di Fabrizio Casari

Diventa ogni giorno che passa più complessa la situazione in Libia. La Cirenaica è in mano ai rivoltosi e la Tripolitania é ormai il campo di battaglia dove si misurano la capacità militare di Gheddafi e quella degli insorti. Le truppe del colonnello sembrano controllare ancora la capitale e la zona della Sirte, mentre l’unica zona dove non si registrano scontri è il Fezzan, storicamente vicina (come la Tripolitania) alle tribù alleate di Gheddafi. L’opposizione al regime conferma intanto di avere una identità peculiare, molto diversa da quelle viste negli altri paesi dell’area, che hanno portato l’Egitto e la Tunisia alla cacciata dei rispettivi Rais e che mettono Barhein e Algeria (e Yemen) alle strette. In Libia, infatti, non ci sono manifestazioni oceaniche pacifiche; c’è invece un vero e proprio esercito in abiti civili a combattere contro le truppe governative.

Non è un caso che le milizie oppositrici riescano a muoversi per centinaia di chilometri in ormai tutte le regioni del Paese ingaggiando scontri che denotano preparazione militare, conoscenze tattiche e possesso di armi decisamente anomalo per dei civili. La favola dell’opposizione che si arma saccheggiando i depositi e disarmando i militari lealisti possiamo annoverarla come uno dei capitoli della propaganda mista tra Occidente e monarchie saudite, cioè le due versioni del controllo imperiale del Golfo e del Medio Oriente.

E nella morsa contro Gheddafi anche i rispettivi compiti sono ben delineati: alle monarchie saudite è stato affidato il ruolo della propaganda tramite i suoi canali televisivi satellitari, mentre sono proprio Usa, Francia e Gran Bretagna che, dal 26 febbraio scorso, hanno inviato in Cirenaica diverse centinaia di militari per addestrare militarmente gli insorti ed agenti dei rispettivi servizi segreti incaricati di costruire le operazioni d’intelligence militare.

A rivelarlo è stato Debkafile, sito israeliano d’intelligence, che aveva anche anticipato la notizia delle navi iraniane in transito nel canale di Suez. La notizia è stata ripresa anche da diverse fonti internazionali (ultimo il Pakistan Observer) ma non in Italia, dove solo un take dell’agenzia Agi ha ritenuto di darla; ma senza insistere troppo, che non si sa mai.

Lo scontro militare sul campo è quindi destinato a concludersi con la vittoria di uno dei due contendenti e rende inutili ipotesi di riconciliazione e di tavoli negoziali. La stessa proposta di Hugo Chavez, che si è proposto come mediatore tra le parti in conflitto, sebbene sia stata caldeggiata da Spagna e Russia, ha incontrato sia il “no grazie” da parte del regime libico, sia il “no” dell’opposizione filo-monarchica della Cirenaica e dei suoi principali sponsor, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele.

Dunque nessuna mediazione internazionale, che invece avrebbe il merito di far tacere le armi e scoprire le carte, tirando fuori le notizie e i fatti dalle bocche interessate dei media internazionali al seguito di Al-Jazeera e Al Arabiya, che dipingono un’insurrezione come una rivoluzione; a queste si contrappone quelle del colonnello, che dipingono una vera e propria rivolta popolare come un complotto ordito da qualche centinaio d’islamisti radicali.

D’altra parte le aperture offerte del Gheddafi-figlio sembrano in realtà tentativi di prendere tempo per riorganizzare il proprio fronte interno; alternando minacce e mitragliate sul suo popolo a dichiarazioni di pace, il figlio è ancor meno credibile del padre. E comunque, la variegata coalizione di persone senza apparenti sigle che combattono il regime non ha nessuna intenzione di fermarsi a discutere.

Perché l’unico generale che dirige le operazioni in Libia è il "Generale Tempo". La soluzione militare confligge più che mai con quella politica: fermare le ostilità significa perdere. Chi per primo accettasse il “cessate il fuoco”, scambiando polvere e sangue per tavoli e parole, dichiarerebbe, di fatto, la sua incapacità a superarsi, ad andare oltre dove è già arrivato; in una parola, dichiarerebbe la resa. Ed é evidente che la situazione non può durare ancora per molto: la prossima saràla settimana decisiva per l'evoluzione finale del conflitto e chi si ferma per primo ha perso .

