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di Carlo Musilli
Lo hanno battezzato il "Giorno della Rabbia", ma per ma per molti è stato soprattutto "Il Giorno dell'Angoscia". Le manifestazioni organizzate ieri in Arabia Saudita hanno generato preoccupazioni di diversa natura. Politiche, sul fronte interno. Economiche, per il resto del pianeta. Le dimensioni della protesta non contano. Era assolutamente scontato che i sauditi non potessero organizzarsi in oceani di manifestanti furibondi stile Egitto o Tunisia. Tantomeno era lecito aspettarsi uno scontro armato alla maniera libica.
In Arabia, infatti, il cuore della rivolta è costituito dalla minoranza sciita, che rappresenta appena il 10% della popolazione. Fatto sta che il monarca assoluto del Paese, re Abdullah, non aveva mai dovuto fronteggiare un'opposizione del genere in precedenza.
Il bilancio fino ad ora é di tre manifestanti sciiti feriti ad al Qatif, nell'est dell'Arabia saudita, dalla polizia che ha aperto il fuoco per disperdere una manifestazione. “Gli spari sono arrivati quando fra 600 e 800 manifestanti sciiti, fra cui delle donne, marciavano ad al Qatif per chiedere la liberazione di nove detenuti sciiti”, ha riferito un testimone all'Afp. “Quando la marcia stava per terminare nel centro della città, dei soldati hanno cominciato a sparare sui dimostranti e in tre sono rimasti feriti”, ha aggiunto la stessa fonte. Le autorità saudite hanno ribadito più volte negli ultimi giorni che le manifestazioni erano vietate nel Regno e che la polizia era autorizzata ad intervenire per far rispettare la legge.
Ma nonostante la violenta repressione dell'esercito, i manifestanti non mollano. Spalleggiati dai correligionari del vicino Bahrein, anch'essi in rivolta da circa un mese, continuano a chiedere riforme politiche. Vogliono la monarchia costituzionale, un governo eletto liberamente, la liberazione dei prigionieri politici e il riconoscimento dei diritti delle donne. Il contenuto della protesta ha trovato appoggio anche fuori dalla comunità sciita, fra i sauditi più liberali, che vorrebbero sfruttare il momento di crisi del sistema per realizzare le proprie aspirazioni di cambiamento.
In questo senso, fino ad ora diverse petizioni e lettere aperte sono state indirizzate a re Abdullah. Com'è ovvio, il sovrano non ha risposto a nessuno pubblicamente, ma durante la settimana ha incontrato in privato i leader tribali sciiti e sunniti. Quello che succederà nelle prossime settimane è difficile da prevedere. Ma bisogna tener presente che difficilmente vedremo una nuova piazza Tahir. La popolazioni saudita è molto più ricca di quella nordafricana e le casse del re sono abbastanza piene da raffreddare a suon di dollari più di una testa calda.
Veniamo al resto del mondo. Numero uno fra gli esportatori di petrolio, l'Arabia Saudita è il paese arabo più vicino agli Stati Uniti. Negli ultimi tempi ha svolto il ruolo di baluardo per la stabilità dei mercati energetici mondiali, innalzando la produzione di greggio in modo da sopperire al mancato apporto di barili dalla Libia, circa 750 mila al giorno. La paura più grande è proprio che la rivolta possa compromettere la produttività petrolifera del Paese. Gli sciiti sono infatti concentrati nella provincia orientale dell'Arabia Saudita, la più ricca di idrocarburi e di compagnie petrolifere. Qui sono custodite le più grandiose riserve d'oro nero che il pianeta conosca. Qualcosa come 260 miliardi di barili.
Se la situazione degenerasse e la ribellione si trasformasse in vera e propria rivoluzione, il prezzo del petrolio arriverebbe a toccare delle vette che finora gli economisti non avevano ipotizzato nemmeno nei loro incubi più neri. Per questo i trader di tutto il mondo hanno iniziato una speculazione a rotta di collo sui futures del petrolio.
Negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli investitori pronti a scommettere che le vicende interne dell'Arabia Saudita faranno schizzare il prezzo di ogni singolo barile oltre la soglia siderale dei 200 dollari. E' un po' come scommettere sul collasso economico della Terra. Il record, fino ad oggi, è di 147 dollari al barile. Si è registrato nell'estate 2008, quando si cominciava a vedere il fungo atomico della crisi finanziaria mondiale. Rispetto ad allora, secondo quanto riportato recentemente della Cnn, il fervore speculativo è oggi talmente elevato che i grandi istituti finanziari detengono il doppio dei contratti di lungo periodo sul petrolio.
Tanto per rendere le prospettive ancora più buie, la Goldman Sachs ha accusato l’Arabia Saudita di truccare i dati sul livello reale di produzione di petrolio. Secondo la banca d'affari statunitense, i sauditi "dallo scorso novembre stanno producendo da mezzo milione a un milione di barili di petrolio al giorno in più rispetto alle cifre ufficiali. Questo vuol dire che la loro capacità in eccesso è significativamente più bassa dei numeri ufficiali". Se l'ipotesi di Goldman Sachs fosse vera, la capacità in eccesso dell'Opec scenderebbe sotto i 2 milioni di barili al giorno. Un livello così basso é stato raggiunto l'ultima volta nella famigerata estate del 2008.
Tutto questo accade in un momento in cui diversi paesi europei fanno ancora molta fatica a finanziare i propri debiti pubblici. La gara a collocare titoli di Stato sul mercato è già abbastanza estenuante. Una crisi petrolifera delle proporzioni paventate potrebbe significare l'armageddon economico. Certo, è una possibilità non facile a realizzarsi. Ma rimane una possibilità.
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di Michele Paris
Il potente ex presidente iraniano, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, è stato di fatto rimosso questa settimana dalla guida dell’Assemblea degli Esperti, l’influente organo incaricato di eleggere, sorvegliare ed eventualmente deporre la Guida Suprema della Repubblica Islamica. La parabola discendente di uno degli uomini più ricchi dell’Iran giunge in un momento molto delicato per tutto il Medio Oriente: s’intreccia inestricabilmente - da un lato - con le lotte di potere tra le varie fazioni del regime e - dall’altro - con le sorti di un movimento di protesta che fatica a raccogliere un seguito consistente nel paese.
Presidente per due mandati tra il 1989 e il 1997 e considerato un conservatore moderato e pragmatico, Rafsanjani negli ultimi due anni ha rappresentato all’interno del regime una delle voci più vicine al cosiddetto Movimento Verde. La sconfitta elettorale che egli stesso aveva dovuto incassare nel ballottaggio delle presidenziali del 2005 dall’allora sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, lo aveva progressivamente allontanato dai sostenitori dell’attuale presidente, fino a spingerlo verso l’opposizione, pur senza condividerne le posizioni anti-regime più estreme.
Nella sua funzione di numero uno sia dell’Assemblea degli Esperti che del Consiglio per il Discernimento - preposto alla risoluzione dei conflitti tra il Parlamento (Majlis) e il Consiglio dei Guardiani della Costituzione - Rafsanjani, dopo le contestate elezioni del giugno 2009, aveva più volte cercato di promuovere una riconciliazione tra l’opposizione Verde e il regime. Le sue manovre erano mirate a mettere all’angolo lo stesso presidente, facendo leva sulle riserve nutrite da molti conservatori nei confronti della politica populista di Ahmadinejad.
Gli esponenti della linea dura vicini ad Ahmadinejad hanno a loro volta progressivamente intensificato gli attacchi contro Rafsanjani, in modo da privarlo di quell’influenza che ancora poteva conservare in alcuni ambienti della Repubblica Islamica. L’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente dell’Assemblea degli Esperti ha fornito così l’occasione per mettere da parte un peso massimo del regime considerato, sia pure per ragioni opportunistiche, fin troppo allineato con i “riformisti”. Un passaggio di consegne, va sottolineato, che avviene in un momento molto importante, se le voci che da qualche mese si rincorrono sulle precarie condizioni di salute dell’ayatollah Ali Khamenei dovessero risultare fondate.
