di Carlo Musilli

La crisi politica greca ha innescato una bomba a orologeria che nessuno in Europa sa come disinnescare. E aspettando le elezioni del prossimo 17 giugno, i grandi del mondo fanno melina. Dal G8 di Camp David sono emerse solo considerazioni ovvie e già sentite sul destino di Atene: "Affermiamo il nostro interesse affinché la Grecia resti nell'eurozona rispettando i suoi impegni", hanno scritto i leader dei Paesi più ricchi al mondo al termine del vertice. Unico cenno di humana pietas, il contentino con cui si "riconoscono i sacrifici penosi che i cittadini greci stanno affrontando come conseguenza della crisi".

Domenica mattina ci ha pensato Wolfgang Schaeuble a chiarire ogni ambiguità. Lontano dal glamour americano, in un'intervista alla Bild, il ministro delle finanze tedesco ha parlato chiaro: "Dire ai greci che non hanno bisogno di applicare le misure d'austerità concordate significa mentire loro - ha sottolineato Schaeuble -. La direzione che abbiamo scelto insieme alla Grecia deve essere seguita e sarà seguita", nonostante alcuni "credano ci poter eludere le proprie responsabilità".

Il ministro di Berlino ostenta una sicurezza che non ha ragion d'essere. A mettere in discussione il patto d'austerity siglato da Ue e Fmi con Atene non è una sparuta minoranza della politica ellenica, ma il partito che probabilmente uscirà vincitore dal voto del mese prossimo. Lo spauracchio che tiene col fiato sospeso mezza Europa è Syriza, formazione di sinistra radicale arrivata seconda alle elezioni di maggio.

A guidarla c’è Alexis Tsipras, che nelle ultime settimane ha conquistato una valanga di consensi grazie a un programma in aperta contraddizione con i piani di Bruxelles. Il giovane leader si dice contrario al rispetto delle misure lacrime e sangue, ma al tempo stesso vorrebbe mantenere il Paese all'interno dell'eurozona (come il 52% dei greci, secondo un sondaggio pubblicato dal settimanale Real News, che sottolinea anche come solo il 28,8% della popolazione sia disposto a rischiare il ritorno alla dracma).

Due obiettivi apparentemente inconciliabili, visto che gli interlocutori internazionali non sono disponibili a rinegoziare alcunché. D'altra parte, qualsiasi passo indietro di Atene rispetto agli impegni presi significherebbe rinunciare alle prossime rate degli aiuti da 130 miliardi.

Schaeuble poi fa finta di ignorare quanto l'ascesa di Tsipras sia stata favorita dalla goffaggine politica di Angela Merkel. L'ultima trovata della cancelliera è stata quella di "suggerire" al presidente delle Repubblica greca, Karolos Papoulias, la convocazione di un referendum con cui chiedere ai cittadini se restare o meno nell'euro.

La circostanza è stata timidamente smentita da Berlino, ma la conferma è arrivata dal settimanale Spiegel e da un giornalista della Bild, che ha detto perfino di essersi trovato nella stessa stanza con Papoulias mentre si svolgeva la telefonata della discordia.

Vera o falsa che sia la notizia, si è trattato comunque dell'ennesimo assist involontario a Tsipras, che ha sottolineato come "la signora Merkel abbia l'abitudine di rivolgersi ai dirigenti politici della Grecia come se si trattasse di un suo protettorato. Le prossime elezioni metteranno fine alla sottomissione".

Secondo un sondaggio condotto fra 16 e 17 maggio dalla Metron Analysis, oggi Syriza otterrebbe il 25,1% delle preferenze, mentre i conservatori di Nuova Democrazia si piazzerebbero al secondo posto con il 23,8% e i socialisti del Pasok arriverebbero sull'ultimo gradino del podio con il 17,4%.

Fra le prime due posizioni il distacco è minimo, ma quella manciata di punti o di decimi potrebbe rivelarsi decisiva per il futuro del Paese, considerando che la legge elettorale greca concede un premio di maggioranza di 50 seggi sui 300 del Parlamento. Numeri che spiegano chiaramente perché la scorsa settimana Tsipras abbia impedito per ben tre volte la formazione del governo, puntando tutto sul ritorno alle urne.

