di Liliana Adamo

Sulla scia di quel nuovo socialismo di stampo americano tanto propagandato nei primi anni della presidenza Obama, la proposta di legge voluta dal City Council di New York, poteva considerarsi un segno poco trascurabile di “giustizia sociale” per una parte della working class, o invece, come sostengono i puri e crudi del liberismo, ennesimo ricorso allo statalismo occupazionale che aggrava i costi, per l'appunto quando le crisi alzano il numero dei disoccupati?

La legge intendeva imporre un tetto minimo salariale per quei lavoratori impiegati in progetti di grandi dimensioni, creati da sovvenzioni pubbliche (dal milione di dollari in su, per intenderci), con un limite di 11,50 dollari l’ora (appena 4 d’aumento rispetto al precedente), più 10 di benefici sul piano contributivo.

Ma, se il diavolo si nasconde nei dettagli, ecco che il plurimilionario sindaco newyorkese, Michael Bloomberg, è intervenuto drasticamente (col potere di veto), a stralciare questo pezzo di legislazione, minacciando addirittura di ricorrere ai tribunali qualora il presunto “salario di sussistenza” fosse stato convertito in norma federale.

La polemica sembra aver liquidato le attese elettorali concentrate sul “re di New York”, con  le attenzioni repubblicane (Romney in testa a tessergli le lodi) e le “avances” del presidente Obama. Viceversa, la situazione si è ribaltata all’indomani del suo no al salario minimo e Bloomberg, da leadership empatico per l’opinion poll, si è presto trasformato in “Sindaco Faraone”, giusto per citare l’appellativo più moderato da parte dei newyorkesi.

Di per sé, la mozione del City Council non minacciava impennate radicali, nulla di così “soviet”, dal momento in cui si era provveduto ad “annacquarla” come si deve, una volta portata sulla scrivania del “Faraone”. Secondo il quotidiano The Guardian, la stessa legge avrebbe riguardato un numero esiguo di lavoratori americani, mentre Bloomberg ha inveito per il danno certo alla creazione di nuovi posti di lavoro.

In tutta questa diatriba si sono formate due opposte fazioni (o correnti di pensiero, come si vogliano chiamare). L’una incentrata sull’opportunità d’applicare pesantemente alle leggi sul lavoro, il “tecnicismo del libero mercato” (nell’idea di sanare una crisi originata da tutt’altro che l’economia reale); l’altra, più semplicemente, fa i conti in tasca al sindaco plurimilionario e al suo entourage di “starnazzanti” imprenditori.

Bloomberg è fra i venti uomini più ricchi al mondo, il suo patrimonio conta, fra l’altro, un’intera stazione sciistica nel Colorado, grandi possedimenti terrieri, svariate proprietà immobiliari alle Bermuda, a Londra e nella stessa New York City.

Eppure, è stato pronto a porre il veto su un tetto di 11,50 dollari l’ora a garanzia di una “sussistenza” per la classe operaia della sua città, già provata da una crisi economica senza precedenti, da un lungo periodo di ristrettezze e inoccupazione. Un aumento di salario che sarebbe stato concesso solo nel caso di aziende finanziate da cospicui fondi pubblici.

Membro indiscusso di quell’elite finanziaria che ha portato al tracollo l’economia di mezzo mondo, anche Bloomberg si appassiona al tema della nuova “lotta di classe”, mettendo in mostra lacrime d’ipocrisia sui mancati posti di lavoro per la classe media americana.

 

 

di Carlo Musilli

Le elezioni sono finite, l'incertezza no. A una quarantina di giorni dalle ultime consultazioni che non avevano prodotto alcuna maggioranza parlamentare, la Grecia è tornata al voto. I conservatori di Nuova Democrazia (al 30%) si confermano primo partito del Paese, tallonati però da Syriza (26%), formazione di sinistra radicale guidata dal 37enne Alexis Tsipras. Molto distanti i socialisti del Pasok (12%), che si piazzano a terzo posto, seguiti con meno di 10 punti da Greci Indipendenti, Alba dorata, Sinistra Democratica (Dimar) e Partito Comunista (Kke).

