a Houla.

Per il governo di Damasco, la strage di venerdì è opera di “terroristi armati” e avrebbe fatto parte di un’operazione contro le forze di sicurezza che ha causato decine di morti anche in altri villaggi circostanti. Lo stesso ambasciatore Jaafari ha infine sottolineato che ancora una volta simili azioni cruente avvengono in concomitanza con delicati colloqui diplomatici, suggerendo che esse vengono orchestrate per far naufragare il già incerto processo di pace. Il massacro di Houla ha anticipato di pochi giorni la già programmata visita di Kofi Annan a Damasco iniziata nella giornata di lunedì.

Gli Stati Uniti e i loro alleati europei e nel Golfo sono senza dubbio in parte responsabili dei fatti di Houla, così come degli altri episodi di violenza che stanno insanguinando la Siria da quasi 15 mesi a questa parte, dal momento che questi governi hanno manipolato da subito le proteste circoscritte esplose lo scorso anno per alimentare una rivolta armata diretta a rovesciare un regime poco gradito.

Alla luce della strategia occidentale, perciò, non è una sorpresa che da più parti negli ultimi giorni le vittime di Houla siano state sfruttate per gettare benzina sul fuoco. Tra le minacce più esplicite lanciate contro Damasco va ricordata quella del capo di stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, il quale in un’intervista a FoxNews lunedì ha affermato che l’opzione militare riguardo la Siria ad un certo momento diventerà inevitabile.

Gli alleati degli Stati Uniti hanno poi intrapreso un’azione congiunta nella giornata di martedì, decidendo l’espulsione dei diplomatici siriani. A cominciare è stata l’Australia, seguita da Italia, Gran Bretagna, Canada, Germania, Spagna e Francia, il cui nuovo governo socialista ha già dimostrato di seguire quello di Sarkozy nell’appoggio incondizionato alla politica imperialista di Washington in Medio Oriente.

Da parte loro, le monarchie assolute del Golfo, alcune delle quali in questi mesi hanno represso nel sangue le rivolte democratiche esplose entro i loro confini, hanno chiesto un maggiore impegno da parte della comunità internazionale per “mettere fine alle pratiche oppressive del regime contro il popolo siriano”. Il Libero Esercito della Siria, invece, ha annunciato di non sentirsi più vincolato al rispetto del cessate il fuoco, mentre il Consiglio Nazionale Siriano ha invocato una risoluzione ONU in base al Capitolo VII dello statuto delle Nazioni Unite che autorizza l’uso della forza.

Negli ultimi giorni, intanto, i giornali occidentali hanno scritto di un’offensiva diplomatica degli USA per convincere la Russia ad appoggiare una transizione in Siria simile a quella che in Yemen ha portato alle dimissione del presidente, Ali Abdullah Saleh, e che mantenga al potere alcuni membri del regime di Assad disposti a creare un nuovo governo con i “ribelli”, ovviamente ben disposto verso Washington e pronto a sganciarsi dall’Iran.

Qualche segnale di apertura in questo senso da parte di Mosca e alcune dichiarazioni di diplomatici russi più critiche verso Damasco hanno alimentato speculazioni che il Cremlino sia sul punto di scaricare Assad. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, nel corso di un incontro con l’omologo britannico, William Hague, lunedì ha ad esempio sostenuto che entrambe le parti hanno qualche responsabilità nelle morti in Siria e che le forze governative hanno senza dubbio bombardato con l’artiglieria la città di Houla.

La Russia continua però a respingere qualsiasi ipotesi di intervento esterno in Siria e, come Damasco, attribuisce molte delle violenze nel paese all’opera di gruppi terroristi che non vogliono una soluzione pacifica della crisi. Più in generale, la difesa degli interessi russi nella regione si scontra con gli obiettivi americani. Mosca, a ragione, teme infatti che la caduta dell’alleato Assad minaccerebbe seriamente l’Iran e, di conseguenza, tutta la residua influenza della Russia e i suoi interessi in Medio Oriente.

Sul fronte diplomatico, lunedì Kofi Annan ha incontrato a Damasco il ministro degli Esteri siriano, Walid Moallem, e martedì il presidente Assad. In un faccia a faccia di due ore con quest’ultimo, l’ex segretario generale dell’ONU ha espresso “le gravi preoccupazioni della comunità internazionale per le violenze in Siria, riguardo soprattutto i recenti eventi di Houla”. Annan, inoltre, ha ricordato ad Assad che il piano di pace in sei punti non può che fallire senza iniziative coraggiose per fermare la violenza e liberare tutti i detenuti politici.

Alla vigilia della visita in Siria, Annan aveva chiesto al governo e alle opposizioni di contribuire a “creare il giusto contesto per avviare un processo politico credibile” nel paese, per poi esortare “chiunque abbia un’arma da fuoco” ad adoperarsi per la pace.

Gli appelli di Kofi Annan, in ogni caso, sono destinati quasi certamente a rimanere inascoltati. I deboli sforzi per giungere ad una soluzione negoziata della crisi sono ormai superati da forze ben più grandi che, a Washington come a Londra, a Riyadh o a Doha, operano per il fallimento del piano di pace, avendo deciso da tempo di puntare tutto sull’opposizione armata per far crollare una volta per tutte il regime di Bashar al-Assad.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy