di Bianca Cerri

Il DeWeese Carter Center è un carcere minorile di Baltimora dove negli ultimi mesi la violenza nei confronti dei giovani reclusi è aumentata del 25%. In cifre: ottocento ragazzi con meno di diciotto anni sono stati sottoposti a punizioni che non è esagerato definire disumane. In altri centri di detenzione giovanile del Maryland, i minori vengono incarcerati per mesi prima di essere ascoltati dal giudice o trasferiti in strutture che potrebbero agevolarne il recupero. Nella contea di Prince George la situazione è più grave che altrove.

Ragazzi che potrebbero facilmente essere aiutati vengono invece rinchiusi in cella con altri accusati di crimini di primo grado. “Molti di questi giovani avrebbero bisogno unicamente  di trattamenti disintossicanti”, dice Sam Abed, che ha lavorato due anni presso il segretariato ai servizi riservati ai minori. Purtroppo, il dipartimento di Stato pare si disinteressi completamente del problema. La situazione è resa ancora più grave dal sovraffollamento.

Rodney Stallworth, che oggi ha 18 anni, ha trascorso cinque mesi nel DeWeese Carter Center. “Le guardie non esitavano a picchiarci”, dice Stallworth. “Ogni giorno non facevano che gettare altro sale sulle nostre piaghe”, aggiunge. “Per recuperare questi ragazzi non c’è altro metodo che l’uso della forza”, ribattono i responsabili del Centro. Eppure, i dati dimostrano che il 45% per cento dei minori attualmente rinchiusi al DeWeese non aveva commesso reati violenti.

Secondo la legge, i  ragazzi di età inferiore a 18 anni dovrebbero essere trattenuti nei riformatori solo il tempo necessario per permettere al giudice di trovare loro un posto in un centro di riabilitazione. Secondo le associazioni che si occupano di minori in difficoltà invece molti vengono trattenuti per mesi e mesi in attesa che un giudice si ricordi di loro.

“Servirebbero trattamenti e programmi sportivi che aiutino i ragazzi a recuperare la stima in sé stessi”, dice Terry Hickey, direttore esecutivo della Community Law in Action, un’organizzazione che ha sede presso la Scuola di Legge del Maryland. “Un anno fa, un ragazzo è morto soffocato dalle corde che le guardie del riformatorio di Bowling Brook gli avevano stretto attorno al corpo”, racconta Hickey. Le guardie accusate di aver causato la morte del ragazzo sono state assolte da ogni accusa il 28 marzo,  a meno di dieci giorni dalla tragedia.

I vari tentativi fatti dalla Community Law Action per cambiare le cose non sono serviti a molto. Appena due mesi fa, il 19 marzo 2012, il Parlamento ha bocciato una proposta di legge che avrebbe vietato la detenzione nei riformatori di stato per i minori di 14 anni. Jim Brochin, senatore del Maryland eletto nella fila dei democratici e autore della proposta di legge, è molto deluso.

“Nessuno intende fare nulla per risolvere la crisi della giustizia minorile” ha detto Brochin al Baltimore Sun. “Io credo anzi che si disinteressino completamente del problema”. E che volete riabilitare? dicono”, ha aggiunto. Inutile dire che fra i ragazzi rinchiusi nei riformatori del Maryland almeno l’85% proviene da famiglie economicamente disagiate. La conferma arriva dal dottor Peter Leone, che da anni si occupa di giustizia minorile negli Stati Uniti. “Per le famiglie monoreddito, la vita è una lotta quotidiana e i figli ne risentono.

Poi ha aggiunto: “Molti genitori vorrebbero poter dare ai loro ragazzi le stesse cose dei coetanei più abbienti ma lo stipendio basta a malapena per acquistare generi alimentari. Secondo le scuole però si tratta di casi che riguardano solo uno sporadico numero di famiglie. D’altra parte, gli insegnanti sono spesso persone che non hanno mai fatto i conti con la miseria. In genere appartengono alla classe media, che non ha problemi economici e può permettersi di mandare i figli all’università “.

David Churra, che per 25 anni ha insegnato nei riformatori, condivide questa teoria. “La maggior parte dei miei colleghi non dimostrano nessuna sensibilità verso i ragazzi che provengono dai quartieri più poveri, dove prosperano droghe, abusi e razzismo”, dice Churra, aggiungendo che le politiche didattiche nei riformatori americani sono tra le più vergognose al mondo.