In tutto, oltre 9 milioni di elettori (su una popolazione complessiva di poco superiore agli 11 milioni di persone) sono stati chiamati a scegliere fra 21 partiti e 4.815 candidati. Lo scorso 6 maggio l'astensionismo era arrivato al 35% e il 18% delle schede si era disperso fra una miriade di partitini che non era riuscita a superare la soglia di sbarramento, fissata al 3%. Alla vigilia del voto bis, tuttavia, il 40% dei greci (secondo un sondaggio della Metron Analysis) aveva intenzione di esprimersi in maniera differente.

In effetti, dopo il fallimento del mese scorso, stavolta il voto si è polarizzato in maniera più netta, come se invece di elezioni politiche si fosse trattato di un referendum a favore (Nd) o contro (Syriza) l'accordo d'austerity firmato da Atene con Ue e Fmi in cambio degli aiuti da 130 miliardi. Anche grazie alla generosità del sistema proporzionale greco, che prevede un premio di maggioranza particolarmente ampio (50 seggi sui 300 del Parlamento), oggi per creare una nuova maggioranza di governo è sufficiente l'alleanza fra Nd e Pasok. Gli stessi partiti che per anni hanno falsificato i conti pubblici portando il Paese allo sfacelo attuale.

Sull'insuccesso di Tsipras ha pesato un'impostazione manichea secondo cui Nuova democrazia voleva dire euro, mentre Syriza era sinonimo di dracma. In molti hanno fatto passare questa equazione, troppo lineare e semplice per convincere fino in fondo. La prima furbetta sulla lista è stata la cancelliera tedesca Angela Merkel, che sabato ha auspicato dalle urne greche "un risultato per cui quelli incaricati di formare il governo dicano sì al rispetto degli impegni". In altre parole: cari greci, votate Nuova Democrazia e finitela di seccarci.

Evidentemente nessuno ha spiegato a frau Merkel che per ora non gode di una grandissima popolarità in terra ellenica (come già in Francia, dove sostenne apertamente la ricandidatura di Sarkozy...). L'interferenza gratuita ha suscitato più sdegno che ossequio, e Tsipras si è permesso di ricordare alla cancelliera che nei Trattati Ue non c'è alcun articolo che prescriva l'adesione all'austerity per rimanere nell'Eurozona. Tanto meno a un Paese che in quattro anni ha visto il Pil crollare del 20% e la disoccupazione schizzare al 22%.

Certo, se le prossime tranche di aiuti internazionali non arrivassero, Atene non riuscirebbe più a pagare pensioni e stipendi pubblici già dal 20 luglio. Peccato che il successivo default sarebbe una mannaia sui conti delle banche di mezza Europa e gli istituti tedeschi ne risentirebbero più degli altri, esposti come sono sul debito greco. Ormai quindi non c'è bluff che tenga: la rinegoziazione del memorandum è data per certa.

Anche perché adesso non c'è più solo Syriza ad invocarla. Con un occhio ai sondaggi elettorali, anche Antonis Samaras, leader di Nd, si è convinto della necessità di chiedere a Bruxelles condizioni meno disumane per i cittadini greci. L'Europa sembra disponibile a qualche concessione: ridurre i tassi sul maxi-prestito, allungare di un paio d'anni i tempi per gli impegni di bilancio, garantire interventi infrastrutturali della Bei e rivedere gli 11 miliardi di nuovi tagli previsti entro fine giugno. Il resto dell'accordo però dovrà essere confermato in via definitiva.