Gli analisti internazionali si domandano cos’abbia intenzione di fare l’Occidente nei confronti della Libia. Si dà per scontato che il voto sulle sanzioni a Gheddafi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non potrebbe trovare uguale esito nel caso di una proposta d’intervento militare diretto, pur mascherato da “intervento umanitario” sul modello di quello nei Balcani. L’opposizione di Cina e Russia lo impedirebbe. Un intervento della Nato, poi, non è proponibile, se non si vuole trasformare Gheddafi nel nuovo Omar El Muktar e sputtanare pubblicamente la cosiddetta “opposizione” come strumento dell’impero a stelle e strisce.

Le sue fila ne riuscirebbero seriamente mutilate dai combattenti che ritengono di lottare per la fine di una dinastia dittatoriale e non per la riconquista coloniale della Libia, e la presenza di truppe dì occupazione straniere sarebbe solo il preludio ad una nuova Jihad islamica contro il “Grande Satana” che, in primo luogo, rafforzerebbe Ahmadinejihad, i Fratelli musulmani, Hezbollah e Hamas. Entrambe le ipotesi, non sono certo le più gradite a Washington e Bruxelles.

E del resto, oltre a ciò, si deve aggiungere che imbarcarsi in un nuovo Kossovo ai margini del Sahara non fa parte dei piani occidentali: non solo la centralità dei Balcani nello scacchiere geopolitico internazionale è decisamente superiore a quello del Maghreb, ma la storia insegna che gli interventi militari hanno nei bombardamenti solo la prima fase. Poi, per forza, si deve scendere a terra, occupare il paese, gestire politicamente, socialmente ed economicamente l’ingresso stabile di questo nell’alveo politico ed economico occidentale.

E i paesi Nato, spossati sotto tutti i punti di vista dalle fallimentari avventure in Irak e Afghanistan, non dispongono nemmeno delle risorse minime a garantire tutto ciò: un territorio immenso e costituito socialmente da tribù e clan, porterebbe più credibilmente ad una nuova Somalia, più che ad un nuovo Kossovo. Un altro spettro assolutamente da evitare.

Quando Gheddafi ha denunciato la mano di Al-queda in funzione di spauracchio per l’Occidente, ha dimostrato di non avere più - se mai l’ha avuto nel recente passato - non solo il polso del suo Paese, ma anche quello delle cancellerie occidentali. L’Occidente, che ha ritenuto di dover mantenere al potere tutti i leader maghrebini (Gheddafi compreso) in funzione di baluardo contro l’estremismo islamismo, è oggi consapevole di come Al-queda e compari siano sostanziali sette minoritarie, comunque non in grado di proporre alternative concrete di governo nei paesi musulmani. Un pericolo di prospettiva, semmai, non imminente.

Il problema é quindi il "come" disfarsi oggi di regimi quarantennali che, per quanto docili o divenuti tali, rappresentano nella loro follia dinastica proprio un elemento potenzialmente destabilizzante per quegli stessi popoli che dovrebbero governare. In questo senso, da utili idioti diventano pericolosi proprio per la stabilità dei loro stessi paesi. Che, invece, è fondamentale: la Libia, infatti, è oggetto di scontro per il riassetto generale dei regimi maghrebini e anche per la ridefinizione delle quote di petrolio disponibili sul mercato, e di conseguenza del suo prezzo. Non sono ammesse variabili impazzite che mettano in discussione questo processo di riassestamento. L'idea di Gheddafi di bombardare i pozzi, é stata, in questo senso, anche la più stupida: era convinto forse di mettere paura all'Occidente, ma gli ha solo messo più fretta di liberarsi di lui,

Nessuna illusione quindi: né a Washington, né a Londra o a Parigi importa un fico secco dello scontro interno alla Libia; quello che interessa - e molto - è la caduta di Gheddafi e, con essa, la riconquista dei rubinetti del petrolio libico. Infatti, benché con una produzione minore rispetto a quella dei paesi del Golfo, la sua qualità é particolare, adatta a un processo di raffinazione che lo rende particolarmente redditizio. E anche perché la Libia non é che il primo dei due obiettivi per la riconquista energetica del Maghreb: poi toccherà all’Algeria, il cui gas è particolarmente utile anche per ridurre la dipendenza europea da Putin.

