di Luca Mazzucato

NEW YORK. La notizia fa tremare le vene ai polsi dei sociologi. Un ribaltamento di trentasei punti percentuali nell'ultimo mese nei sondaggi in favore dei matrimoni gay, e per una volta Obama può vantarne il merito. L'annuncio storico del Presidente a favore dei diritti degli omosessuali sta causando un maremoto tra le tendenze elettorali americane.

Il Maryland ha recentemente fatto passare la legge che riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso, ma i Repubblicani, contrari alla legge, hanno subito raccolto le firme per il referendum abrogativo. I precedenti trentotto referendum su questo argomento hanno visto immancabilmente la revoca dei diritti delle coppie omosessuali. Ma finalmente si volta pagina.

Quando il governatore del Maryland firmò la legge nel marzo scorso, i sondaggi davano l'otto percento di vantaggio a favore dei diritti gay tra la popolazione, ma dopo soli due mesi la preferenza è quasi triplicata, arrivando al venti per cento. I sondaggisti non credono ai propri occhi. Un secondo sondaggio più approfondito ha individuato l'origine di questa virata di dodici punti percentuali nell'opinione generale, all'interno di un particolare gruppo etnico.

Il nove maggio Obama dalla Casa Bianca ha dichiarato in un'intervista: “È importante per me rendere pubblico e affermare ciò che penso, e cioè che coppie dello stesso dovrebbero potersi sposare.” La dichiarazione inaspettata ha lasciato tutti con il fiato sospeso. Nel bilancio dei flussi elettorali, un'incognita assoluta, un azzardo. Ora possiamo quantificare l'effetto: Obama ha fatto cambiare idea a un sacco di gente. Ha spostato massicciamente l'opinione pubblica in favore dei matrimoni gay.

Il blocco demografico decisivo nel Maryland, con un terzo della popolazione, ha attraversato un cambiamento radicale e repentino. Due mesi fa, gli adulti afro-americani erano contrari ai matrimoni omosessuali per il diciassette per cento. Nel sondaggio odierno, dopo la dichiarazione di Obama, gli stessi sono diventati a favore per il diciannove percento. Una differenza percentuale di ben trentasei punti, più di un terzo della popolazione. Uno “swing” mai visto prima.

Il ruolo dei sondaggi nella politica americana è dovuto al loro uso come strumento centrale di gestione delle campagne elettorali; in questo circo mediatico del costo di un miliardo di dollari per candidato - grazie ai finanziamenti privati illimitati - le tattiche a breve termine si basano sul movimento quotidiano delle intenzioni di voto, in seguito alle dichiarazioni dei candidati.

Mentre non fa notizia che le minoranze, soprattutto quella afro-americana, appoggino Obama senza tentennamenti, lo sfidante Mitt Romney si è attirato le ire della porzione di elettorato più vasta del paese: quello femminile.

Gli attacchi frontali del partito repubblicano contro l'aborto e persino contro la contraccezione hanno alienato la maggioranza delle donne, che dichiarano di preferire Obama. Questo dato da solo, al momento, basterebbe a chiudere la partita presidenziale.

Rachel Maddow, autorevole talk show host su MSNBC, ripete incredula che “niente si è mai spostato nell'opinione pubblica americana in soli due mesi, tanto meno su un argomento così controverso!” Un vero e proprio miracolo, perpetrato dal Presidente con la sua intervista-bomba. Una dimostrazione dell'enorme fascino che Obama esercita sulla minoranza afro-americana.

Il referendum in Maryland, che si terrà in novembre insieme alle presidenziali, se non vi saranno sorprese sarà l'occasione storica in cui un voto popolare approverà un nuovo diritto. Come alcuni commentatori moderati già preannunciano, sarà “l'ultima battaglia per i diritti civili della storia americana.”

di Michele Paris

Da più di tre mesi gli studenti del Québec stanno dando vita a scioperi e manifestazioni di protesta contro la decisione del governo provinciale di aumentare in maniera consistente le tasse universitarie. Al movimento degli studenti, le autorità locali hanno risposto con l’introduzione di misure repressive che hanno ancor più incoraggiato le dimostrazioni di piazza, accolte qualche giorno fa con cariche e arresti di massa da parte dalle forze di polizia.