Tsipras avrebbe voluto ben altro: dalla nazionalizzare del sistema bancario all'aumento dello stipendio minimo, passando per la cancellazione delle norme più pesanti in tema di lavoro, pensioni e fisco. Purtroppo per i greci, invece, a Samaras le condizioni di Bruxelles potrebbero bastare.   

 

di Michele Paris

L’amministratore delegato di JPMorgan Chase, Jamie Dimon, ha testimoniato mercoledì di fronte alla commissione bancaria del Senato USA nell’ambito dell’inchiesta sulla recente colossale perdita causata da operazioni speculative ad alto rischio condotte dall’ufficio londinese della banca d’affari americana. L’apparizione pubblica di uno dei più potenti banchieri di Wall Street, più che in un interrogatorio, si è risolta in un mortificante spettacolo di servilismo da parte di un gruppo di membri del Congresso eletti dal popolo ma che, in realtà, risultano pressoché interamente al soldo della stessa JPMorgan e delle principali istituzioni finanziare del paese.

Di fronte alla commissione del Senato, Dimon avrebbe teoricamente dovuto fare chiarezza sul comportamento dei vertici della sua banca in operazioni finite male e che sono costate ai suoi clienti due miliardi di dollari. Secondo la stampa finanziaria, la perdita complessiva per JPMorgan, annunciata pubblicamente ai primi di maggio, potrebbe arrivare a toccare addirittura gli otto miliardi di dollari.

L’audizione di mercoledì fa parte dell’indagine condotta dagli organi americani addetti alla regolamentazione del settore finanziario, nonché dall’FBI. Alla commissione bancaria, in ogni caso, Dimon sapeva benissimo di non correre alcun pericolo, dal momento che avrebbe avuto a che fare con un gruppo di senatori che egli stesso e la sua banca hanno finanziato abbondantemente in questi anni con centinaia di migliaia di dollari in contributi elettorali.

Pur scusandosi per l’errore commesso, definito un “evento isolato” la cui responsabilità è da attribuire ai suoi subordinati, Dimon ha difeso strenuamente JPMorgan, della quale si è detto “orgoglioso”, ostentando la solidità conservata durante la crisi finanziaria. Come previsto, nessuno dei 22 membri della commissione ha provato a porre a Dimon una qualche domanda scomoda nel corso delle due ore dell’udienza.

Da parte di qualche senatore democratico c’è stato un timido tentativo di sollevare la questione dell’eccessiva deregolamentazione del settore bancario, anche se nessuno ha nemmeno lontanamente accennato al comportamento criminale di JPMorgan. La maggior parte dei membri e, in particolare, i senatori repubblicani, ha invece fatto a gara nell’elogiare il banchiere che lo stesso presidente Obama ha recentemente definito come “uno dei più in gamba del paese”.

Tra i più entusiasti è stato il senatore repubblicano della Carolina del Sud, Jim DeMint, il quale ha lodato la situazione finanziaria di JPMorgan prima di finire quasi per scusarsi con Dimon per la sua convocazione di fronte alla commissione, visto che, a suo dire, “molti di noi sono manager bancari frustrati che vorrebbero gestire il vostro business al vostro posto”. Il collega repubblicano del Tennessee, Bob Corker, ha invece definito Dimon “giustamente celebre per essere uno dei migliori CEO del paese”.

L’arroganza di Jamie Dimon è emersa in un breve battibecco con il senatore democratico dell’Oregon, Jeff Merkley. Quando quest’ultimo ha sostenuto che JPMorgan è stata salvata nel 2008 grazie al denaro pubblico, Dimon ha ribattuto prontamente, accusando il senatore di essere disinformato e di aver fatto un’affermazione “di fatto sbagliata”.

Dimon ha anche avuto a disposizione una platea per criticare quelli che secondo lui sono i troppi vincoli applicati dalla politica all’industria finanziaria. Dopo aver ricordato come abbia appoggiato alcune misure contenute nella debole riforma finanziaria approvata dal Congresso nel 2010 (“Dodd-Frank law”), Dimon ha nuovamente attaccato la cosiddetta “Volcker rule”, inserita nella legge per vietare in teoria alle banche come JPMorgan, i cui depositi sono garantiti dal governo federale, di fare investimenti speculativi per il proprio profitto con il denaro dei propri clienti.