E forse, in questo senso, non è strano che la regione del Fezzan, confinante proprio con l’Algeria, sia ancora l’unica dove non si registrano scontri: non è interesse di chi muove i fili della rivolta libica investire da subito un’area che potrebbe aprire scenari difficili - per migrazioni e scontri - in grado di destabilizzare prematuramente Algeri. Ci sarà tempo per farlo: difficile governare la rivolta in un paese, difficilissimo sarebbe allargarla contemporaneamente anche ad un altro.

Sembra aver trovato la quadratura del cerchio, l’Occidente: invece di spedire i propri militari a morire, sostenendo grandi spese per il bilancio pubblico, in cambio dei grandi affari per quello privato, oggi si trova a poter metter le mani sul controllo delle fonti energetiche del Maghreb facendo pagare ai suoi popoli il tributo del sangue cui seguirà il tributo del petrolio. Il primo si paga in arabo, il secondo si riscuote in inglese.

di Michele Paris

Da qualche giorno ad Haiti ha preso il via ufficialmente la campagna elettorale per il secondo turno delle elezioni che il 20 marzo prossimo decreteranno il nuovo presidente. Il ballottaggio che andrà in scena sulla disastrata isola caraibica si annuncia non privo di insidie e giunge dopo un primo turno funestato da diffuse irregolarità e disertato in massa dalla popolazione locale.

La selezione del successore dell’attuale presidente, René Préval, era iniziata lo scorso 28 novembre tra l’indifferenza generale e immediate accuse di brogli. Secondo i risultati preliminari, i candidati che avevano ottenuto i maggiori consensi risultavano essere la ex first lady di Haiti, Mirlande Manigat (31,4 %), il favorito del presidente in carica, Jude Célestin (22,5 %), e il popolare cantante di “kompa” Michel Martelly (21,8 %), più noto con il nome d’arte di “Sweet Micky”.

I primi risultati avevano suscitato le immediate proteste dei sostenitori di Martelly, così che, tra le polemiche, il secondo turno ha subito svariati rinvii. In seguito alle pressioni americane e ad una controversa indagine condotta dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), la comunità internazionale ha sostanzialmente finito col riconoscere i presunti brogli. La Commissione Elettorale Provvisoria haitiana ha perciò certificato il secondo posto di Michel Martelly, squalificando, di fatto, il candidato proposto dal presidente Préval.

Sia quest’ultimo che lo stesso Célestin hanno reagito duramente alla sentenza della commissione elettorale, accusandola di aver derubato il loro partito di una possibile vittoria nelle presidenziali. I sospetti sono aumentati quando è stato reso noto che quattro degli otto membri della commissione si sono rifiutati di certificare il risultato del voto, privando la decisione finale della maggioranza richiesta dalla legge per qualsiasi deliberazione.

Dopo le resistenze iniziali, Préval e Célestin hanno però ceduto, soprattutto in seguito alle raccomandazioni espresse dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in visita a Port-au-Prince il primo febbraio scorso. L’ordine di Washington è stato insomma quello di abbandonare ogni rivendicazione e di appoggiare le decisioni dell’OSA e della Commissione Elettorale Provvisoria. Gli Stati Uniti avevano infatti deciso di respingere una proposta di compromesso per un ballottaggio con tre candidati, mentre hanno concesso a Préval soltanto di prolungare fino al 14 maggio il suo mandato - scaduto il 7 febbraio - così da proclamare ufficialmente il successore senza lasciare pericolosi vuoti di potere.

Tutte queste manovre non sono altro che il risultato di un’elezione condotta tra il disinteresse della gran parte degli haitiani, ancora costretti a fare i conti con le conseguenze del terremoto del gennaio 2010. A ciò va aggiunto che numerosi partiti politici sono stati esclusi dalla competizione elettorale, tra cui il popolare Fanmi Lavalas, del due volte deposto presidente Jean-Bertrand Aristide. La richiesta di esclusione sarebbe stata fatta dallo stesso Préval, già alleato di Aristide prima della rottura definitiva seguita al colpo di stato orchestrato da Washington nel 2004.