Tra la fazione pro-Ahmadinejad (strettamente legata ai Guardiani della Rivoluzione e uscita rafforzata dal cambio al vertice dell’Assemblea) e il clero sciita rimangono tuttavia profonde divisioni. Il presidente e i suoi uomini, infatti, non sono stati in grado d’imporre un loro fedelissimo, ma hanno dovuto accettare, come successore di Rafsanjani, l’ottantenne conservatore Mohammad Reza Mahdavi Kani, già primo ministro negli anni Ottanta e seguace della prima ora dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Quando la candidatura di Mahdavi Kani è emersa, Rafsanjani ha ritirato la propria e il nuovo leader dell’Assemblea degli Esperti ha così raccolto il consenso di 63 degli 86 membri che la compongono.
La posizione sempre più precaria di Rafsanjani era apparsa in tutta la sua evidenza un paio di settimane fa quando, relativamente a sorpresa, aveva denunciato le manifestazioni che qualche giorno prima erano andate in scena nelle strade di Teheran sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto. Facendo proprie le parole degli esponenti più intransigenti del regime, Rafsanjani aveva definito i manifestanti “estremisti” che minacciano l’unità tra il popolo e il regime stesso. Una metamorfosi significativa - verosimilmente dettata da motivi di sopravvivenza politica - per un uomo che meno di due anni fa aveva fornito il suo appoggio, e quello della potente famiglia, all’opposizione di Mousavi e Karroubi.
Il declino di Rafsanjani nel panorama politico della Repubblica Islamica è in qualche modo legato alle stesse fortune del Movimento Verde, i cui leader condividono le medesime preoccupazioni della media e alta borghesia iraniana incarnata dal multimiliardario ex presidente. Il tentativo di rilancio del movimento di protesta contro il regime dopo lunghi mesi di silenzio non ha finora sortito successi significativi. Mentre Mousavi e Karroubi finivano agli arresti domiciliari - o addirittura in carcere, secondo quanto sostengono le rispettive famiglie - le manifestazioni indette nelle ultime settimane (il 14 e il 20 febbraio, e ancora il 1° marzo) sono state agevolmente represse dalle forze di sicurezza del regime.
Il sostanziale fallimento del Movimento Verde nel reclutare un numero significativo di manifestanti, malgrado la copertura costantemente positiva assicurata dai media occidentali, è da collegare all’incapacità di mobilitare i lavoratori iraniani e gli strati più poveri della popolazione urbana, come era accaduto invece nelle rivoluzioni di Tunisia ed Egitto. Un’inadeguatezza quella dei “riformisti”, guidati peraltro da veterani del regime messi da parte da molti anni, che è la conseguenza stessa della composizione sociale di un movimento nel quale a prevalere è la classe media privilegiata che lamenta la mancanza di una rapida apertura del paese al capitale internazionale e di un riavvicinamento agli Stati Uniti e all’Occidente.
I limiti del movimento anti-regime, così come lo si è conosciuto in questi due anni, appaiono ancora più gravi alla luce del malcontento che pure sembra ampiamente diffuso in buona parte della popolazione iraniana. Se l’ascesa al potere di Ahmadinejad nel 2005 era stata possibile soprattutto grazie alla promessa di porre rimedio alle disuguaglianze sociali prodotte dalle politiche neoliberiste dei predecessori più graditi all’Occidente - Rafsanjani e soprattutto Mohammad Khatami - l’illusione è stata infatti di breve durata.
Mentre all’inizio del suo primo mandato, Ahmadinejad ha incrementato la spesa sociale, più recentemente ha finito per accelerare le riforme di mercato, fino alla battaglia per l’abolizione degli ingenti sussidi ai beni di prima necessità, come pane, benzina e gasolio per riscaldamento, che finirà per penalizzare pesantemente proprio i redditi più bassi. Di fronte alle resistenze di una working-class preoccupata per l’impennata improvvisa dei prezzi e il conseguente impoverimento, il Movimento Verde ha sostanzialmente criticato il governo per non essersi mosso con sufficiente rapidità nell’eliminazione dei sussidi stessi e per aver sprecato preziose risorse economiche in “inutili” spese sociali.
D’altro canto, la relativa vittoria nella successione alla guida dell’Assemblea degli Esperti rafforza Ahmadinejad anche sul fronte della faida interna al regime con i conservatori religiosi, rappresentati dallo speaker del Parlamento Ali Larijani e dal fratello Sadeq, al vertice del sistema giudiziario iraniano. Sotto la spinta dei fratelli Larijani, il governo Ahmadinejad negli ultimi anni ha dovuto fronteggiare parecchi ostacoli, sia sul fronte parlamentare che su quello giudiziario, mentre entrambi avevano valutato una possibile contestazione dei risultati delle presidenziali del 2009, prima di desistere di fronte al sostegno fornito al vincitore da parte dello stesso Ayatollah Khamenei.