Le proteste degli studenti erano esplose nel mese di febbraio, dopo che il governo della provincia francofona del Canada, guidato dal Partito Liberale di centro-destra (PLQ), aveva approvato un incremento delle tasse universitarie di oltre l’80% nell’arco dei prossimi sette anni. I costi dell’istruzione accademica in Québec sono tra i più bassi dell’intero Nordamerica, ma gli aumenti del governo minacciano seriamente di creare anche qui uno scenario simile a quello statunitense, dove i laureati si ritrovano gravati per molti anni dai debiti contratti per pagare il college.

I giovani manifestanti hanno così progressivamente raccolto un sostegno sempre maggiore tra la popolazione del Québec, tanto che il governo provinciale una decina di giorni fa ha finito per adottare in fretta e furia la cosiddetta Legge 78 che di fatto criminalizza gli scioperi e le dimostrazioni degli studenti.

Oltre alla chiusura temporanea di alcune scuole, questo provvedimento stabilisce che qualsiasi manifestazione con più di 50 partecipanti debba essere notificata per iscritto alla polizia almeno otto ore prima del suo inizio e che venga fornita l’indicazione della durata e dell’itinerario, che peraltro può essere cambiato arbitrariamente dalle forze dell’ordine.

In risposta alla Legge 78, all’inizio della scorsa settimana gli studenti canadesi hanno deciso nuovamente di organizzare in varie città del Québec massicce manifestazioni, senza informare gli organi di polizia. Il corteo più imponente è andato in scena a Montréal, dove i dimostranti sono stati attaccati dalla polizia perché non avrebbero rispettato le istruzioni delle autorità sull’itinerario da seguire.

Scontri simili sono stati registrati anche in altre località della provincia e mercoledì sera, secondo quanto riportato dalla Associated Press, il bilancio è stato di qualcosa come 700 arresti, di cui 518 solo a Montréal e 176 a Québec City. Dall’approvazione della Legge 78 gli arresti sono stati più di mille, mentre il numero sale addirittura a 2.500 se si prende in considerazione tutta la durata delle proteste.

Contro questo provvedimento draconiano volto a impedire le manifestazioni sono già stati avviati dei procedimenti legali per verificarne la costituzionalità. La Commissione per i Diritti Umani del Québec ha invece da parte sua espresso “serie preoccupazioni per le libertà e i diritti democratici fondamentali”, messi in pericolo dalla legge provinciale.

Nonostante la ferma posizione assunta finora, il governo del Québec ha fatto recentemente una parziale marcia indietro, dicendosi disposto ad aprire un qualche dialogo con le associazioni studentesche, anche se è stato escluso qualsiasi cambiamento sia al piano di aumento delle tasse universitarie sia alla stessa Legge 78.

Ad annunciare l’avvio di un negoziato è stato uno dei leader dell’associazione studentesca più militante, CLASSE, il quale alla rete televisiva RDI ha rivelato che il governo ha promesso un incontro con gli studenti. Giovedì, inoltre, il ministro dell’Educazione del Québec, Michelle Courchesne, ha detto di essere in contatto con i gruppi degli studenti per trattate un accordo risolutivo che metta fine alle proteste e permetta di riprendere le lezioni dopo oltre 100 giorni di stop.

L’aumento delle tasse universitarie fa parte di una serie di misure già adottate dal governo del Québec del primo ministro Jean Charest per ridurre nei prossimi due anni il deficit della provincia e che include, tra l’altro, pesanti tagli alla spesa sociale, l’aumento delle tariffe dei servizi pubblici e la progressiva privatizzazione del sistema sanitario.