In queste condizioni, l’affluenza al primo turno è risultata poco meno del 23 per cento, contro quasi il 60 per cento nel 2006, quando trionfò Préval. Nelle aree più colpite dal sisma si è scesi addirittura ad un misero dieci per cento. Ciò significa che il ballottaggio del 20 marzo si terrà tra due candidati che hanno raccolto complessivamente il consenso di appena il dieci per cento dell’intero elettorato haitiano. Di fronte alla farsa del voto del 28 novembre, anche i due candidati che si giocheranno la presidenza avevano inizialmente chiesto l’annullamento dell’elezione, per poi fare marcia indietro una volta constatati i risultati a loro favorevoli.

Sia Mirlande Manigat che Michel Martelly fanno riferimento a partiti di centro-destra ed entrambi sono macchiati da legami con la dittatura dei Duvalier e i successivi regimi militari che hanno guidato l’isola. La vincitrice del primo turno è la 70enne moglie dell’ex presidente Leslie Manigat, già sostenitore del dittatore François Duvalier (“Papa Doc”) prima di finire in carcere e in esilio. Tornato ad Haiti, Manigat conquistò la presidenza nelle elezioni del gennaio 1988, condotte però sotto il controllo dei militari e alle quali partecipò non più del dieci per cento degli aventi diritto. Sei mesi più tardi sarebbe stato deposto dal colpo di stato guidato del generale Henri Namphy, a sua volta rimosso dal potere nel mese di settembre dello stesso anno da un nuovo golpe con protagonista un altro generale, Prosper Avril.

Ancora più compromessa appare poi la figura di Michel Martelly, la cui fama di cantante di successo ha conquistato i consensi di una parte degli haitiani più giovani con poca memoria del passato del loro paese. “Sweet Micky” fece infatti fortuna durante gli anni della dittatura di Jean-Claude Duvalier (“Baby Doc”), gestendo un locale notturno frequentato dai vertici dell’esercito e dai componenti dei gruppi paramilitari che seminavano il terrore nel paese.

Strenuo oppositore del presidente democraticamente eletto Aristide, Martelly appoggiò il colpo di stato che lo depose per la prima volta nel 1991. Allo stesso modo non ha mai nascosto le sue simpatie per il cosiddetto FRAPH (Fronte per l’Avanzamento e il Progresso di Haiti), vero e proprio squadrone della morte fondato nel 1993 dall’uomo della CIA Emmanuel “Toto” Constant.

Alla vigilia dell’avvio ufficiale della campagna elettorale per il ballottaggio di marzo, Manigat e Martelly si sono dati da fare per coordinare le rispettive operazioni con i veri padroni di Haiti, a cominciare da Bill Clinton. L’ex presidente americano detiene un enorme potere ad Haiti, in particolare nella distribuzione dei fondi, in veste di inviato speciale dell’ONU e copresidente del Comitato Provvisorio per la Ricostruzione di Haiti assieme al primo ministro Jean-Max Bellerive.

Incontri formali si sono tenuti anche tra i due candidati e i vertici della forza di pace delle Nazioni Unite di stanza sull’isola (MINUSTAH) e con il Club di Madrid, l’organismo composto da ex premier e capi di stato europei che vorrebbe promuovere democrazia e cambiamento nei paesi più arretrati.

Ad accendere un clima politico già infuocato dalle polemiche seguite al voto e dai problemi del dopo terremoto ha contribuito lo scorso gennaio anche il ritorno in patria dopo 25 anni dell’ex dittatore Jean-Claude Duvalier, finito poi sotto accusa per corruzione e appropriazione indebita durante i quindici anni alla guida del paese (1971-86). Se l’arrivo di “Baby Doc” non ha suscitato le proteste dei due candidati alla presidenza, soprattutto Martelly ha usato invece toni minacciosi nei confronti di Aristide, il quale ha poco dopo manifestato l’intenzione di tornare ad Haiti dal suo esilio in Sudafrica. Lo scorso 8 febbraio, il presidente Préval ha concesso ad Aristide il visto d’ingresso e un suo eventuale rimpatrio potrebbe contribuire ad alimentare le tensioni nel paese.