Ma cosa succederebbe se davvero Syriza guidasse il prossimo esecutivo? Secondo un'analisi del Wall Street Journal, gli scenari possibili sono tre. La prima ipotesi è che il nuovo governo ripudi il piano di salvataggio: in questo caso Ue e Fmi sospenderebbero l'erogazione dei prestiti e le casse di Atene si ritroverebbero vuote già a luglio. La Grecia non potrebbe più ripagare alcun debito e la ricapitalizzazione delle banche sarebbe impossibile. A quel punto il ritorno alla dracma sarebbe inevitabile e la speculazione internazionale passerebbe a sbranare le economie di Portogallo e Spagna.

La seconda possibilità è forse la più auspicabile, ma allo stesso tempo potrebbe rivelarsi un suicidio elettorale per frau Merkel (già isolata fuori casa dal nuovo asse Washington-Parigi, che passa per la mediazione di Roma). Si tratterebbe di trovare un nuovo accordo Bruxelles-Atene per rinegoziare i patti già siglati, allungando i tempi di attuazione delle misure e rivedendo le regole più dure soprattutto in tema di stipendi, licenziamenti e pensioni. Oltre alla Germania, si oppongono a qualsiasi nuova concessione anche Finlandia e Norvegia.

Infine, la terza strada ipotizzabile è quella sognata dai funzionari Ue. Ma è anche la meno probabile. In sostanza, il nuovo governo greco dovrebbe rinunciare a qualsiasi rivendicazione, obbedendo all'Europa e applicando alla lettera tutte le misure concordate. L'economia ellenica continuerebbe a crollare anno dopo anno, ma gli avvoltoi della speculazione volerebbero ancora nel cielo ellenico. Evitando pericolose migrazioni. 

 

di Michele Paris

I 28 paesi membri della NATO hanno chiuso lunedì l’atteso vertice di Chicago approvando formalmente il piano americano per la chiusura delle operazioni militari in Afghanistan entro la fine del 2014. La risoluzione del conflitto, tuttavia, continua ad essere complicata, tra l’altro, dalle difficili relazioni di Washington con il Pakistan e dalla resistenza di molti paesi europei a provvedere al finanziamento delle forze di sicurezza afgane nel contesto della crisi economica in atto e della crescente impopolarità di una guerra che si trascina ormai da oltre un decennio.

Secondo il calendario stabilito dagli Stati Uniti, tutte le missioni di combattimento ISAF (International Security Assistance Force) dovranno essere ultimate e trasferite alle forze di sicurezza locali entro la metà del prossimo anno, mentre l’intero contingente straniero sul suolo afgano verrà ritirato alla fine del 2014. Oltre a dipendere dalla situazione sul campo, però, il ritiro delle truppe di occupazione sarà tutt’altro che completo, dal momento che gli USA si sono già assicurati le permanenza di un certo numero di propri soldati ben oltre il 2014 grazie all’accordo sulla partnership strategica siglato tra Obama e il presidente Karzai qualche settimana fa a Kabul.

In ogni caso, secondo il piano statunitense, per mantenere le forze di sicurezza afgane dopo il 2014 saranno necessari 4,1 miliardi di dollari all’anno. Il conto sarà pagato in buona parte da Washington, ma, a parte 500 milioni di dollari a carico del governo di Kabul, i paesi alleati dovranno sborsare complessivamente 1,3 miliardi. La richiesta di denaro per continuare a finanziare le operazioni in Afghanistan è giunta proprio all’indomani del G8 di Camp David, durante il quale i partecipanti hanno sostanzialmente concordato sulla necessità di proseguire le politiche di rigore nei rispettivi paesi.

Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha comunque assicurato che a Chicago alcuni paesi membri hanno già promesso di fare la loro parte, tra cui l’Italia che dovrebbe garantire 120 milioni all’anno. L’impegno di molti governi è del tutto teorico, dal momento che lo stanziamento di denaro si scontra con la sfiducia sempre maggiore dell’opinione pubblica verso il conflitto in Afghanistan e con i malumori diffusi per le misure di austerity imposte dagli ambienti finanziari internazionali.