Questi provvedimenti e la lotta contro gli studenti in rivolta trovano il sostegno del governo federale, guidato dal Partito Conservatore del premier Stephen Harper, il quale a sua volta è impegnato a comprimere la spesa pubblica e a dare l’assalto ai diritti dei lavoratori canadesi. Nel bilancio approvato lo scorso marzo, infatti, il governo di Ottawa ha promesso una riduzione della spesa pubblica pari al 6% del totale ed ha innalzato l’età pensionabile, ridotto i benefici di disoccupazione e ridimensionato drasticamente il diritto di sciopero.

di Liliana Adamo

Dov’eravamo rimasti? Nella piazza di Midan et-Tahrir prima delle rivolte cominciate nel gennaio scorso, alle proteste antigovernative dei giovani esponenti di Kifaya, studenti della media borghesia, non habitué di circoli islamici ma allievi modello dell’American University del Cairo, veri precursori della “primavera araba”. Tra la moschea di Al Azhar con i suoi minareti dalle doppie cupole, la "Città dei Morti" e la più antica università del mondo, i tafferugli fra giovani cairoti e la polizia di Mubarak si succedevano a scadenza quotidiana, risolvendosi, quasi senza eccezione, con un massiccio uso d'idranti e arresti cautelari.

Questo movimento liberal sorto dal nulla, formato da studenti (finiti a centinaia nelle carceri egiziane), è stato il primo a opporsi al regime e il malcontento non risparmiava nessuno, neanche i Fratelli Musulmani, i cui affiliati, oggi, sono tra i favoriti in corsa alla nuova presidenza del dopo Mubarak. Eppure, nel 2006, all’alba della primavera araba, il Kifaya li definiva alla stregua di "Vecchi bacucchi... esponenti di un Islam arretrato che ha scarsa considerazione sulle questioni reali e importanti per la vita del paese…”.

Nessuno tra i politologi specialisti del Medio Oriente, né tra gli osservatori più serrati della cronaca estera, aveva la percezione di ciò che da lì a poco sarebbe avvenuto, non potendo immaginare un disegno che, invece, sembrava aleggiare nel best-seller di Alaa Al Aswani, in quel “Palazzo Yacubian”, condominio di Via Talat Harb (e ci muoviamo ancora nella toponimia degli eventi), situato in una strada del Cairo, una volta di fama internazionale, poi in fase di decadenza.

“Palazzo Yacubian” è stato il microcosmo di un’intera nazione, nell’accettazione acritica della corruzione, nella perdita dei sogni e dei progetti, fortemente delusa dal potere. Zaki, l'unico personaggio del racconto, si ostina a rappresentare l'antico ecumenismo della sua città, ricavandone la stessa malinconia universale, la perdita di senso e identità. Eppure, Adel Adib, il regista che poi ne ha fatto un film, sostiene con forza che "Palazzo Yacubian" è per chi ama l'Egitto, non certo per chi lo odia; l’Egitto di oggi, che si legge sulle facce della gente, piuttosto che tra le righe della cronaca estera.

Sei anni dopo il Kifaya, quella malinconia universale si riversa nella rabbia di piazza Tahrir, la guerriglia, diventata collettiva, unanime, deflagra in una potenza finora trattenuta. Le immagini, i filmati, sono storia dei nostri tempi: dai dimostranti falciati dalle camionette dell’esercito, al simbolo (tutto al femminile), di una protester che subisce un violento pestaggio da parte dei militari e del suo reggiseno blu, involontariamente lasciato scoperto dinanzi alle telecamere del mondo intero.

Tanti i volti: giovani, anziani, donne velate e studentesse svincolate dal velo, musulmani e cristiani copti; uno spaccato trasversale della società egiziana proveniente dal Sinai, da Assuan, da Alessandria, a chiedere la fine del regime trentennale di Mubarak. E tante le storie: dal Nobel per la pace, leader dell’opposizione, Mohamed El Baradei (che, a “missione compiuta”, rinuncia a candidarsi), all’altro premio Nobel per la chimica, Ahmed Zewail, che, dagli Usa, torna in patria per appoggiare le rivolte. Dal blogger Wael Abbas, al cyber attivista Wael Ghoneim, diventato icona della rivoluzione insieme all’ex ministro dell’Informazione, Anas Al Fiqi, entrambi fatti “sparire” dal famigerato “mabeht amn el dawla”, i servizi segreti interni (250 mila uomini addestrati da Mubarak a spezzare le ossa ai dissidenti), oggi, formalmente smantellati.