Alla luce della situazione ad Haiti, è più che lecito dunque ipotizzare che anche il secondo turno delle presidenziali sarà segnato da pesanti scorrettezze. Mentre sono ancora in molti a chiedere che il voto venga annullato interamente, l’impressione generale è che alla fine sarà stata la comunità internazionale ad imporre il nuovo presidente.

Un ballottaggio all’insegna delle irregolarità rischia insomma di gettare le basi per una nuova futura crisi nella già travagliata isola del Mar dei Caraibi, quando invece ciò che vorrebbero in fretta gli Stati Uniti e gli altri paesi che detengono il potere nel paese é un nuovo presidente e un governo stabile che garantisca gli interessi stranieri nella delicata fase della ricostruzione.

di Eugenio Roscini Vitali

Alle 05:45 (03:45 GMT) del 22 febbraio 2011, due navi della marina militare iraniana iniziano il transito attraverso il Canale di Suez, autorizzate al passaggio dalle autorità egiziane in base alla Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888, accordo che assicura lo statuto internazionale del Canale stesso e la sua apertura alle navi di tutte le nazioni, senza discriminazioni, in tempo di guerra come in tempo di pace. Alle 15:30 (13:30 GMT) dello stesso giorno la fregata Alvand FFG-71 e la nave da rifornimento Kharg AORH-431 entrano nel Mediterraneo, in rotta dal porto arabo di Jedda a quello libanese di Latakia, 100 chilomentri a nord di Tartus, sito di manutenzione della Marina militare russa destinato a diventare entro il 2017 la nuova sede della Flotta del Mar Nero, attualmente ancorata a Sebastopoli, in Crimea.

L’operazione, annunciata nel gennaio scorso dall’ammiraglio Gholam-Reza Khadem Bigham, vice comandante della Marina Militare iraniana, rientra in un programma di esercitazioni per la raccolta d’informazioni d’intelligence che dovrebbe durare alcuni mesi e alla quale potrebbero partecipare altre due unità ed un sottomarino.

L’arrivo a Latakia delle due unità iraniane, registrato il 24 febbraio pomeriggio, non è solo un fatto estemporaneo; piuttosto coincide perfettamente con quello che potrebbe essere definito il “nuovo corso mediorientale dell’Iran”. Il 25 febbraio, a bordo della nave Kharg, il comandante della Marina iraniana, l’Ammiraglio Habibollah Sayyari, e il suo omologo siriano, Generale Taleb al-Barri, hanno infatti firmato un protocollo bilaterale per un programma congiunto di cooperazione militare che prevede la realizzazione di una base navale iraniana permanete in Siria, la prima nel vicino Medio Oriente e a soli 287 chilometri da Nahariya, città israeliana che si affaccia sul Mar Mediterraneo e che sorge poco a sud della frontiera libanese.

Prima di diventare il nuovo canale di rifornimento per le armi destinate alla Siria e ad Hezbollah (questa è l’ipotesi sostenuta da gran parte degli analisti), il porto di Latakia dovrà comunque essere ampliato e dotato di nuovi impianti e strutture logistiche, adeguato alla cantieristica per la manutenzione delle navi da guerra iraniane a ai sistemi di difesa antiaerea.

In realtà la Alvand FFG-71 e Kharg AORH-431 hanno atteso qualche giorno prima di poter attraversare i 190 chilometri del Canale di Suez, “occupato” dal passaggio di una squadra navale americana composta dalla portaerei USS Enterprise (CVN 65), dall’incrociatore lancia missili USS Leyte Gulf (CG 55) e dalla nave per approvvigionamenti USNS Arctic (T-AOE 8), in rotta verso il Corno d’Africa. Dal punto di vista militare il “faccia a faccia” tra le due piccole flotte non avrebbe comunque destato un’effettiva preoccupazione: i rapporti di forza e i precedenti parlano chiaro.

Durante l’operazione Praying Mantis (Mantide Religiosa), azione militare combattuta nel Golfo Persico il 18 aprile 1988 dalle forze navali americane come rappresaglia al danneggiamento dell’incrociatore USS Samuel B. Roberts, incappato in una mina posata dalla Marina iraniana, la fregata Sahand, nave della stessa classe dell’Alvand, fu identificata e centrata dai missili sganciati da due A-6E Intruder della squadriglia VA-95 “Green Lizards”, ed affondata da un Harpoon lanciato dalla USS Joseph Strauss (DDG-16).