Lo stesso rapporto pubblicato dall’Ufficio del Procuratore Generale il 26 aprile scorso ammette che la giustizia minorile negli Stati Uniti presenta dei vuoti incolmabili. Non è raro che i ragazzi rinchiusi nei riformatori non riescano neppure a trovare un avvocato disposto ad assumerne la difesa come prevede la legge.  “Sono le autorità che dovrebbero vergognarsi di quello che fanno e non io” ha scritto Alfred E. Perez, un sedicenne arrestato per spaccio di pochi grammi di droga. “Io non mi vergogno affatto di ciò che sono. Io sono io ed è bene che le autorità se lo ficchino bene in testa. E adesso che ho fatto il mio discorsetto sono pronto a fare quel giretto”. Poi ha tagliato una striscia di stoffa da un lenzuolo e si impiccato senza che le guardie  facessero nulla per impedirlo.

 

 

 

di Michele Paris

Nel vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico (GCC), andato in scena lunedì a Riyadh, i rappresentanti delle monarchie assolute alleate degli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere un accordo condiviso sulla proposta di creare una federazione tra i rispettivi governi per coordinare le principali questioni economiche, militari e di politica estera. Il progetto di unione era stato promosso dall’Arabia Saudita ed è volto a contenere più efficacemente i rigurgiti di rivolta nella regione e a creare un fronte di resistenza unito contro l’Iran.

L’incontro nella capitale saudita ha visto il ministro degli Esteri locale, Saud al-Faisal, cercare di convincere dell’opportunità di un’unione soprattutto i paesi più piccoli compresi nel GCC , i quali appaiono tutt’altro che entusiasti.

Ad annunciare il sostanziale fallimento del summit è stato lo stesso ministro saudita che, nella conferenza stampa di lunedì sera, ha però affermato che “i leader GCC hanno approvato la formazione di una commissione per continuare a studiare il progetto”. La commissione dovrà presentare le proprie conclusioni nel prossimo vertice dei paesi del Golfo, in programma a dicembre nella capitale del Bahrain, Manama.

L’idea di una federazione tra i regimi sunniti del Golfo Persico era stata lanciata per la prima volta nel dicembre 2011 dal sovrano saudita, Abdullah, nel corso di un appello ai vicini per unire le forze contro i pericoli che nella regione minaccerebbero la sicurezza di ogni singolo stato GCC, a cominciare dall’Iran sciita.

La riunione di lunedì era stata preceduta dalle voci di un imminente accordo per la creazione di un’unione tra Arabia Saudita e Bahrain come passo preliminare per il coinvolgimento degli altri paesi (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar).

L’unione tra Arabia Saudita e Bahrain, alla luce delle sproporzioni tra i due paesi, si risolverebbe di fatto nella trasformazione di quest’ultimo paese in un protettorato di Riyadh e, inevitabilmente, nell’abbandono di qualsiasi timido progetto di riforma della casa regnante.

Tanto più che il Bahrain dipende già in buona parte dall’Arabia Saudita, dal momento che, secondo un accordo decennale, riceve dal potente vicino le entrate provenienti da un giacimento petrolifero saudita e che per il regime rappresentano circa il 70% dei proventi derivanti dal settore energetico.

Al contrario di quanto era stato annunciato, in ogni caso, dal vertice di lunedì non è uscito nemmeno l’accordo di federazione tra Arabia Saudita e Bahrain, messo da parte, secondo Saud al-Faisal, perché l’obiettivo unico di Riyadh sarebbe quello di unire tutti e sei i paesi aderenti al GCC.

Secondo quanto rivelato al Wall Street Journal dal Royal United Services Institute, un think tank con sede in Qatar, i diplomatici giunti a Riyadh per il summit avrebbero in realtà condotto frenetici negoziati fino alla vigilia dell’incontro, ma non sarebbero riusciti a trovare un’intesa perché alcuni paesi hanno chiesto più tempo per valutare approfonditamente tutti i dettagli della proposta saudita.