La “Volcker rule”, dal nome dell’ex governatore della Fed e già consigliere economico di Obama, è stata da subito fortemente avversata da Wall Street e perciò sensibilmente attenuata dalla Casa Bianca qualche mese fa per permettere alle banche di continuare le pratiche rischiose che sarebbero dovute essere bandite.

Quasi a giustificare la condotta della sua banca, Dimon ha poi detto che nel primo trimestre del 2012 JPMorgan ha accumulato 400 miliardi di dollari in maggiori depositi e che ha definito “denaro in eccesso” da investire in qualche modo. Con le piccole imprese sempre più in difficoltà nell’accedere al credito e i devastanti tagli alla spesa pubblica messi in atto in questi anni dal governo federale e dagli stati per far fronte ai buchi di bilancio, il sistema che permette a istituti come quello diretto da Jamie Dimon di prosperare fa dunque in modo che una montagna di “denaro in eccesso” possa essere impiegato in nuove rischiose operazioni speculative per aumentare il livello dei profitti.

Il trattamento riservato dal Senato al CEO di JPMorgan appare ancora più sconcertante alla luce delle sue evidenti responsabilità nella perdita da due miliardi di dollari e del comportamento tenuto per cercare di nascondere le conseguenze provocate dalle attività dell’ufficio di Londra (Chief Investment Office, CIO). Come hanno messo in luce alcune indagini giornalistiche, tra cui questa settimana quella pubblicata da Bloomberg News, il CIO era stato creato proprio da Dimon nel 2005 con il compito di incrementare il più possibile i profitti della banca piazzando scommesse ad alto rischio.

Il CIO era un’entità separata dal resto di JPMorgan e a coloro che vi operavano era espressamente consentito prendere rischi maggiori del dovuto per raggiungere gli obiettivi fissati. Come se non bastasse, sono emersi forti indizi che indicano come i vertici dell’istituto abbiano manipolato i bilanci per cercare di nascondere la perdita. JPMorgan, inoltre, avrebbe utilizzato tutta la propria influenza politica per evitare fastidiose ingerenze dei regolatori negli affari del CIO.

I segnali d’allarme all’interno di JPMorgan relativi alle operazioni fallimentari del CIO erano iniziate a circolare già dal mese di marzo. Il 13 aprile, tuttavia, nel corso di una conference call Dimon affermò che i timori sollevati erano solo “una tempesta in un bicchiere d’acqua”. Quando mercoledì il presidente della commissione bancaria, senatore Tim Johnson (democratico, Sud Dakota), ha chiesto a Dimon il motivo della sua affermazione avventata, quest’ultimo ha semplicemente ammesso di aver commesso un errore.

Jamie Dimon è uno dei banchieri di Wall Street con i maggiori legami a Washington e la sua banca ha influito in maniera decisiva sull’indebolimento della riforma finanziaria del 2010, soprattutto grazie ad un’aggressiva attività di lobby costata più di 7 milioni di dollari. Spendendo più di qualsiasi altro istituto finanziario per questo scopo, JPMorgan è stata in grado di assoldare abili lobbisti che, come di consuetudine a Washington, vantano precedenti legami con i membri del Congresso e, in particolare, con i senatori della commissione bancaria.

Secondo i dati del Center for Responsive Politics, inoltre, nella campagna elettorale 2012 JPMorgan ha finora sborsato 344 mila dollari a favore di candidati a cariche federali, di cui il 59% repubblicani e il 41% democratici.