E se all’epoca delle rivolte in piazza Tahrir, l’ago della bilancia è rimasto saldamente in mano all’esercito, lo stesso che sì, rimuovendo l’ex presidente (confinato in una villa a Sharm El Sheik), promette nuove elezioni e una vera democrazia parlamentare, resta evidente una contraddizione essenziale. Può un apparato garantire l’uscita da un sistema creato dai suoi stessi rappresentanti? Qualcuno ha usato un’analogia letteraria quanto mai efficace: chiuso il capitolo del faraone, arrivano i gattopardi.

Ancor prima della scadenza delle elezioni, le tensioni non si sono in nessun caso placate. La rimessa in discussione sugli accordi con Israele del 1979 scatena uno scontro senza esclusione di colpi tra aspiranti filo-islamici e “liberal” in parte legati al vecchio apparato militare. Non solo, Ahmed Shafiq della Giunta Tantawi (che si è conquistato il ballottaggio con Mohammed Mursi, dell’area musulmana), è l’unico dei grandi esclusi, a essere stato riaccettato nella corsa alle presidenziali.

La decisione in extremis della Suprema Commissione Elettorale, che ha in pratica, eluso la nuova legge idonea a bloccare le candidature di chi è stato direttamente legato al regime, ha di nuovo, riacceso le polemiche…Ahmed Shafiq è dunque l’uomo nuovo del vecchio apparato, ripresentatosi a mischiare le carte.

E non a caso l’ha spuntata su tutti, per giocarsi lo spareggio finale, a giugno, in un testa a testa con il candidato dei Fratelli Musulmani, un ingegnere formatosi in California, con posizioni conservatrici in ambito sociale, ma cui abbina un notevole pragmatismo politico. Mohammed Mursi, tra l’altro, scommette sull’appoggio degli islamici più conservatori e, soprattutto, sull’impressionante macchina propagandistica dei Fratelli Musulmani.

Nulla da fare per ciò che resta di un eterogeneo schieramento, per l’islamista indipendente Abdel Moneim Aboul Foutouh (che molti davano per “favorito”), per l’ex ministro degli Affari esteri e segretario generale della Lega araba, Amr Moussa e per il nazionalista arabo, Hamdeen Sabbahi.

E se all’indomani dei risultati delle presidenziali, continua l’aspro confronto tra giunta militare e Fratelli Musulmani (primi attori nelle precedenti elezioni legislative, accusati di controllare completamente l’Assemblea Costituente), le dichiarazioni della formazione islamica non lasciano adito a dubbi: per loro, che già cercano consensi e accordi con le forze d’opposizione, se vincerà l'ex premier di Hosni Mubarak, Ahmed Shafiq, la sorte del nuovo Egitto, nato dalle proteste di piazza  Tahrir, correrà un serio pericolo.

 

 

di Carlo Musilli

Le novità che arrivano dai vertici internazionali degli ultimi giorni vanno lette fra le righe, nei rapporti di forza fra i leader seduti intorno al tavolo. Il vero dato politico che ci consegna questa settimana di colloqui - dal G8 dello scorso weekend alla "cena informale" dello scorso mercoledì sera a Bruxelles - è l'inusitato isolamento di Angela Merkel. Abituata fin qui a dettare l'agenda della politica economica europea, la cancelliera tedesca ora deve adattarsi a uno scacchiere rivoluzionato rispetto al passato. L'alleanza di ferro all'insegna del rigore con lo sherpa Nicolas Sarkozy è venuta meno: adesso frau Merkel si ritrova a fare i conti con il nuovo presidente francese, il socialista François Hollande, che fin dalla campagna elettorale non ha fatto che sbandierare la parolina magica, "crescita".