La decisione finale di mettere da parte anche il progetto di unione tra Arabia Saudita e Bahrain rivela comunque le divisioni all’interno degli stessi gruppi di potere dei due paesi, nonostante gli entusiasmi proclamati a livello ufficiale da Riyadh e Manama. Secondo alcuni giornali occidentali, per alcuni membri delle famiglie reali di Arabia Saudita e Bahrain una federazione sarebbe controproducente, in quanto provocherebbe un’ulteriore radicalizzazione degli oppositori, mentre a promuoverla sarebbero esclusivamente gli esponenti della linea dura nella gestione dei rapporti con l’Iran e del dissenso interno.

A spingere l’Arabia Saudita verso la promozione di rapporti più stretti con i propri vicini ha contribuito senza dubbio l’ondata di proteste esplose lo scorso anno nel mondo arabo. Tra i più autoritari del pianeta, il regime saudita è stato scosso dalla rapidità con cui la rivolta si è diffusa in Medio Oriente nel 2011, portando al crollo, ad esempio, di un alleato di ferro come Hosni Mubarak in Egitto. Toccata marginalmente dalle manifestazioni, l’Arabia Saudita ha risposto con l’adozione di limitati programmi pubblici per ammorbidire la popolazione e, soprattutto, con il pugno di ferro, intensificando la repressione allo spuntare di ogni minino segnale di malcontento.

Proprio il Bahrain rappresenta un punto fermo per la stabilità saudita. Da qui, infatti, la rivolta a maggioranza sciita scatenata lo scorso anno contro la monarchia sunnita al-Khalifa aveva parzialmente contagiato le regioni orientali dell’Arabia Saudita, ugualmente abitate da una significativa minoranza sciita.

Su richiesta del regime e con il via libera di Washington, nel marzo 2011 Riyadh inviò così un proprio contingente militare nel Bahrain per reprimere la protesta nel sangue, proprio mentre scoppiava la crisi siriana, nella quale i sauditi hanno da subito cercato di presentarsi come i difensori dell’opposizione democratica.

Per il regime del Bahrain, a sua volta, l’ipotesi di un’unione con l’Arabia Saudita è vista, almeno tra certe fazioni della casa regnante, come un potente strumento per garantire la stabilità di un paese che continua ad essere minacciato dal vento della rivolta. Al contrario, paesi come Kuwait, Oman e Qatar vedono invece con sospetto l’ingresso in una federazione che comprometterebbe la propria sovranità a tutto vantaggio del potente vicino.

Contro il progetto di federazione si sono ovviamente espressi gli esponenti dell’opposizione in Bahrain, alcuni dei quali hanno però messo in risalto come la disponibilità della famiglia al-Khalifa a cedere parte della propria sovranità all’Arabia Saudita riveli la debolezza del regime dopo oltre un anno di proteste popolari. L’unione, d’altro canto, potrebbe produrre un certo coordinamento anche tra le forze di opposizione (sciite) di entrambi i paesi, verosimilmente risvegliando la combattività di quelle saudite.

La condanna dei progetti discussi lunedì a Riyadh, in particolare quelli relativi al Bahrain, è arrivata puntualmente anche dall’Iran, contro la cui espansione era nato il Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico nel 1981. A Teheran, infatti, 190 parlamentari l’altro giorno hanno messo la loro firma su una dichiarazione nella quale si afferma che, con un’eventuale unione tra i due paesi, “la crisi in Bahrain verrebbe spostata all’Arabia Saudita, spingendo la regione verso una maggiore instabilità”.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Nuova sconfitta elettorale per la Cancelliera Angela Merkel (CDU), che in Nord Reno Vestfalia ha toccato domenica il punteggio più basso mai raggiunto dai cristianodemocratici da oltre sessant’anni. Dopo aver lasciato sul campo l’ex-presidente francese Nicolas Sarkozy, il partner europeo a lei più vicino nella politica fiscale di austerità per la salvezza della moneta unica, la Merkel sembra essere arrivata alla resa dei conti anche in casa, deludendo in uno degli appuntamenti elettorali più importanti a soli 16 mesi dalle generali.