Che la promessa di chiudere la guerra in Afghanistan, fatta da Obama nella sua città, sia solo retorica lo ha confermato anche il comandante delle forze di occupazione, generale John Allen. In un’intervista rilasciata domenica, quest’ultimo ha ammesso che il calendario annunciato dalla Casa Bianca per il disimpegno delle forze armate dal paese verrà difficilmente rispettato.

Alla luce delle serie minacce che persisteranno nel prossimo futuro, Allen ha definito come probabile l’impiego del contingente ISAF in operazioni di combattimento per tutti i prossimi due anni e mezzo. Inoltre, anche se le responsabilità di condurre azioni di guerra verranno gradualmente trasferite agli afgani, la NATO conserverà la facoltà di impiegare a questo scopo le proprie truppe che rimarranno sul campo.

A complicare il piano di ritiro e il passaggio di consegne all’esercito afgano c’è anche la decisione del neo-presidente francese, François Hollande, di ritirare i 3.300 soldati del proprio paese già entro la fine del 2012. Hollande lo ha ribadito alla vigilia del summit di Chicago in un faccia a faccia con Obama, anche se negli ultimi giorni ha fatto una parziale marcia indietro dalla sua promessa elettorale, annunciando che alcune truppe francesi rimarranno in Afghanistan dopo la fine dell’anno con il compito di addestrare le forze di sicurezza locali.

Le questioni legate all’Afghanistan erano state anticipate dallo stesso Obama domenica in un incontro separato con il presidente Karzai. In un’atmosfera meno tesa rispetto ai precedenti faccia a faccia, pubblicamente i due hanno riconosciuto a vicenda i sacrifici fatti dai rispettivi paesi in oltre dieci anni di guerra, mentre Obama ha incoraggiato Karzai ad adottare le riforme democratiche necessarie a facilitare la transizione politica quando terminerà il mandato di quest’ultimo nel 2014.

La due giorni di Chicago non ha però risolto lo stallo tra gli Stati Uniti e il Pakistan sulla riapertura delle rotte di terra nel paese centro-asiatico ai convogli NATO diretti in Afghanistan, chiuse da Islamabad lo scorso novembre in seguito all’uccisione da parte dei militari americani di 24 soldati pakistani in uno scontro di frontiera. Dopo settimane di negoziati tra le due parti, un accordo appariva imminente ma sembra essere fallito a causa della mancata intesa sull’entità del pedaggio richiesto dal governo pakistano e che dovrebbe passare da 250 a ben 5 mila dollari per ogni singolo convoglio in transito.

Per favorire le trattative e, verosimilmente, per procedere con un annuncio congiunto, il presidente pakistano, Asif Ali Zardari, era stato invitato all’ultimo minuto al vertice di Chicago ma, in assenza di un accordo, non è stato ricevuto da Obama, anche se ha avuto un lungo incontro con il Segretario di Stato, Hillary Clinton. Secondo molti osservatori, un accordo sulla riapertura del territorio pakistano al passaggio delle forniture NATO dirette in Afghanistan dovrebbe essere comunque vicino. Le difficoltà sono legate principalmente al diffuso sentimento anti-americano tra la popolazione pakistana, visto che la classe dirigente locale appare ben intenzionata a normalizzare i rapporti con Washington, da cui riceve annualmente ingenti finanziamenti.

Il sostanziale ottimismo manifestato a Chicago contrasta con la realtà sul campo in Afghanistan, dove il sentimento anti-occidentale continua ad alimentare la resistenza all’occupazione. Oltre ai recenti nuovi episodi che hanno visto membri delle forze di sicurezza afgane aprire il fuoco su soldati ISAF, proprio domenica sono stati registrati almeno due attentati suicidi che hanno fatto un numero imprecisato di vittime tra le truppe americane.

Nella giornata di domenica, il Patto Atlantico ha poi deciso di rendere operativo il sistema di difesa missilistico che verrà installato in alcuni paesi dell’Europa orientale e che dovrebbe essere ultimato nel 2018. Il sistema serve ufficialmente a difendere l’Europa da eventuali missili iraniani, ma la Russia lo considera una minaccia al proprio deterrente nucleare. Soprattutto per questo motivo, con ogni probabilità, il presidente Putin non ha partecipato né al G8 di Camp David né al summit NATO di Chicago, inviando al suo posto il primo ministro Medvedev.