Tra i maggiori beneficiari figurano proprio i membri della commissione che avrebbe dovuto mettere sotto torchio Dimon durante l’audizione dell’altro giorno. Il presidente Tim Johnson ha ad esempio incassato quest’anno da JPMorgan 39.000 dollari, Richard Shelby (repubblicano, Alabama) 73.000, Mark Warner (democratico, Virginia) 109.000, Jack Reed (democratico, Rhode Island) 30.000, il già citato Bob Corker 61.000 e Michael Crapo (repubblicano, Idaho) 34.000.

Anche lo stesso Dimon, il quale dopo aver sostenuto Hillary Clinton nelle primarie democratiche del 2008 staccò un assegno da 50 mila dollari per Obama, contribuisce personalmente alle campagne elettorali dei politici che occupano le posizioni più ambite a Washington, indipendentemente dall’affiliazione di partito, tra cui appunto i due membri più importanti della commissione bancaria del Senato, Tim Johnson e Richard Shelby.

di Michele Paris

Con l’aggravarsi del conflitto in Siria e il sempre più probabile fallimento del piano diplomatico promosso dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel modo arabo stanno moltiplicando gli sforzi per giungere ad un intervento armato esterno che porti alla rimozione del presidente Bashar al-Assad.

Negli ultimi giorni, i toni da Washington hanno fatto segnare un ulteriore innalzamento soprattutto contro il principale alleato di Damasco, la Russia, mentre continuano parallelamente ad emergere resoconti su alcuni dei più recenti episodi di violenza che smentiscono le ricostruzioni dell’opposizione al regime, quasi sempre accettate integralmente dai media e dai governi occidentali.

Fallito il tentativo di convincere Mosca ad appoggiare un piano di transizione pacifica in Siria, gli USA sembrano tornati in fretta ad affrontare a muso duro la Russia, accusando il Cremlino di essere il principale ostacolo ad una risoluzione del conflitto nel paese mediorientale. Infatti, martedì il Segretario di Stato, Hillary Clinton, parlando al fianco del presidente israeliano Shimon Peres presso la Brookings Institution di Washington, ha accusato la Russia di rifornire il regime di Assad con elicotteri da combattimento che verrebbero utilizzati per la repressione della rivolta.

La Clinton ha sostenuto di aver sollevato la questione delle forniture militari con il governo russo, il quale però avrebbe risposto che gli equipaggiamenti spediti a Damasco non vengono impiegati nel conflitto interno. Quest’ultima posizione di Mosca era stata espressa qualche giorno fa direttamente dal presidente Putin durante la sua visita a Berlino, ma per il capo della diplomazia USA sarebbe “sfacciatamente falsa”.

Le forniture di armi dalla Russia alla Siria avvengono peraltro in conformità di contratti già sottoscritti e dunque perfettamente legali. Come ha affermato il numero due della compagnia russa pubblica produttrice di armi, Rosoboronexport, citato dall’agenzia di stampa RIA Novosti martedì a Parigi, “nessuno può accusare la Russia di violare le regole sul commercio di armamenti fissate dalla comunità internazionale”.

Le accuse rivolte dagli Stati Uniti a Mosca vengono puntualmente amplificate dai media che a loro volta sottolineano come la vendita di armi, ancorché legale, contribuisca ad inasprire il clima internazionale, rendendo più complicata una risoluzione diplomatica della crisi siriana. Ciò che invece Hillary Clinton non ha detto è che, se anche gli elicotteri da combattimento di fabbricazione russa vengono impiegati dalle forze di sicurezza di Assad, segnando così un’escalation nell’uso della forza da parte del regime, ciò avviene in conseguenza dell’aumentata aggressività delle opposizioni armate.

I gruppi ribelli hanno infatti potuto espandere notevolmente le proprie azioni nell’ultimo periodo proprio grazie a massicce forniture di armi, a cominciare da potenti missili anticarro, provenienti in gran parte dalla Turchia e grazie all’appoggio finanziario di Arabia Saudita e Qatar con la supervisione di Washington. La Turchia continua in realtà ad affermare di limitarsi a fornire solo aiuti umanitari ai ribelli siriani.