La Cancelliera appare tuttavia ancora tranquilla e mantiene una certa sicura di sé: perché sa, probabilmente, di essere il perno attorno cui ruota il partito cristianodemocratico tedesco ed è cosciente di essere la figura politica più amata nel suo Paese. Se questo basterà a garantirle il potere, in Germania così come in Europa, rimane comunque tutto da vedere.

Ma i risultati elettorali nel Land nord-occidentale non lasciano spazio a dubbi o sfumature di nessun tipo: a vincere sono socialdemocratici (SPD) e Verdi, che si vedono riconfermare la maggioranza con il 51% dei voti, mentre l’Unione cristianodemocratica di Angela Merkel perde quasi 10 punti percentuali con il 26% dei consensi. Il Nord Reno Vestfalia è uno dei Laender più popolosi (un quarto dell’intera popolazione tedesca) e industrializzati di Germania e il suo peso politico è enorme: in molti lo considerano un banco di prova più che affidabile per le prossime elezioni generali, che si terranno a settembre 2013. Ne è consapevole anche la Cancelliera che, a questo proposito, aveva candidato a Governatore del Land l’attuale ministro dell’Ambiente, Norbert Roettgen, sacrificando uno dei suoi uomini migliori. Alla luce dell’esito negativo delle regionali, Roettgen rischia ora di perdere anche la poltrona a Berlino.

A essere premiata dai cittadini è stata invece Hannelore Kraft, la candidata socialdemocratica, che, con l’SPD, ottiene il 39% dei consensi rivendicando crescita economica, allentamento del rigore monetario, solidarietà e occupazione. Sono in molti, tra le fila dell’opposizione, a vederla come possibile candidata anti-Merkel per il 2013: una sfida tutta al femminile, quindi.

Tra i partner di coalizione più probabili per l’SPD nel Nord Reno Vestfalia ci sono i Verdi, con il 12% dei voti. Rimontano anche i liberali (FDP) con l’8% dei consensi, un piccolo traguardo che non basta comunque a cambiare le sorti dell’Unione. Tengono duro i Pirati, che ottengono il 7% dei seggi.

Dopo le recenti presidenziali in Francia, che hanno “ghigliottinato” Nicolas Sarkozy, il partner di Angela Merkel nelle questioni fiscali europee, ora anche la Germania stessa sembra voltare le spalle alla Cancelliera: la sua solitaria posizione nella questione fiscale dell’Eurozona sta creando impopolarità ovunque. La sconfitta storica dei cristianodemocratici in Nord Reno Vestfalia da’ maggior sicurezza ai leader socialdemocratici di opposizione, più decisi che mai a combattere contro le misure che la Cancelliera considera indispensabili per una soluzione della crisi del debito dell'Eurozona.

Il risultato potrebbe inoltre incoraggiare il neo presidente francese Francois Hollande a convincere la Merkel ad allentare le sue posizioni sui tagli al bilancio e le riforme strutturali in funzione della crescita. Per Hollande, tra l’altro, è previsto in questi giorni un incontro con la Cancelliera a Berlino.

Eppure Angela Merkel appare tranquilla, sicura di sé e sempre poco disposta ad accettare compromessi, tanto a livello europeo quanto nazionale. Forse perché i sondaggi tedeschi le  attribuiscono il 70% dei consensi dei suoi cittadini. Alla Merkel, probabilmente, il rischio di perdere la poltrona di Berlino, insieme all’autorità nell’Unione europea, appare lontano.

I più maligni notano però che l’Unione cristianodemocratica punta troppo sulla sua Cancelliera, tanto che dietro la sua imponente figura non ci sarebbe nulla, accusa qualcuno. Programma e proposte di poco spessore e un’indecisione generale che deriva dalla debolezza dei partner liberali, così come un continuo susseguirsi di personalità politiche poco rilevanti o addirittura discusse, da von Guttemberg. a Wulff e a Roettgen.