L’industria bellica americana ha infine beneficiato nuovamente della generosità dei paesi NATO. Domenica a Chicago, infatti, l’Alleanza ha firmato un contratto da 1,7 miliardi di dollari con Northrop Grumman per l’acquisto di un “sistema di sorveglianza e di intelligence” che include cinque droni Global Hawks.

Lo stimolo all’aumento delle spese belliche anche in tempi di austerity fa parte dello sforzo da parte di Washington per ridurre l’impegno economico americano all’interno della NATO, per la quale provvede ora per circa i tre quarti del bilancio, e di aumentare quello degli alleati. Da qui l’appello di Obama ai paesi membri per investire nelle “strutture difensive e nelle nuove tecnologie per rispondere alle nostre esigenza collettive”.

Le politiche militaristiche della NATO a Chicago sono state promosse ancora una volta tra l’ostilità della maggioranza della popolazione e con l’adozione di metodi da stato di polizia. A confermarlo è stata la durissima risposta delle forze di sicurezza americane alle dimostrazioni pacifiche andate in scena nel fine settimana nella metropoli dell’Illinois.

Solo domenica sono stati arrestati 45 manifestanti, mentre in precedenza erano stati fermati cinque giovani con l’accusa di aver progettato azioni terroristiche contro siti sensibili a Chicago, come la residenza privata del sindaco, Rahm Emanuel, e il quartier generale della campagna per la rielezione di Obama. Come già accaduto nel recente passato in seguito ad operazioni ideate interamente dall’FBI per alimentare il panico nella popolazione e giustificare misure gravemente lesive dei diritti democratici, i cinque arrestati sono stati di fatto incastrati da due informatori della polizia che hanno montato ad arte i presunti attentati terroristici nel corso del summit della NATO.

di Michele Paris

Una recente sentenza a sorpresa di un giudice federale americano ha imposto al governo di sospendere l’applicazione di una delle più discutibili misure relative alla “guerra al terrore”, approvata da Obama sul finire dello scorso anno. Ad essere stata bloccata con un’ingiunzione preliminare è la norma che assegna al presidente la facoltà di decidere la detenzione indefinita e senza processo presso l’autorità militare di chiunque sia sospettato di sostenere o di far parte di un’organizzazione terroristica, anche se arrestato sul territorio degli Stati Uniti.

Il provvedimento in questione è noto come Sezione 1021 del National Defense Authorization Act (NDAA), cioè il pacchetto da oltre 600 miliardi di dollari stanziato dal Congresso per finanziare le forze armate americane nel 2012 nel quale è appunto contenuto. Contro la Sezione 1021, lo scorso Gennaio un gruppo di giornalisti e attivisti aveva avviato un procedimento legale, nel timore che il loro lavoro potesse esporli a detenzione indefinita.

Tra di essi spiccano l’ex reporter del New York Times e premio Pulitzer, Chris Hedges, Noam Chomsky, la parlamentare islandese Birgitta Jónsdóttir, portavoce di WikiLeaks, e Daniel Ellsberg, l’ex analista dell’esercito che nel 1971 passò alla stampa i Pentagon Papers. I giornalisti coinvolti hanno lamentato la possibilità di finire sotto custodia militare indefinita nel caso, ad esempio, dovessero entrare in contatto con membri di Al-Qaeda o dei Talebani nel corso delle loro indagini.

Il punto cruciale per i denuncianti è la insufficiente chiarezza fatta dal Congresso e dalla Casa Bianca sul contenuto della legge che autorizza la detenzione indefinita per coloro che “fanno parte o sostengono in maniera sostanziale Al-Qaeda, i Talebani o altre forze associate, impegnate in ostilità con gli Stati Uniti o i loro alleati, incluso chiunque abbia commesso un atto belligerante o abbia contribuito direttamente a tali ostilità aiutando queste forze nemiche”.

Il giudice federale Katherine Forrest del distretto meridionale di New York, nominata l’anno scorso da Obama, nel corso di un’udienza nel mese di Marzo aveva chiesto all’avvocato del Dipartimento di Giustizia, Benjamin Torrance, se Hedges e gli altri accusatori, nel caso fossero entrati in contatto con Al-Qaeda o con esponenti talebani, avessero rischiato la detenzione indefinita senza processo.