Tuttavia, come confermano svariate testimonianze, Ankara fornisce da tempo armi e addestramento a gruppi come il “Libero Esercito della Siria” e rappresenta una delle voci più critiche nei confronti di Damasco. Questo genere di forniture militari, in ogni caso, non disturbano il Segretario di Stato americano, anche se sono di fatto il principale motivo del deterioramento della situazione in Siria.

L’aggravamento del conflitto è stato certificato in qualche modo anche dall’ONU proprio l’altro giorno, quando il responsabile delle operazioni di peacekeeping, Hervé Ladsous, ha definito ciò che accade in Siria come una vera e propria guerra civile. Membri dell’amministrazione Obama e i funzionari dell’ONU condividono ormai la tesi di una guerra di natura settaria tra la minoranza alauita (sciita) filo-Assad e l’opposizione sunnita. Tale scenario contraddice perciò la caratterizzazione proposta dai media e dai governi occidentali, secondo i quali quello in corso nel paese sarebbe uno scontro tra un regime dittatoriale e un’opposizione che si batte per la democrazia.

Con inquietanti affinità con l’Iraq del dopo Saddam Hussein e, come ha significativamente messo in luce qualche giorno fa il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, con il conflitto nella ex Yugoslavia, in Siria l’occidente sta infiammando lo scontro settario per i propri obiettivi strategici, cioè per gettare il paese nel caos e favorire un intervento armato che metta fine al regime di Assad.

Che la situazione sul campo in Siria sia più complessa di quanto non traspaia dalle versioni ufficiali è stato confermato anche da un reportage da Damasco di Rainer Hermann del giornale tedesco conservatore Frankfurter Allgemeine apparso il 7 giugno scorso (“Abermals Massaker in Syrien”). L’articolo è un’indagine sulle responsabilità del massacro di Houla, nel quale il 25 maggio sono stati uccisi più di cento civili, tra cui decine di donne e bambini, e che ha scatenato l’indignazione della comunità internazionale.

Al contrario di quanto affermato dai governi occidentali che, pur senza prove evidenti, avevano attribuito la responsabilità dell’accaduto interamente al regime o alle milizie Shabiha ad esso affiliate, l’investigazione del reporter del Frankfurter Allgemeine, basata su interviste con testimoni oculari, conferma in sostanza la tesi di Assad e cioè che la strage sarebbe stata commessa dai ribelli armati.

Il massacro sarebbe avvenuto in seguito ad un violento scontro a fuoco dopo un attacco di un gruppo di opposizione contro postazioni dell’esercito regolare appena fuori la città di Houla, a maggioranza sunnita, impiegato per proteggere alcuni villaggi popolati da sciiti. Secondo il giornalista tedesco, in questo scenario decine di civili di fede sciita e altri recentemente convertiti e ritenuti collaboratori del regime sarebbero stati sterminati dai ribelli sunniti.

Subito dopo i fatti, gli autori della strage hanno postato sul web filmati delle vittime, indicate come civili di fede sunnita, producendo una valanga di condanne contro Assad in tutto il mondo. Con perfetto tempismo, le violenze di Houla hanno preceduto di poche ore la già programmata visita di Kofi Annan a Damasco, rendendo ancora più complicati i negoziati per l’implementazione del piano di pace.

Le modalità del massacro, eseguito con sgozzamenti e colpi di arma da fuoco da distanza ravvicinata, coincidono inoltre con quanto riportato precedentemente da un altro giornale tedesco, Der Spiegel, il quale lo scorso marzo aveva pubblicato un’indagine sugli abusi commessi dai membri del Libero Esercito della Siria ai danni di presunte spie del regime e soldati catturati

Il reportage del Frankfurter Allgemeine non è stato praticamente citato dai principali media occidentali, pronti invece a ripetere senza alcun riscontro il quotidiano bilancio delle vittime della repressione del regime riportato dai gruppi di opposizione di stanza all’estero e finanziati dalle monarchie assolute del Golfo Persico, come il londinese Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.