Per Tel Aviv la presenza militare iraniana nel Mediterraneo non rappresenta solo un atto politico dimostrativo; la sfida alla comunità internazionale nasconderebbe infatti un espediente per aggirare le misure restrittive imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che vietano a Teheran la vendita di armi ad Hezbollah ed è comunque un elemento di destabilizzazione che alimenta l’azione dell’estremismo radicale palestinese.

Secondo fonti anonime vicine al governo israeliano, le due navi avrebbero a bordo armi ad alta tecnologia: razzi, sistemi anticarro, fucili d’assalto, munizioni e visori notturni; le informazioni, diffuse sul sito web del quotidiano Màariv, confermano l’ipotesi secondo cui il movimento sciita libanese si starebbe preparando ad affrontare una nuova guerra contro lo Stato ebraico. E’ in quest’ottica che il governo israeliano ha congelato il ritiro delle proprie truppe dalla zona settentrionale di Ghajar, il villaggio siriano occupato nel 1967 e ancora oggi al centro di un’annosa contesa tra Beirut, Damasco e Tel Aviv.

Il timore di riconsegnare al Libano un’area a ridosso del confine era già aumentato in seguito alla nomina del nuovo premier libanese Najib Mikati, miliardario di origine saudita sostenuto da Hezbollah che lo scorso 16 febbraio aveva minacciato di occupare la Galilea in caso di attacco israeliano.

Anche se indirettamente, e con qualche giorno di ritardo, i primi effetti l’arrivo nel Mediterraneo delle due navi da guerra iraniane si sono fatti sentire anche nel Neveg occidentale: alle 21:40 dello scorso 24 febbraio due missili BM-21 (Grad), lanciati dalla Striscia di Gaza, hanno centrato le città israeliane di Beersheba e Netivot, un attacco rivendicata dalle brigate Abu Ali Mustafa, ala militare del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), che non ha causato vittime anche se si sono registrati danni ad un’abitazione civile e ad alcune auto. Dalla fine dell’operazione Piombo Fuso è la prima volta che i palestinesi utilizzano razzi a media gittata con l’intento di colpire un centro abitato di grandi dimensioni e la possibilità che questo si ripeta preoccupa non poco le autorità israeliane.

La giornata era iniziata all’insegna della violenza: nelle prime ore del mattino i miliziani avevano sparato due colpi di mortaio contro una pattuglia israeliana che stava operando nei pressi del valico di Karni e un tank delle Forze di Difesa aveva risposto al fuoco colpendo un commando delle brigate al-Quds  posizionato ad ovest di Khan Younes. Nello scontro erano rimati feriti 11 palestinesi ed era stata distrutta la postazione da cui era partito l’attacco.

I miliziani avevano poi sparato tre granate contro il kibbutz di Nahal Oz, situato vicino alla frontiera con Gaza, e intorno a mezzanotte, come ritorsione all’attacco contro Beersheba e Netivot, l’aviazione israeliana aveva bombardato il quartiere di az-Zaytoun, a sud-est di Gaza City, con un missile che aveva centrato un’automobile e ferito i due occupanti.

Dall’inizio dell’anno sono più di venti i Qassam e le granate che hanno colpito il Negev occidentale, quasi tutti caduti in aree disabitate o vicino ad obiettivi militari; i due Grad da 122 mm esplosi il 24 febbraio scorso a Beersheba e Netivot destano però particolare preoccupazione, soprattutto negli abitanti della zona e in chi crede che Israele non sia ancora in grado difendere gli oltre 900 mila israeliani che vivono a non più di 70 chilometri dalla Striscia di Gaza.

Nel 2008 i missili palestinesi erano riusciti ad arrivare fino Kiryat Gat, Kiryat Malakhi, Gedera e Yaven, 30 chilometri a sud di Tel Aviv, ed è per questo che il ministro della Difesa, Ehud Barak, sta spingendo affinché il sistema d’arma antimissile Iron Dome, pensato come contromisura alla minaccia dei razzi Grad e Katyusha e ai proietti di artiglieria da 155 mm, diventi operativo entro le prossime settimane. 