Il rappresentante dell’amministrazione Obama non era stato però in grado di dire se tale comportamento rientrasse nella Sezione 1021 dell’NDAA. Ancora, lo stesso giudice aveva chiesto a Torrance di definire concretamente i concetti di “forze associate” e “in maniera sostanziale”, ma anche in questo caso il legale del governo aveva sostenuto di non poter fornire “esempi specifici”.

Il giudice Forrest ha perciò alla fine stabilito che “è responsabilità del sistema giudiziario proteggere la popolazione da atti del Congresso che siano contrari ai diritti costituzionali”, in quanto la vaghezza della legge viola con ogni probabilità il Primo e il Quinto Emendamento della Costituzione americana, i quali garantiscono rispettivamente la libertà di parola e la protezione contro l’abuso dell’autorità governativa.

In aula, il legale dell’amministrazione Obama ha sostenuto che i denuncianti non avrebbero alcun fondamento legale per la loro azione contro il governo e che la Sezione 1021 conferma semplicemente i poteri attribuiti al presidente con l’Autorizzazione all’Uso della Forza Militare contro i Terroristi (AUMF), approvata all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.

Diversa è stata però l’interpretazione del giudice Forrest, la quale ha ritenuto che tra l’AUMF e la Sezione 1021 dell’NDAA esistono importanti differenze, in quanto la prima era riferita esclusivamente ai responsabili dell’11 settembre, mentre la seconda non indica esplicitamente quali individui siano da considerare terroristi e perciò si applicherebbe anche a persone non coinvolte negli attentati al World Trade Center.

L’amministrazione Obama avrà ora 60 giorni per presentare appello contro la decisione del tribunale federale. Anche se quest’ultima dovesse essere confermata e la Sezione 1021 dichiarata incostituzionale, il resto della legge resterebbe comunque in vigore, così come fondamentalmente inalterata rimarrebbe la struttura pseudo-legale e anti-democratica costruita in nome della guerra al terrore.

Al momento della firma sull’NDAA il 31 dicembre scorso, Barack Obama manifestò “serie riserve” sui punti della legge relativi al trattamento dei presunti terroristi, aggiungendo che la sua amministrazione non avrebbe autorizzato detenzioni indefinite presso l’autorità militare senza processo per i cittadini americani.

Ciononostante, l’amministrazione Obama ha deciso di difendere in tribunale la Sezione 1021, sostenendo che tale misura è appunto una conferma di quanto adottato dal Congresso nel settembre 2001 e che riconosceva implicitamente la facoltà del presidente di decidere la sorte dei sospettati di terrorismo al di fuori dei normali procedimenti legali.

Sulla questione delle detenzioni indefinite si era mosso nei giorni scorsi anche il Congresso. Alla Camera dei Rappresentanti è stato infatti presentato un emendamento, presentato dai deputati Adam Smith (democratico dello stato di Washington) e Justin Amash (repubblicano del Michigan), ad un nuovo stanziamento di fondi per il Pentagono che avrebbe stabilito la non applicazione della detenzione indefinita per i sospettati di terrorismo arrestati sul suolo americano.

La modifica proposta era il risultato della collaborazione tra parlamentari progressisti e libertari vicini ai Tea Party, ma, alla luce della prevalenza dei falchi sulle questioni della sicurezza nazionale al Congresso, venerdì è stata bocciata a larga maggioranza durante il voto in aula.

di Michele Paris

Un recente articolo del Washington Post ha rivelato come nell’ultimo periodo i “ribelli” armati in Siria stiano ricevendo massicce forniture di armi dall’estero, in gran parte grazie agli sforzi dei paesi del Golfo Persico e sotto il “coordinamento” di Washington. La notizia conferma le intenzioni di questi governi di voler far precipitare la situazione nel paese mediorientale, alimentando le violenze e lo scontro con il regime di Assad, nonostante sia tuttora in corso la missione ONU promossa da Kofi Annan per cercare di trovare una soluzione pacifica ad un conflitto che si trascina ormai da oltre un anno.