Se dovesse corrispondere al vero, quanto scritto dal giornale tedesco solleverebbe dunque preoccupanti interrogativi sulle responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati nei fatti che hanno gettato la Siria nel caos, dal momento che, come conferma il sostegno garantito in termini economici, di armamenti e di addestramento, questi governi sono infatti, con ogni probabilità, perfettamente a conoscenza delle operazioni condotte dai ribelli nel conflitto contro il regime di Bashar al-Assad.

di Fabrizio Casari

Come si fabbrica un candidato alla presidenza? Con quali mezzi? E con quanto denaro? In Messico la risposta è: con una buona campagna mediatica, una televisione famosa e alcune centinaia di migliaia di dollari. Secondo documenti giunti in possesso del quotidiano britannico The Guardian, provenienti una fonte interna a Tele Visa, (la catena televisiva messicana più importante del paeseda atzeco ndr) risulterebbe che l’emittente avrebbe venduto a Enrique Pena Nieto, candidato alla presidenza del Messico per conto del PRI, un trattamento di favore nei suoi notiziari e nei suoi show principali per farlo apparire nel modo migliore agli occhi dell’elettorato.

Non solo: come non fosse già abbastanza riprovevole la liason, la stessa emittente si è parallelamente incaricata di screditare ove e come possibile la figura di Andrès Manuel Lopez Obrador, avversario di Pena Nieto in quanto candidato alla presidenza per conto del PRD. Obrador, da tutti chiamato AMLO, è collocato stabilmente al secondo posto nei sondaggi e le ultime proiezioni indicano una erosione costante delle intenzioni di voto per Pena Nieto a favore proprio di AMLO.

I documenti che proverebbero la combine tra l’azienda televisiva e il candidato del PRI - un tempo chiamato partito-stato proprio per l’altissima voracità dei suoi membri e la capacità di asfissiare il paese con i suoi tentacoli - sono ponderosi per quantità e affidabili per riscontri oggettivi e hanno ovviamente scatenato le proteste dei simpatizzanti del PRD e non solo. Perché la strategia mediatica dettagliata, destinata a intorpidire la figura dello sfidante, ricorda i favolosi investimenti dell’ex Presidente Vicente Fox (una delle figure peggiori della storia messicana) che in investimenti pubblicitari (fatturati poi allo stato) nel 2006  dilapidò una fortuna (occultandola) e riuscì ad imporsi (con documentati brogli annessi) proprio ai danni dello stesso candidato oggi oggetto della campagna di denigrazione congiunta Tele Visa-Pena Nieto.

D’altra parte, se risulta incontestabile la promozione televisiva di ogni candidato, non si può non vedere come essa dovrebbe essere trasparente, con spot elettorali o redazionali televisivi a pagamento, non con la manipolazione politico-elettorale a favore del candidato delle notizie dei Tg e dei contenuti nei talk-show più seguiti. A maggior ragione, poi, risulta illegittima l’opera di demolizione e discredito sul candidato sfidante, proprio perché parte consistente dello stesso accordo economico tra l’emittente e il committente.

In un paese dove risulta scarsa la lettura dei giornali e l’utilizzo di Internet, i programmi televisivi sono invece seguitissimi e Tele Visa e la sua concorrente, TV Atzeca, esercitano quindi un’enorme influenza sulla politica nazionale e gli orientamenti elettorali.

Tele Visa è un vero e proprio impero mediatico, é il gruppo di comunicazione in lingua spagnola più grande del mondo e controlla i due terzi della programmazione dei canali gratuiti messicani: il suo ruolo monstre non rappresenta quindi una novità assoluta.