Che un gran carisma basti a garantirle il successo nella sua crociata solitaria per la salvezza della politica di rigore è poco probabile: il primo test in questo senso si avrà dall’esito dell’incontro con Hollande. E il rischio è che, più che misurarsi con l’inversione di rotta che chiedono Usa e una parte dell’Europa, debba misurarsi con ancora minori possibilità di successo contro gli stessi tedeschi, che vedono già le prime nubi della crisi addensarsi sula Germania.
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di Carlo Musilli

C'è l'accordo. Anzi, no. Le trattative continuano. A oltre una settimana dalle elezioni, la Grecia non è ancora riuscita a mettere in piedi un nuovo governo in grado di onorare le promesse d'austerità fatte all'Europa. E il teatrino andato in scena domenica dimostra come nella politica ellenica la vera forza dominante sia il caos. Al quarto tentativo in sette giorni, i leader dei partiti maggiori sono stati convocati d'urgenza dal presidente della Repubblica, Karolos Papoulias, per cercare un accordo in extremis.

Nel primo pomeriggio sembrava fatta: Alexis Tsipras, leader del partito di estrema sinistra Syriza, ha annunciato l'intesa per un esecutivo biennale fra i conservatori di Nuova Democrazia, i socialisti del Pasok e i filoeuropei di Sinistra Democratica (Dimar). "Io non posso accettare quello che considero un errore", ha precisato tirandosi fuori.

Peccato che a stretto giro sia arrivato un duro comunicato di smentita. Dimar ha definito "menzogne diffamatorie" le parole del leader radicale, ribadendo che appoggerebbe un nuovo governo solo a due condizioni: la cancellazione delle leggi che riducono il salario minimo garantito e facilitano i licenziamenti e la profonda revisione degli accordi presi con Ue e Fmi.

Niente da fare, il valzer dei negoziati non si ferma. E così diventa sempre più concreta la possibilità che i cittadini greci siano chiamati nuovamente al voto il mese prossimo. Negli ultimi giorni la tensione è tornata a salire - sui mercati come nelle cancellerie - proprio per il timore che il governo nato da nuove elezioni possa trascinare il Paese fuori dall'eurozona e quindi, inevitabilmente, al default totale e incontrollato.

Se Nuova Democrazia, Pasok e Dimar si alleassero, sommando i loro attuali seggi arriverebbero a quota 168, sufficiente per ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento. In ogni caso anche questa strana alleanza non cancellerebbe affatto le enormi incertezze legate alla situazione politica greca. Anzi, viene da chiedersi quale credibilità potrebbe avere un governo nato dalla disperazione più che da un vero accordo elettorale.

Il nuovo Esecutivo avrebbe un solo punto in agenda: mettere in pratica la macelleria sociale imposta da Bruxelles e ottenere in cambio i 130 miliardi di aiuti internazionali concordati con Ue e Fmi. Si tratterebbe semplicemente di approvare le riforme progettate e scritte da qualcun altro, abdicando totalmente a qualsiasi principio di autonomia, sovranità e rappresentanza dei cittadini. Sulla carta non sembra una missione impossibile, ma ad oggi qualsiasi accordo - ammesso che arrivi - lascerebbe forti dubbi sulle capacità di tenuta dell'Esecutivo.

Alle elezioni della settimana scorsa il risultato era stato più che contraddittorio. Nuova Democrazia e Pasok, i due partiti maggiori e primi interlocutori dell'Europa, si erano fermati a 149 seggi, appena due in meno rispetto alla soglia di maggioranza assoluta. Questo il verdetto delle urne: primi i conservatori di Antonis Samaras, secondi i radicali di Tsipras, terzi i socialisti di Evangelos Venizelos.

Ad appena tre ore dalla fine degli scrutini, il leader del partito vincitore aveva rinunciato a creare una maggioranza di governo. Il secondo classificato aveva impiegato più tempo, ma alla fine era giunto alla stessa conclusione. Si era poi diffusa la speranza che Venizelos potesse riuscire nell'impresa: il socialista aveva incassato l'ok di Sinistra Democratica, ma solo a patto che dell'esecutivo facesse parte anche Syriza. I radicali di Tsipras avevano però negato il loro appoggio a qualsiasi governo che intendesse proseguire sulla strada del piano di salvataggio chiesto dalla troika (Ue, Bce, Fmi). Ennesimo fallimento.

Intanto si fa strada la domanda più angosciosa: quanto costerebbe l'uscita della Grecia dall'Eurozona? Gli studi si moltiplicano. Secondo gli analisti di UBS, la nuova dracma dovrebbe subire una svalutazione fra il 50-60% (Citigroup parla del 40%). Questo significa che in un batter d'occhio il patrimonio delle famiglie greche perderebbe metà del proprio valore. Gli stipendi verrebbero aggiornati, ma il loro potere d'acquisto colerebbe a picco. I greci prenderebbero d'assalto le banche per salvare gli euro rimasti e molti cercherebbero portare i capitali all'estero.