Nonostante le divisioni interne agli ambienti di potere della Repubblica Islamica, dunque, praticamente tutte le fazioni del regime e gli stessi “riformisti” approvati dalla stampa e dai governi occidentali condividono quelle stesse politiche economiche e sociali che hanno determinato l’esplosione delle rivolte in Medio Oriente e in Africa Settentrionale. Per questo motivo, la riuscita di una vera rivolta anche in Iran dipenderà dalla creazione di un movimento indipendente che faccia proprie le rivendicazioni di giustizia sociale e democrazia che stanno emergendo nel vicino mondo arabo.
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di mazzetta
Lo ha detto Hillary Clinton di fronte al Foreign Relations Committee del Senato americano nella sua veste di Segretario di Stato degli Stati Uniti: gli Stati Uniti hanno perso la supremazia nel campo di battaglia dell'informazione internazionale e in particolare di quella televisiva. Il modello statunitense, fatto di tonnellate di pubblicità e discussioni spesso sconclusionate tra vedette parlanti, non riesce a fornire grandi informazioni agli americani, immaginatevi quanto sarà utile e comprensibile per gli stranieri, dice la Clinton. E come darle torto?
Sembrano finiti i tempi gloriosi in cui la CNN scandiva il tempo e il senso della prima guerra americana contro l'Iraq. L'epopea di Schwarzkopf, la prima guerra della storia in diretta televisiva, segnò la fortuna estemporanea di un canale televisivo globale all news: in momenti diversi agli americani interessa davvero poco. E infatti, nel giro di pochi anni, CNN ha dovuto moderare le sue aspirazioni e i suoi investimenti.
La spettacolare esibizione di potenza comunicativa della CNN ha però piantato un seme proprio nel Golfo ed è Al Jazeera, l'emittente dell'emiro del Qatar, che Clinton ha citato ad esempio, così schiaffeggiando l'orgoglio dell'intera industria americana dell'infotainment. In tempo di crisi gli americani hanno cercato notizie e le hanno trovate solo sul canale in inglese di Al Jazeera, che pure negli Stati Uniti è semi-clandestina, raggiungibile via Internet, ma quasi del tutto ostracizzata dai network americani, che non la includono nel pacchetti offerti ai loro clienti.
Lo stesso Dipartimento di Stato e molte cancellerie si sono regolate per giorni sulla base di quello che vedevano attraverso le dirette di al Jazeera, mentre il canale arabo diffondeva l'eco delle proteste e contribuiva ad infiammare una piazza araba dopo l'altra. Al Jazeera ha trasmesso quasi tutto quello che è successo nei paesi arabi nei primi mesi di questo 2011, mantenendo un'evidente timidezza solo nella copertura dei sommovimenti che hanno turbato le monarchie del Golfo, nobiltà e parentele lo impongono.
Mentre l'enorme sistema americano nominalmente dedicato all'informazione si trascinava in baruffe prive di senso come quelle ben note anche ai telespettatori italiani, “Al Jazeera ha cambiato le persone” dice la Clinton al Senato. Lo strumento comunicativo più potente della storia, il pilastro sul quale poggia tutta la definizione del senso degli Stati Uniti moderni, è ridotto a un attrezzo inservibile. Il canale diretto tra chi definisce la realtà e le masse chiamate ad interpretarla è saturato di rumore e pubblicità. Mentre Al Jazeera veicola la sua interpretazione del mondo e dei fatti alle elite globalizzate, gli Stati Uniti hanno perso questo fondamentale canale di comunicazione.
Da quel tubo non passa più la potente visione salvifica e modernizzatrice dell'America, non passano più le informazioni che servono ad aiutare gli americani nella vita, passa solo quello che genera i massimi ascolti o quello che vuole chi paga il conto. Passano pochi fatti e un mare di opinioni confuse, declamate come in un teatrino sempre uguale, per quanto ormai appare codificato nei suoi riti. Nemmeno quando scoppia il finimondo il flusso delle informazioni riesce a farsi strada nel tubo, perché non c'è quasi più nessuno in grado di riconoscere a quel flusso un valore superiore alle solite liti tra presunti esperti e da tempo non c'è più nessuno o quasi inviato sul campo per tempo a farsi un'idea di cosa succede.