Ma aver superato ogni linea di demarcazione etica nella relazione commerciale illustra un rapporto intimo tra l’emittente ed il PRI che tradisce l’assoluta mancanza di indipendenza della rete televisiva e la decenza del governatore-candidato. La partita ha come scopo impedire che la sinistra vinca le elezioni e in questo senso Andrès Manuel Lopez Obrador é solo il danno collaterale.

E se ancora non è stato possibile confermare l’autenticità della documentazione fatta prevenire al Guardian, sono però impressionanti le coincidenze tra quanto esposto e nomi, date e situazioni effettivamente verificatesi, così come risultano evidenti le applicazioni delle strategie contenute nell’accordo tra l’emittente e il candidato del PRI.

Ovviamente il Guardian ha chiesto un commento a Tele Visa, ma dall’emittente messicana è arrivato ad un rifiuto; sostengono che non sono a conoscenza di quanto denunciato e che, per tanto, non possono offrire commenti al riguardo. I documenti dove s'illustra la strategia mediatica a favore di Pena Nieto e contro AMLO sembrano essere stati realizzati dalla "Radar Servizi Specializzati", impresa di marketing diretta da uno dei vicepresidenti di Tele Visa, Alejandro Quintero. Il fatto poi che la documentazione informatica giunta al quotidiano britannico fosse a disposizione dell’archivio personale di Yessica de Lamadrid, amante di Pena Nieto e impiegata presso la Radar, sembra ulteriormente confortare la veridicità della denuncia.

La relazione di Tele Visa con l’establishment conservatore messicano esiste da sempre, ma questa nuova forma, decisamente contraria ad ogni etica, aveva trovato applicazione già nelle scorse elezioni presidenziali. Un ex dirigente dell’emittente ha dichiarato al Guardian di aver partecipato a riunioni nelle quali si discuteva la strategia contro Lopez Obrador dove si discuteva sul come farlo apparire "lento e inetto”. La documentazione arrivata al Guardian lo conferma, dato che alcuni dei documenti contengono una presentazione in power-point dal titolo: "Che AMLO non vinca le elezioni 2006”.

La strategia indicava chiaramente la necessità di “smantellare la percezione pubblica di AMLO come salvatore/martire attraverso l’aumento e la dilatazione di notizie sul crimine nella capitale (di cui AMLO era sindaco ndr) e promuovere storie di insicurezza personale nelle persone del mondo dello spettacolo".

La stessa strategia proponeva anche per gli show-man del gruppo televisivo un impegno in questa direzione e, dal principale programma di comicità fino alla versione messicana del Grande Fratello, tutti svolsero il loro compito, debitamente ricompensati; anche perché - rileva l’ex dirigente - “c’era una strategia, un cliente e tanto denaro a disposizione”.

Le polemiche che hanno fatto seguito alla scoperta dell’affaire rischiano ora di travolgere i loro protagonisti. Ma mentre Pena Nieto si limita a difendersi negando, senza peraltro convincere nessuno, l’emittente da segnali di grande prontezza mediatica, riposizionandosi con maggior equilibrio nello scontro elettorale: impaurita dal calo di credibilità, che porterebbe calo di ascolti e pubblicità, sta dando ora spazio all’opposizione e manda in onda una intervista durissima a Pena Nieto. Non sono segnali destinati a cambiare le strategie, ma solo a far credere ad una presunta neutralità che posizioni bene il gruppo editoriale quale che sarà il vincitore delle elezioni.

Perché Tele Visa, ha commentato un suo ex-dirigente, “era felice quando promuoveva il futuro vincitore, non tanto per chi era quanto perché vinceva”. In fondo, va detto, gli affari sono affari e la fedeltà è al denaro, non alle persone. Un antico dilemma domanda se siano i media ad influenzare i politici o i politici ad influenzare i media: ma solo i più avveduti capiscono come siano i soldi ad influenzare entrambi.


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