Sul palcoscenico globale, è proprio il successore di Mitterrand ad avere gli appoggi che contano: sia il presidente degli Usa, Barack Obama, sia il numero uno del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, vogliono servirsi del nuovo asse con Parigi per accerchiare la Merkel e costringerla ad allentare i lacci dell'austerity. Su questo campo non è secondaria la mediazione del premier italiano, Mario Monti, così come l'opposizione interna dei socialdemocratici tedeschi, pronti a usare il nuovo isolamento internazionale della Germania come un'arma elettorale contro Merkel.

Di provvedimenti concreti per rilanciare l'economia, com'era prevedibile, ancora nessuna traccia. Eppure la discussione fra i potenti d'Europa si è finalmente spostata su un argomento fino ad oggi tabù: gli eurobond (che pure non hanno a che fare con la crescita, ma con la stabilità finanziaria). Il duopolio Merkozy aveva sempre rifiutato anche solo di trattare questo capitolo in sede ufficiale. Oggi invece se ne parla, ed è già un passo avanti.

Perfino il bastian contrario per eccellenza, il premier inglese David Cameron, si è detto favorevole. Monti si è sbilanciato affermando che non manca "moltissimo tempo" all'adozione dei nuovi strumenti. La verità è che per il momento non c'è alcun accordo e di sicuro il via libera alle obbligazioni comunitarie non arriverà dal vertice europeo (stavolta "formale") del mese prossimo.

Per quanto controverso e probabilmente non decisivo, al momento questo tema mette in luce più di ogni altro la solitudine di Angela. La Germania ha sempre combattuto gli eurobond come il peggior nemico. E la ragione è facilmente comprensibile: i titoli emessi a livello comunitario obbligherebbero la prima economia d'Europa a garantire in parte anche il debito di Paesi inaffidabili sul piano dei conti pubblici. Senza contare quelli che - come l'Italia - oggi sembrano aver imboccato la strada della redenzione, ma domani chissà?

I rigidi professori bocconiani - per continuare con l'esempio - non dureranno ancora a lungo e nessuno può dire se i loro successori saranno altrettanto zelanti nello svolgere i compitini a casa affidati da Bruxelles e Francoforte.

Insomma, fatti due conti, quella di Berlino è certamente l'economia che ha più da perdere. Anche perché oggi i titoli di Stato tedeschi, i Bund, sono trattati dal mercato alla stregua di un vero e proprio bene rifugio, al punto che gli interessi pagati dalla Germania per finanziare il proprio debito pubblico ormai rasentano lo zero. Il timore di Merkel è proprio che questa situazione possa cambiare con l'ingresso degli eurobond. Il vero problema della Germania è che su questo terreno il suo unico alleato superstite è "l'asse del nord" costituito da Olanda, Finlandia e Svezia. Non esattamente un'armata invincibile, anche se Hollande avrebbe preferito il completo isolamento della cancelliera.

D'altra parte, ci sono anche delle ragioni più tecniche a lasciare perplessi gli addetti ai lavori. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha sottolineato come l'emissione di eurobond abbia senso solo dopo la realizzazione di una "fiscal union" nell'eurozona. Quello che ancora manca è una vera "unione di bilanci", ha detto il governatore.

Intanto la Grecia, con le elezioni di giugno, è chiamata a una sorta di referendum per decidere se rimanere o no nella moneta unica (mentre tutti i Paesi, a dispetto delle smentite, stanno preparando piani per fronteggiare l'eventuale addio) e la Spagna deve vedersela con una tremenda crisi del settore bancario. Di fronte a questo scenario, dobbiamo purtroppo accontentarci dell'intesa al ribasso raggiunta fin qui fra i leader d'Europa.