Ufficialmente, gli Stati Uniti provvedono alla fornitura soltanto di “materiale non letale” all’opposizione siriana ma, di fatto, facilitano il trasferimento di armi appoggiando l’impegno in questo senso delle monarchie assolute del Golfo, le quali, come Washington, auspicano un cambio di regime a Damasco per infliggere un colpo mortale all’Iran.

Nonostante il presunto atteggiamento cauto degli americani, scrive il Washington Post citando anonimi funzionari del Dipartimento di Stato, l’amministrazione Obama sta comunque intensificando i contatti con i ribelli armati, per cercare di promuovere l’unità delle fazioni che ne fanno parte e per coordinare le iniziative contro le forze di sicurezza del regime.

Questo impegno viene puntualmente descritto come inevitabile per il governo americano, dal momento che la situazione in Siria continua a precipitare a causa della repressione senza scrupoli di Assad, lasciando ben poche speranze ad una soluzione negoziata della crisi. In realtà, la situazione sta precipitando anche e soprattutto a causa dell’atteggiamento degli USA e dei loro alleati nel mondo arabo che, come dimostra la massiccia fornitura di equipaggiamenti militari, cercano di alimentare il caos nel paese per giustificare una qualche forma di intervento esterno.

Secondo il Washington Post, mentre i ribelli fino a un paio di mesi fa erano a corto di armi, ora il materiale bellico abbonda nei depositi di Damasco, Idlib e Zintan, queste ultime due località al confine rispettivamente con Turchia e Libano, da dove transitano principalmente le forniture dirette all’opposizione.

Il nuovo flusso di armi verso la Siria sarebbe la conseguenza della decisione presa recentemente da paesi come Arabia Saudita e Qatar di sborsare centinaia di milioni di dollari per finanziare le operazioni anti-Assad nel paese. Il denaro proveniente dal Golfo finisce soprattutto per beneficiare quelle fazioni che avanzano l’agenda delle monarchie sunnite, a cominciare dai Fratelli Musulmani che, proprio grazie a questi appoggi esterni, si sono assicurati una posizione di spicco all’interno della struttura organizzativa dell’opposizione siriana.

L’importanza del ruolo giocato comunque dagli Stati Uniti è confermata dagli stessi esponenti dell’opposizione, i quali hanno rivelato di essere in contatto diretto con il Dipartimento di Stato americano per indicare a quali gruppi debbano essere indirizzate le forniture di armi.

Dopo le ritirate nei mesi scorsi da località propagandate come simbolo della resistenza dai media occidentali, come il quartiere di Baba Amr a Homs, i ribelli si ritrovano dunque ora sufficientemente equipaggiati per riprende l’avanzata e mettere in atto azioni sempre più spregiudicate. Un’evoluzione che, come dimostrano gli episodi sanguinosi di questi giorni, minaccia di aggravare la crisi, spingendo la Siria verso la guerra civile.

Ad aumentare le tensioni è stata inoltre l’altro giorno la diffusione della notizia, riportata da alcuni media russi, che gruppi di militanti anti-Assad sarebbero stati inviati in Kosovo per ricevere addestramento sulle tattiche di guerriglia. La rivelazione ha suscitato l’immediata condanna da parte del Cremlino, da dove da tempo già si punta il dito contro i governi occidentali, accusati di fomentare le violenze in Siria e di essersi schierati apertamente con l’opposizione per rovesciare il regime alleato di Mosca.

Lo stesso articolo del Washington Post ha infine evidenziato un’altra iniziativa degli Stati Uniti che potrebbe aumentare il caos in Siria nonostante l’appoggio formale al piano di pace di Kofi Annan. Esponenti dell’amministrazione Obama avrebbero cioè incontrato questa settimana una delegazione della minoranza curda siriana, finora rimasta in gran parte neutrale nel conflitto per il timore di finire nuovamente emarginata in un eventuale futuro regime a maggioranza sunnita.