Non c'è più nessuno nemmeno a girare sul campo le immagini che contaminano e influenzano la storia che stanno testimoniando, non c'è più nemmeno il grottesco controllo sulla selezione di quelle immagini che ha fatto sparire dai media americani le immagini dei caduti in guerra americani e persino dei loro funerali, censurate da Bush senza che il sistema dei media americani si sia ribellato.
Quello che la Clinton non ha detto e che non poteva dire, però, é che questa situazione è la conseguenza precisa delle pressioni di governo e corporation sui media americani. Da quando l'amministrazione Bush investì risorse imponenti per imporre narrative di fantasia, è diventato addirittura controproducente investire risorse per produrre notizie sgradite. Lo stesso discorso vale incidentalmente per i servizi segreti e diplomatici, impegnati nella propaganda e nell'assecondare il governo.
Se per fare carriera bisogna dire quello che il governo vuole sentirsi dire, non ha senso nemmeno perder tempo in indagini e studi. Gli stessi budget imponenti con i quali le multinazionali soffocano o tendono a screditare realtà sgradite, hanno spinto la macchina dell'informazione sempre più lontano dalla narrazione della realtà e sempre più immersa in una fiction dal copione confuso. Il giornalismo d'inchiesta e la cronaca senza strumentalizzazioni sono ormai rarità, quello che avviene oltre frontiera arriva ai fruitori dell'informazione solo se serve a vendere qualcosa o può essere strumentalizzato politicamente in chiave interna.
Hillary Clinton, Obama e gli altri leader del potente Occidente, si sono trovati inchiodati per giorni e giorni davanti ad Al Jazeera e non hanno potuto fare a meno di notare la differenza con l'informazione offerta dai media occidentali. Così come non hanno potuto fare a meno di notare la differenza con i bei tempi nei quali la definizione globale del senso e la narrazione della storia erano saldamente nelle mani di Washington. Oggi la regia televisiva è passata di mano, dice la signora Clinton, che però sembra lasciare agli stessi media americani l'onere di raccogliere la sfida.
Resta da vedere se il discorso del Segretario di Stato troverà orecchie interessate e capaci di comprenderne l'essenza, estremamente allarmante per gli interessi degli Stati Uniti, e se emergerà una credibile risposta occidentale o americana a quello che oggi appare il dominio incontrastato di Al Jazeera.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Doveva essere una manifestazione a favore di Karl- Theodor zu Guttenberg (CSU), l’ex- ministro della Difesa tedesco dimessosi pochi giorni fa a seguito dello scandalo plagio, ma si è risolta in una vera e propria presa in giro nei suoi confronti. È successo sabato pomeriggio a Berlino, dove un centinaio di dimostranti si son presi la briga di fare conoscere la propria opinione nei confronti del cosiddetto “ministro copione”: chi lo acclamava beffardamente imperatore, chi paragonava ironicamente il suo “copia e incolla” a un moderno Bonnie & Clyde, chi esaltava il prototipo mediatico “bellezza VS verità” incarnato da zu Guttenberg, di sicuro sotto la porta di Brandeburgo non sono mancati sarcasmo e buon umore.
Ma l’atmosfera di ambigua perplessità che si respira tra i cittadini tedeschi non sorprende e, soprattutto, sembra andare a rispecchiare perfettamente la confusione che regna nel Governo di Angela Merkel (CDU): perché, anche in ambito politico, il dopo- zu Guttenberg si anticipa più turbolento e meno chiaro del previsto e non smette di sollevare dubbi.
La manifestazione a favore del barone zu Guttenberg è stata organizzata tramite il social network Facebook, grazie a un profilo a sostegno del ministro dimissionario accusato di aver copiato gran parte della sua tesi di dottorato e costretto dalla pressione mediatica a dare le dimissioni. Nel giro di pochi giorni si erano raccolte quasi 500mila adesioni: una partecipazione di tutto rispetto che sembrava incoraggiare un eventuale ritorno di zu Guttenberg in politica, probabilità già sventolata da alcuni giornali tedeschi.