Eventuali dazi potrebbero creare problemi a livello commerciale, anche se teoricamente la moneta debole sarebbe una manna per le esportazioni. Poi c'è la questione del debito pubblico, che continuerebbe ad essere calcolato in euro (266 miliardi dopo la ristrutturazione). Ripagarlo senza più un centesimo di aiuti internazionali sarebbe impossibile e la bancarotta diventerebbe inevitabile. A quel punto la credibilità del Paese sarebbe ridotta allo zero e gli investimenti esteri inizierebbero a sparire.

Ora sta ai partiti decidere quale strada seguire: rimanere nell'eurozona e affamare i cittadini per imposizione altrui o affrontare l'inferno per poter decidere in autonomia la propria politica monetaria e in prospettiva (forse) rilanciare il Paese. Ieri il tentativo di mediazione da parte del presidente Papoulias ha regalato qualche ora di speranza ai greci che non vogliono tornare alla dracma. Poi però è stato ancora una volta il caos a prevalere. La porta per uscire dall'eurozona rimane aperta.

 

 

di Michele Paris

Il più grave singolo episodio di violenza accaduto giovedì in Siria dall’inizio della crisi oltre un anno fa segna un preoccupante passo verso una rovinosa guerra civile nel travagliato paese mediorientale. Le due esplosioni che hanno colpito la capitale, Damasco, sono con ogni probabilità opera di gruppi estremisti provenienti da paesi arabi vicini e vanno ad aggiungersi a numerose altre operazioni condotte recentemente dall’opposizione armata, sostenuta dall’Occidente, per alimentare il caos e giustificare un intervento militare esterno contro il regime di Bashar al-Assad.

I due attacchi suicidi con altrettante autobombe hanno causato la morte di almeno 55 persone e centinaia di feriti, in gran parte civili che si stavano recando al lavoro o a scuola poco prima delle 8 del mattino. Gli attentati di giovedì sono solo i più recenti di una ormai lunga lista di violenze e hanno fatto seguito ad un’altra esplosione che il giorno prima aveva colpito un convoglio degli osservatori ONU attualmente in Siria, ferendo una decina di membri delle forze di sicurezza.

A differenza delle vere o presunte operazioni condotte dal regime contro le forze di opposizione, i cui resoconti fatti dalle organizzazioni ad esse vicine con sede all’estero vengono accettate come oro colato da quasi tutti i media occidentali, i commenti sugli attentati come il più recente che ha colpito due edifici dell’intelligence a Damasco fanno in genere un cauto riferimento alle dichiarazioni del governo, il quale punta il dito verso gruppi terroristici appoggiati dall’esterno. Da parte degli organi come il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), invece, quasi sempre si afferma che simili azioni sono orchestrate dal regime stesso per giustificare la repressione.

Episodi sanguinosi come quello di giovedì, in ogni caso, consentono agli Stati Uniti e ai loro alleati in Europa e tra i paesi arabi di muoversi verso una nuova fase della crisi siriana. Mentre il piano promosso da Kofi Annan prevede che i circa 70 osservatori ONU nel paese diventino 300 entro la fine di maggio, a Washington sembra già circolare l’ipotesi di far naufragare anticipatamente la missione.

Come ha spiegato il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, “se l’intransigenza del regime proseguirà, la comunità internazionale sarà costretta ad ammettere di aver fallito e dovrà lavorare per affrontare la seria minaccia alla pace e alla stabilità perpetrata dal regime di Assad”.

Simili affermazioni rivelano chiaramente come gli USA intendano approfittare del crescente caos in Siria per cercare di aumentare le pressioni su Damasco e giungere ad un qualche intervento esterno. Questa strategia è stata espressa in una recente intervista radiofonica dalla ex direttrice dell’ufficio per la Pianificazione Politica del Dipartimento di Stato, Anne-Marie Slaughter, la quale in riferimento agli attentati terroristici in Siria ha affermato che “la presenza di gruppi jihadisti nel paese non dovrebbe dissuadere gli USA e i loro alleati dall’intervenire. Anzi, dovrebbe spingerli a considerare maggiormente il pericolo che potrebbe creare un prolungato conflitto nel paese”.