Il mese prossimo sarà probabilmente avviato l'iter per due provvedimenti su cui ormai da tempo sono (quasi) tutti d'accordo: la ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti (probabilmente di 10 miliardi) e i project bond. Il nome può trarre in inganno: non sono titoli di debito, ma strumenti con cui raccogliere risorse per finanziare con garanzia pubblica progetti infrastrutturali a livello europeo. Chi si accontenta gode. O almeno continua a sperare.

 

di Michele Paris

La prima giornata dell’atteso summit tra l’Iran e i rappresentanti dei P5+1 (USA, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania) a Baghdad si è conclusa con modesti progressi e lo scambio reciproco di proposte per risolvere l’annosa questione del nucleare di Teheran. Il secondo round di negoziati in questo 2012 è stato preceduto sia dalle solite minacce più o meno velate e da nuove sanzioni per mettere gli iraniani sotto pressione sia da qualche segnale incoraggiante, come l’incontro dall’esito moderatamente positivo tra le autorità locali e il direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Yukiya Amano.

Quest’ultimo, in seguito ai colloqui di Vienna andati in scena qualche giorno prima, domenica e lunedì si era recato a sorpresa a Teheran e, al ritorno nella capitale austriaca dove ha sede l’AIEA, ha affermato che un accordo sulle ispezioni degli ispettori internazionali ai siti militari segreti dell’Iran è a portata di mano. Pur senza specificare i tempi previsti e ammettendo ancora varie divergenze tra le due parti, Amano ha confermato “importanti sviluppi” nelle trattative per giungere ad un “accordo strutturale” con l’Iran.

Le discussioni che hanno preceduto l’incontro di Baghdad ruotavano sostanzialmente attorno alla possibilità da parte dell’AIEA di avere accesso al sito militare di Parchin dove, secondo rapporti di intelligence occidentali, gli iraniani avrebbero condotto test relativi ad esplosioni nucleari. L’Iran, in realtà, non ha mai opposto un rifiuto di principio alle ispezioni a Parchin, bensì aveva negato l’accesso al sito durante un’ispezione di qualche mese fa perché non concordata. In quell’occasione Amano ritirò bruscamente gli ispettori dall’Iran, scatenando sulla stampa occidentale una valanga di commenti circa la presunta mancanza di collaborazione della Repubblica Islamica.

Al contrario del suo predecessore, Mohamed ElBaradei, il diplomatico giapponese alla guida dell’AIEA dal 2009 è considerato molto più docile al volere di Washington e ha tenuto nel recente passato una linea dura nei confronti dell’Iran. Per questo motivo, l’ottimismo espresso qualche giorno fa dopo la sua prima visita a Teheran sembra confermare che gli Stati Uniti siano interessati ad una soluzione temporanea che mantenga aperti i canali di comunicazione con l’Iran almeno fino a dopo il voto per le presidenziali di novembre.

Questa strategia è volta a prevenire un attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane da parte di Israele nei prossimi mesi e ad evitare una nuova impennata del prezzo del greggio a causa dell’aumento delle tensioni in Medio Oriente. Scenari, questi, che comprometterebbero seriamente le chances di rielezione del presidente Obama.

Nel medio periodo, tuttavia, è facile prevedere un nuovo deterioramento dei rapporti tra l’Iran e l’Occidente, dal momento che il governo americano e i loro alleati da anni sfruttano la questione del nucleare - del quale non esistono prove che sia indirizzato a scopi militari - per promuovere un cambiamento di regime a Teheran.

Il relativo entusiasmo prodotto dai colloqui condotti da Amano, in ogni caso, è servito ad alleggerire l’atmosfera dei negoziati di Baghdad e ha evidenziato, come era apparso chiaro già a Istanbul lo scorso aprile, la volontà iraniana di fare alcune concessioni al gruppo dei P5+1. Questo atteggiamento più disponibile da parte dei rappresentanti della Repubblica Islamica testimonia di una certa unità ritrovata all’interno della classe dirigente dopo il colpo inflitto al presidente Ahmadinejad e ai suoi sostenitori con le recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento (Majlis), ma rivela anche un ovvio desiderio di vedere allentate alcune delle sanzioni occidentali che pesano sull’economia del paese.