Durante il meeting, gli americani, con ogni probabilità promettendo in cambio qualche concessione dal prossimo regime, avrebbero cercato di convincere i leader curdi in Siria a schierarsi apertamente contro Assad e ad aprire un secondo fronte nel paese per contribuire al logoramento delle forze di sicurezza di Damasco. Com’è ovvio, l’allargamento del conflitto porterebbe a nuove violenze in aree del paese fino ad oggi relativamente risparmiate dalle ostilità.

In uno scenario nel quale la possibilità di un intervento armato esterno appare ancora lontana, a causa della ferma opposizione di Russia e Cina nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il rafforzamento delle opposizioni armate appare per gli USA e i loro alleati la soluzione migliore per giungere al cambio di regime a Damasco, anche se il Pentagono ha da tempo preparato i piani per un’ipotetica azione militare in Siria.

I presunti rappresentanti dei ribelli che operano sul campo, intanto, martedì hanno proceduto ad estendere per altri tre mesi il mandato alla guida del Consiglio Nazionale Siriano (CNS) di Burhan Ghalioun. La decisione, presa durante un incontro a Roma, ha provocato le polemiche di molti membri del CNS, poiché in precedenza era stata stabilita una rotazione alla presidenza del comitato esecutivo del gruppo, mentre Ghalioun si trova ora ad iniziare il suo terzo mandato.

Il CNS è d’altra parte attraversato da profonde divisioni tra le varie fazioni che lo compongono, sintomo principale della sua sostanziale impopolarità tra la grande maggioranza della popolazione siriana che vorrebbe rappresentare.

Nonostante riceva l’appoggio incondizionato e i massicci finanziamenti dell’Occidente e dei paesi del Golfo e trovi quotidianamente nei media mainstream un’ampia cassa di risonanza, il CNS continua a distinguersi per la mancanza di coordinamento tra i propri membri, la struttura rigida e anti-democratica ed è esposto all’eccessiva influenza dei Fratelli Musulmani a discapito delle fazioni secolari. Molti dissidenti hanno perciò abbandonato in polemica il CNS sia prima che dopo la discussa rielezione di Ghalioun.

A testimoniare dello stato in cui si trova l’organo su cui punta Washington per assicurare una transizione verso un nuovo regime a Damasco meglio disposto verso i propri interessi ha contribuito il parere espresso qualche giorno fa al Wall Street Journal dal veterano dissidente siriano Fawaz Tello. Quest’ultimo, dopo aver lasciato recentemente la Siria proprio per collaborare con i vertici del CNS a Parigi e a Istanbul, ha definito il Consiglio stesso “un cadavere che l’intera comunità internazionale sta cercando disperatamente di resuscitare”.

di Michele Paris

A poche settimane dall’avvio ufficiale della campagna elettorale per le presidenziali negli Stati Uniti, i due principali candidati alla Casa Bianca si stanno scontrando in questi giorni sulla delicata questione delle responsabilità del settore finanziario d’oltreoceano nella crisi economica e sulla sua regolamentazione. I toni populisti di Obama si scontrano con la difesa pressoché totale di Wall Street da parte di Mitt Romney, anche se la retorica elettorale nasconde una realtà ben diversa, cioè il completo asservimento di entrambi i partiti all’oligarchia finanziaria americana.

Questa settimana, il presidente democratico ha lanciato una nuova campagna televisiva e sul web volta a screditare il rivale repubblicano, accusato di aver agito senza scrupoli durante gli anni trascorsi alla guida della compagnia operante nel private equity, Bain Capital. In particolare, il video prodotto dal team di Obama racconta di come la compagnia di Romney fece fallire un’acciaieria del Missouri nel 2001 dopo averla acquisita nel 1993, provocando la perdita del posto di lavoro per tutti e 750 i dipendenti, pur incassando dall’operazione qualcosa come 12 milioni di dollari.

Se la vicenda descritta dimostra efficacemente i disastri compiuti da simili compagnie e la condotta del miliardario mormone mentre operava nel private equity, quest’ultimo settore rappresenta tuttavia una consistente fonte di finanziamenti per lo stesso Obama.

Poco dopo la presentazione del video elettorale anti-Romney, infatti, il presidente ha partecipato ad una raccolta fondi esclusiva presso l’abitazione di Manhattan di Hamilton “Tony” James, presidente di Blackstone Group, la più importante compagnia statunitense del private equity. I partecipanti all’evento newyorchese con Obama hanno sborsato 35.880 dollari ciascuno per essere presenti, consentendo alla campagna elettorale del presidente di raccogliere più di due milioni di dollari in un colpo solo.