Ma i social network, si sa, non sempre rispecchiano la realtà delle cose. E, in effetti, da quasi mezzo milione di adesioni virtuali é conseguita una sola manifestazione vera e propria a favore del ministro copione, e cioè a Guttenberg stesso (Sud Ovest delle Germania), suo luogo di nascita. Organizzata dal padre, il barone (e dirigente) zu Guttenberg senior, la protesta pro- zu Guttenberg ha radunato 4.000 sostenitori circa.
Che hanno cercato di difendere la causa dell’ex-incaricato alla Difesa cristiano sociale con slogan del tipo “Gutti era troppo in gamba per voi” o “l’invidia è difficile da digerire”, in riferimento all’enorme successo personale di zu Guttenberg figlio e alla sua (finora) impeccabile carriera. A dominare la scena nella maggior parte delle città tedesche, tuttavia, è stato il provocante dileggio anti- ministro copione.
Meno beffarda ma altrettanto ambigua rimane la situazione anche in ambito politico, dove la bufera sembra tutt’altro che passata nonostante le rapidissime decisioni prese dal Governo della Cancelliera Merkel in risoluzione al vuoto dopo- zu Guttenberg. Il nuovo ministro alla Difesa tedesco è stato nominato inaspettatamente dopo sole ventiquattro ore dalle dimissioni di zu Guttenberg: è Thomas de Maizière, cristiano democratico, 57 anni, definito uno degli “uomini della Merkel”, che ha lasciato il suo posto di capo degli Interni per assumersi le responsabilità della Difesa e, c’è proprio da dirlo, tutti gli oneri del caso.
Perché, in realtà, la situazione lasciata da zu Guttenberg non è delle più lineari: de Maizière si troverà a risolvere ingombranti grovigli mediatici quali gli scandali della cadetta morta a gennaio sulla nave di addestramento della marina federale, la Gorch Fork, e del soldato morto in Afghanistan lo scorso dicembre, ma non solo.
Lo scoglio fondamentale rimarrà la riforma dell’arma introdotta ufficialmente dall’ex- ministro zu Guttenberg l’anno scorso, che avrebbe dovuto compiersi a breve, ma che non sembra essere nata sotto i migliori auspici: se il cambio di guardia autorizzerà il nuovo ministro a una rivisitazione della riforma, questo rimane ancora da chiarire. E, quasi a conferma dei dubbi che aleggiano in questo senso, il leader dei cristiano sociali Horst Seehofer ha già diffidato de Maizière da un tale passo.
In particolare, zu Guttenberg aveva previsto l’introduzione del servizio militare volontario in sostituzione della vecchia prestazione obbligatoria in vigore in Germania da 58 anni: l’obbligo di leva per i giovani tedeschi avrebbe dovuto terminare proprio quest’estate. Per l’anno in corso, tuttavia, all’arma si sono presentati solo 2’500 giovani, contro un minimo indispensabile di 12mila. Zu Guttenberg pensava di risolvere con una considerevole campagna pubblicitaria e di migliorare le condizioni del servizio militare, trasformazione che avrebbe richiesto sicuramente un investimento di fondi considerevole. Si stava addirittura pensando, in futuro, di permettere agli stranieri di far parte dell'arma. Un cambiamento importante quindi, che certo giustifica le perplessità di popolazione e ceto politico.
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di Carlo Musilli
Anche un monarca assoluto può avere paura. Re Abdullah domina sull'Arabia Saudita dal 2005, ma gli ultimi tre mesi li ha passati all'estero. Doveva prendersi cura della sua salute. Ora è tornato. E ha iniziato a sentire il tic-tac del timer che scandisce l'ora in cui anche per lui inizieranno i problemi. La voglia di libertà che circola in Maghreb, infatti, ha iniziato a contagiare anche i sauditi.
Centinaia di utenti Facebook stanno organizzando per l'11 marzo la “Giornata della rabbia” per chiedere elezioni libere e il rilascio dei detenuti politici. Sempre su internet, domenica scorsa oltre cento intellettuali hanno lanciato un appello per riforme politiche, economiche e sociali. Vogliono che la monarchia assoluta diventi costituzionale, con tanto di separazione dei poteri. Vogliono anche "misure che riconoscano alle donne il diritto al lavoro, all'istruzione, alla proprietà e alla partecipazione alla vita pubblica".