La proposta avanzata dai P5+1 a Baghdad intende in primo luogo giungere al congelamento del processo di arricchimento dell’uranio al 20% in cambio di una serie di incentivi, come la promessa di fornire assistenza tecnologica a Teheran per lo sviluppo di un programma nucleare civile. Da parte iraniana, invece, il capo dei negoziatori, Saeed Jalili, ha a sua volta presentato un pacchetto in cinque punti che comprende una vasta gamma di questioni relative al nucleare e non solo.

Al di là del clima sostanzialmente cordiale di Baghdad, a testimonianza di come molti in Occidente siano più o meno apertamente ostili ad una risoluzione diplomatica della questione del nucleare iraniano, nei giorni precedenti il summit di Baghdad erano giunti numerosi segnali preoccupanti. Per cominciare, lunedì il Senato americano aveva approvato un’estensione delle sanzioni che gravano sul settore petrolifero iraniano colpendo altre due compagnie che operano in questo ambito e restringendo perciò ulteriormente i canali di vendita all’estero del greggio di Teheran.

All’inizio della scorsa settimana, inoltre, in un dibattito in tarda serata la Camera dei Rappresentanti aveva dato il via libera ad una risoluzione (H. Res. 568) che rende più facile l’azione militare contro l’Iran da parte statunitense. La misura autorizzerebbe di fatto un’aggressione preventiva nel caso l’Iran dovesse ottenere “la capacità di costruire armi nucleari”. La parola “capacità” è volutamente vaga e, in teoria, potrebbe già applicarsi alla situazione iraniana attuale ma anche a molti altri paesi come, ad esempio, Brasile o Giappone.

In un gesto probabilmente diretto al governo Netanyahu, giovedì scorso l’ambasciatore USA a Tel Aviv, Dan Shapiro, aveva poi detto alla radio dell’esercito israeliano che il suo paese ha già predisposto i piani necessari per un attacco contro l’Iran e che tale opzione è “totalmente disponibile”. Gli alleati europei degli Stati Uniti si sono anch’essi uniti al coro di minacce. Secondo quanto riportato mercoledì dalla BBC, infatti, il governo britannico starebbe valutando le proprie mosse in caso di un conflitto in Medio Oriente, scatenato da un’eventuale aggressione militare di Israele contro i siti nucleari iraniani.

Domenica scorsa, d’altra parte, il vice ministro degli Esteri russo, Sergey Rybakov, sul volo di ritorno dal G8 di Camp David aveva anch’egli confermato che alcuni paesi Occidentali stanno studiando una possibile azione militare contro l’Iran. Secondo Rybakov, “i segnali che ci giungono, sia dai canali pubblici che dalle fonti di intelligence, indicano come l’opzione militare in alcune capitali sia considerata realistica e possibile”.

Le provocazioni provenienti dall’Occidente e da Israele, secondo molti osservatori, servono soltanto a mantenere alta la pressione sul governo iraniano, così da convincerlo a cedere sulla questione del nucleare. Come si è più volte visto in questi anni, e non solo relativamente all’Iran, questa tattica aggressiva provoca tuttavia soltanto l’irrigidimento delle posizione della controparte e sembra perciò adottata precisamente per far naufragare i negoziati e giustificare un’azione più aggressiva per arrivare al rovesciamento di un regime non gradito.

Per quanto riguarda infine il vertice in corso a Baghdad, i negoziati continueranno nella giornata di giovedì, quando si conoscerà la risposta iraniana alla proposta dei P5+1. In ogni caso, come hanno messo in guardia i diplomatici presenti nella capitale irachena, dal summit ci si attende soltanto un eventuale accordo su misure volte a creare un clima di fiducia tra le parti, per poi riprendere i colloqui in una nuova sede nel prossimo futuro.


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