In altre parole, Washington, così come la Turchia, l’Arabia Saudita o il Qatar, alimentano la guerra civile in Siria appoggiando materialmente le opposizioni armate per poi utilizzare lo stesso conflitto interno per giustificare iniziative più energiche da parte della “comunità internazionale”. Il tutto per giungere ad un cambio di regime a Damasco dopo aver dato il proprio appoggio ufficiale ad un piano di pace che dovrebbe essere invece implementato sotto la guida dello stesso presidente Assad.

Nei media mainstream e nei commenti di molti osservatori occidentali, la responsabilità per questa evoluzione della situazione in Siria è attribuita interamente al regime. Per l’organizzazione International Crisis Group, ad esempio, “la condotta del regime ha alimentato gli estremismi da entrambe le parti, facendo scivolare il paese nel caos e lasciando libertà di movimento” agli integralisti islamici.

La stessa amministrazione Obama, come ha scritto ieri il Washington Post, pur non potendo confermare quali siano i responsabili degli attacchi, assegna la colpa interamente al presidente Assad, accusato di aver lasciato che la situazione precipitasse invece di conformarsi alla risoluzione ONU che ha dato il via libera al cessate il fuoco e all’invio degli osservatori.

Ancora, il presidente della commissione Esteri del Senato americano, il democratico John Kerry, ha detto che Assad sta cercando di sfruttare la missione di Annan come una copertura per continuare la repressione contro l’opposizione siriana. L’ipocrisia che traspare da queste parole appare del tutto evidente, dal momento che sono gli stessi Stati Uniti e gli altri governi occidentali e del Golfo Persico a nascondersi dietro il piano Annan, accusando Damasco di violarne le disposizione mentre continuano ad assicurare sostegno militare e finanziario all’opposizione armata affinché prosegua la sua campagna contro il regime in violazione del cessate il fuoco.

Una politica a dir poco sconsiderata che, come si è potuto constatare, alimenta il conflitto e destabilizza la Siria, permettendo l’arrivo nel paese di cellule estremiste.

Un intervento militare diretto dall’Occidente appare comunque ancora lontano ed è vincolato a diversi fattori che complicano la situazione siriana. Per cominciare, sui piani di Washington gravano le riserve di Russia e Cina, le quali continuano a respingere qualsiasi risoluzione ONU che possa condurre alla rimozione di Assad, soprattutto alla luce dell’esempio libico dello scorso anno.

Mosca, correttamente, sostiene infatti che i governi arabi e occidentali che appoggiano l’opposizione al regime stiano fomentando la violenza per legittimare un intervento militare. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, lo ha ribadito l’altro giorno da Pechino, quando ha affermato che “alcuni nostri partner stranieri stanno prendendo iniziative per fare in modo che la situazione esploda, sia letteralmente che metaforicamente”.

Un’operazione militare guidata dagli USA o dalla NATO contro Damasco sarebbe inoltre impopolare per l’opinione pubblica occidentale e agli occhi della maggioranza della popolazione siriana. Perciò, in molti in Occidente sembrano preferire per ora l’adozione di nuove sanzioni accompagnate da un aumento dell’impegno volto a finanziare e armare l’opposizione oppure, tutt’al più, la creazione di corridoi “umanitari” in Siria per consentire ai “ribelli” di organizzarsi e stabilire canali di comunicazione con i paesi vicini, a cominciare dalla Turchia.

Per l’amministrazione Obama, tuttavia, ogni opzione rimane percorribile. Come ha confermato un paio di giorni fa il segretario alla Difesa, Leon Panetta, il Pentagono ha preparato piani di intervento per qualsiasi genere di approccio alla crisi siriana verrà scelto dalla Casa Bianca. A confermalo è anche la massiccia esercitazione militare “Eager Lion 2012” che gli Stati Uniti si apprestano ad inaugurare oltre il confine siriano, in Giordania, e alla quale parteciperanno ben 12 mila soldati di paesi che condividono gli stessi obiettivi di Washington circa la sorte del regime di Assad.


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