 

 

di Michele Paris

Per risolvere il sanguinoso conflitto in corso tra i sostenitori di Muammar Gheddafi e gli insorti, che controllano ormai buona parte della Libia, gli Stati Uniti e i loro alleati sembrano essere sul punto di annunciare una qualche forma di intervento militare nel paese nordafricano. A far prevedere un’evoluzione di questo genere non sono soltanto i movimenti nel Mediterraneo di navi da guerra americane e di altri paesi europei, ma anche le esplicite dichiarazioni dei leader occidentali, terrorizzati da rivolte in tutto il mondo arabo sempre più difficili da controllare e da piegare ai propri interessi.

Le prove generali di un possibile spiegamento di forze sono peraltro già state fatte nei giorni scorsi, quando velivoli militari britannici e tedeschi hanno operato alcune incursioni in territorio libico per mettere in salvo i loro connazionali bloccati nel paese. Da parte sua, Washington ha invece fatto sapere di aver movimentato navi e aerei nei pressi delle coste della Libia. Per il Segretario di Stato, Hillary Clinton, infatti, “tutte le opzioni” restano percorribili, mentre da Londra, ancora più chiaramente, il premier David Cameron ha spiegato in un discorso alla Camera dei Comuni che non intende “assolutamente escludere l’uso di mezzi militari” in Libia.

Tutte queste iniziative sono ovviamente propagandate come azioni umanitarie per interrompere i massacri dei cittadini libici in rivolta o per garantire l’approvvigionamento di cibo e medicinali, più o meno sul modello degli interventi nella ex Jugoslavia e in Kosovo negli anni Novanta che hanno sancito la presenza statunitense prolungata nei Balcani. La stessa minaccia di istituire una “no-fly zone” sopra la Libia - da adottare però solo su mandato delle Nazioni Unite - sarebbe dettata dall’urgenza di interrompere i bombardamenti dell’aviazione libica sui manifestanti, nonostante le rarissime incursioni finora effettivamente documentate.

La metamorfosi dell’amministrazione Obama, da spettatrice della rivolta contro Gheddafi ad accesa sostenitrice di un intervento armato, ricalca d’altra parte l’atteggiamento già tenuto nei confronti dei recenti eventi in Tunisia ed Egitto. Il rapido evolversi del punto di vista sulla Libia di Stati Uniti, ma anche di Italia, Francia o Gran Bretagna, riflette inevitabilmente la necessità di doversi muovere in fretta per continuare ad assicurarsi le forniture di petrolio e la formazione di un nuovo regime pronto ad assecondare gli interessi dell’imperialismo occidentale nella regione. Ciò soprattutto alla luce delle sorti ancora incerte nei due paesi che hanno già cacciato i rispettivi dittatori e della probabile imminente escalation di proteste in Algeria, Marocco e altrove.

Per quanto il ciclo frenetico delle notizie sui media istituzionali tenda ad assecondare i proclami dei governi occidentali, è difficile dimenticare le relazioni amichevoli che essi avevano intrattenuto con il dittatore libico fino a tempi molto recenti. A ricordarle è stato però lo stesso Gheddafi in un’intervista rilasciata qualche giorno fa alla BBC. Rispondendo ad una domanda sul riavvicinamento avuto con l’ex primo ministro Tony Blair, Gheddafi ha detto di sentirsi tradito dagli ex amici in Occidente, accusati di “non avere alcuna morale”.

Gli incontri cordiali tra Gheddafi e i vari Blair, Zapatero, Sarkozy, Condoleezza Rice e, soprattutto, Berlusconi, hanno segnato negli ultimi anni la trasformazione di colui che il presidente Reagan aveva definito il “cane pazzo del Medio Oriente”, in uno dei tanti autocrati fidati con cui fare lucrosi affari, tenere sotto controllo le rivendicazioni di popoli alla fame e reprimere le spinte centrifughe dell’integralismo islamico. Una storia recente che smonta impietosamente la credibilità di un Occidente che ha sempre saputo dei metodi repressivi adottati da Gheddafi in 42 anni di regime, avallandoli senza scrupolo alcuno per i propri interessi strategici ed economici.