La doppiezza di Obama, il quale nel recente passato aveva più volte indicato Blackstone Group come uno degli esempi degli eccessi di Wall Street, ha costretto uno dei suoi portavoce a spiegare ai giornalisti che le critiche della Casa Bianca sono sempre state rivolte agli individui e non all’industria finanziaria in quanto tale. Come se non bastasse, da Bain Capital la campagna per la rielezione di Obama ha già ottenuto finanziamenti tra i 100 e i 200 mila dollari grazie agli sforzi nella raccolta fondi di Jonathan Lavine, uno dei top manager della compagnia che fu di Mitt Romney.

Gli attacchi di Obama all’ex governatore del Massachusetts e al mondo della finanza sono iniziati qualche giorno dopo la diffusione della notizia della perdita di 2 miliardi di dollari subita dalla banca d’affari JPMorgan Chase in seguito ad operazioni speculative condotte dall’ufficio di Londra.

Oltre a dimostrare che dopo quasi quattro anni dal crollo di Lehman Brothers, che innescò una rovinosa crisi planetaria, non sono state adottate misure efficaci per regolamentare il settore finanziario, la debacle di JPMorgan rappresenta un imbarazzo per entrambi i candidati alla Casa Bianca.

Solo per la campagna elettorale in corso, i dati del Center for Responsive Politics indicano che Barack Obama ha ottenuto finora 76.675 dollari dai dipendenti JPMorgan. Decisamente più alta è la cifra andata invece a Romney, di gran lunga il maggior beneficiario delle donazioni JPMorgan quest’anno con 373.650 dollari. Il CEO, Jamie Dimon, pur contribuendo solitamente per entrambi i partiti, ha peraltro prediletto quelli democratici, ai quali ha personalmente donato oltre 150 mila dollari dal 2007 ad oggi. Secondo i dati resi pubblici martedì, infine, la famiglia Obama dispone di un conto presso JPMorgan per una cifra compresa tra i 500 mila e il milione di dollari.

Sulla vicenda JPMorgan, nel corso di una recente intervista Obama ha sostenuto che simili esempi dimostrano come sia necessaria una più incisiva regolamentazione del settore finanziario, mentre Romney chiede addirittura l’abrogazione della già debole riforma approvata dai democratici nel luglio 2010 (Dodd-Frank Act). Tuttavia, ben consapevole dell’importanza del denaro di Wall Street per le sue possibilità di rielezione, il presidente ha avuto parole di elogio per JPMorgan, definita “una delle banche meglio gestite”, e per Jamie Dimon, a suo dire “uno dei banchieri più capaci”.

L’indulgenza di Obama è d’altra parte in sintonia con le rassicurazioni offerte più volte da egli stesso e dai membri del suo staff agli ambienti finanziari, come ha fatto lo scorso febbraio, secondo quanto riportato l’altro giorno da Bloomberg News, il responsabile della campagna elettorale del presidente, Jim Messina, il quale nel corso di un incontro con facoltosi donatori del Partito Democratico ha garantito che il presidente non intende in nessun modo demonizzare Wall Street.

Le uscite di Obama contro le élite economiche e finanziarie degli Stati Uniti sono dunque pure trovate propagandistiche che fanno leva sulla profonda avversione comprensibilmente diffusa nel paese verso i responsabili della crisi in corso.

Con un’economia che mostra solo debolissimi segnali di miglioramento, l’inquilino della Casa Bianca si ritrova perciò costretto a puntare su appelli populisti, accusando Wall Street per la precaria situazione interna. Tanto più che i sondaggi di questi giorni indicano una certa ripresa di Mitt Romney e ancora maggiori difficoltà in vista per il presidente se il quadro economico dovesse peggiorare nei prossimi mesi. Una recente indagine di USA Today e Gallup, ad esempio, indica come il 55% degli americani ritenga che l’economia migliorerebbe con Romney presidente, contro appena il 46% nel caso Obama dovesse riuscire a conquistare la rielezione il prossimo novembre.


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