Nel frattempo, sono iniziate le proteste anche nel mondo reale. Per la precisione nella parte orientale del regno, dove la confessione sciita è prevalente. Erano oltre 200 i manifestanti a Qatif, 100 nella città di Awamiyya, altri ancora ad al-Hufuf. Sono scesi in piazza per chiedere il rilascio dei prigionieri sciiti. Fra questi, c'è anche il leader religioso Tawfeeq Sheikh Al-Amer. Secondo quanto rivelato alla Cnn da Ibrahim Al-Mugaiteeb, presidente della Human Rights First Society, Amer è stato arrestato venerdì scorso per aver sostenuto in un sermone che l’Arabia Saudita dovrebbe diventare una monarchia costituzionale.
Certo, tutto questo può sembrare poca cosa se si pensa a ciò che sta accadendo in Maghreb. Il confronto non regge: sarebbe come paragonare un colpo di tosse a un coro da stadio. Eppure, questi accenni di protesta sono stati sufficienti a far drizzare le antenne al malandato re Abdullah. Prevenire è meglio che curare, avrà pensato il sovrano. E così ha aperto il forziere, stanziando 36 miliardi di dollari per aiutare la popolazione. Finanziamenti per compensare l'inflazione, per aiutare i giovani a trovare lavoro e per sostenere le famiglie nel loro diritto ad avere un'abitazione. Aumenti salariali e controllo dei prezzi dei beni alimentari. Non solo: é arrivata perfino la promessa di un piano quadriennale da 400 miliardi di dollari per migliorare scuola ed università.
Nel complesso, un gigantesco tentativo di corruzione di massa. Ma Abdullah deve aver capito che, per dimostrare tutta la sua buona volontà al Paese, il denaro non è sufficiente. Ed ecco la trovata geniale. Secondo quanto riportato dal quotidiano Al Watan, il sovrano starebbe valutando l'ipotesi di concedere il diritto di voto alle donne. Potrebbe sembrare una rivoluzione epocale per un Paese in cui se hai la disgrazia di nascere femmina ti tocca passare la vita sotto la tutela giuridica di un parente maschio. In realtà, anche questa è una presa in giro. Se pure fosse concesso loro di votare, infatti, potrebbero farlo solo a favore di altri uomini. Mai e poi mai le donne saranno eleggibili. E un diritto a metà, non è un diritto.
Com'è ovvio, ai sauditi questo non è sfuggito. Le promesse di Abdullah sono state giudicate insufficienti. Un'evidente ruffianata per tentare di dribblare il problema delle riforme politiche. L'Arabia Saudita non ha un Parlamento eletto, né partiti politici e non tollera alcuna forma di pubblico dissenso. Il governo è nominato dal sovrano, che trasmette il suo potere per via dinastica. Il re attuale ha 83 anni e il suo successore, almeno in via teorica, dovrebbe essere il fratello, un 81enne malato di alzheimer. Le elezioni sono state introdotte come primo contentino solo nel 2005 e servono unicamente ad eleggere i politici locali.
Stante questa situazione invidiabile di potere, oggi le preoccupazioni di Abdullah sono legate alla minoranza sciita del Paese. Come detto, questa è concentrata soprattutto nella provincia orientale, una zona desertica ma ricca di giacimenti d’idrocarburi e di compagnie petrolifere. Soprattutto, una zona che confina con il Bahrein. Nel piccolo emirato del Golfo Persico gli sciiti costituiscono il 70% della popolazione e lo scorso 14 febbraio hanno iniziato a manifestare contro il regime sunnita che guida il Paese dal 1971, anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna.
Anche i manifestanti del Bahrein chiedono di trasformare la monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono poi le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il governo da 40 anni è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Come sta accadendo oggi in Arabia Saudita, anche in Bahrein la protesta si è gonfiata su internet. Anzi, è probabile addirittura che, sempre per via telematica, i manifestanti siano stati influenzati e spronati proprio dai correligionari sauditi. Una gestazione cibernetica che ha portato quindi allo scontro aperto con l'esercito, sporcando di sangue le strade di Manama, la capitale. Forse è stato allora che re Abdullah ha iniziato a preoccuparsi. A sentire il tic-tac del timer.