Un’azione militare occidentale in Libia dovrebbe avvenire con ogni probabilità sotto l’egida della NATO e, verosimilmente, ad assumersene lo sforzo maggiore potrebbe essere l’Italia o la Francia. Un ruolo di primo piano nell’intervento da parte di Washington, come hanno messo in guardia alcuni analisti sui media d’oltreoceano, sarebbe infatti controproducente, visti i sentimenti non esattamente amichevoli nei confronti degli americani e, non va dimenticato, anche alla luce dei crimini non meno gravi commessi dagli USA nelle guerre di occupazione in Iraq e Afghanistan.

L’intervento di forze straniere, in ogni caso, difficilmente incontrerebbe il sostegno degli altri governi arabi, così come sembra essere avversato anche dallo stesso movimento rivoluzionario libico. Un’invasione occidentale toglierebbe una qualche legittimità agli insorti, dando respiro al regime e convalidando agli occhi di qualcuno la tesi di Gheddafi circa una cospirazione orchestrata da potenze imperialiste interessate unicamente al petrolio libico.

In attesa di un accordo internazionale, l’Italia ha intanto rimosso il principale ostacolo legale a un intervento armato contro la Libia, vale a dire il trattato di amicizia e cooperazione firmato con Gheddafi nel 2008. Esso includeva, tra l’altro, un patto di non aggressione e l’impossibilità perciò di usare le basi militari italiane per lanciare incursioni armate contro Tripoli.

“Il trattato non è più applicabile perché non c’è più l’interlocutore”, ha spiegato il ministro degli Esteri Frattini per giustificare la messa a disposizione della base di Sigonella ai cosiddetti voli umanitari per evacuare i cittadini occidentali dalla Libia negli ultimi giorni. Se ci fosse poi una risoluzione dell’ONU per l’implementazione di una “no-fly zone”, definita da Frattini “una misura utile” in un’intervista alla Reuters da Ginevra, “le basi italiane sarebbero le uniche utilizzabili perché le più vicine alla Libia”.

Di fronte ad un pericoloso vuoto di potere in Libia, le potenze occidentali proveranno così alla fine a superare divisioni e resistenze nella comunità internazionale per legittimare un’operazione militare dietro la maschera di un intervento umanitario. Un’azione che produrrebbe un’ingombrante presenza occidentale nel mondo arabo e che potrebbe modificare drasticamente la dinamica stessa e le prospettive delle rivoluzioni in corso in Nordafrica e in Medio Oriente.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Alla luce delle recenti e vigorose accuse di plagio che hanno messo in discussione il suo dottorato, il ministro della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg (CSU) ha presentato ieri le dimissioni ufficiali alla Cancelliera Angela Merkel (CDU). Zu Guttenberg è stato accusato di aver copiato gran parte dello scritto che gli ha garantito il titolo di dottore ed è stato al centro dell’attenzione mediatica per oltre due settimane. Nel frattempo, l’università di Bayreuth, presso la quale l’ex-ministro ha compiuto gli studi, gli ha tolto il titolo e ora, a quanto pare, si è arrivati alla resa dei conti.

La comunicazione è stata data in tarda mattinata, durante conferenza stampa straordinaria. “Ho chiesto le dimissioni”, ha introdotto zu Guttenberg, per poi affrettarsi a spiegare di avere già informato preventivamente la Cancelliera del suo passo. “So che è una frase inconsueta per un politico, e io del resto sono sempre stato pronto a combattere - ha continuato zu Guttenberg- ma ora sono arrivato al limite delle forze”. In particolare, l’ex-ministro ha detto di non sopportare che lo scandalo del plagio vada a pesare sull’immagine delle forze armate federali: lo scandalo, ha articolato zu Guttenberg, ha fatto passare in secondo piano la recente morte di tre soldati tedeschi in Afganistan. Con le sue dimissioni, zu Guttenberg spera di limitare il riverbero della pressione mediatica alla sua persona e salvare le istituzioni.

L’ex ministro ha parlato delle difficoltà di lasciare una carica, quella di ministro, per cui ha dato l’anima, eppure non ha esitato a prendersi le stesse responsabilità che avrebbe preteso da altri: deve rispondere delle sue debolezze e dei suoi errori, ha giustificato, perché un incarico come quello di ministro ha bisogno di una mente libera. Parole severe ma che, in fondo, rispecchiano una sacrosanta verità e un rispetto della res politica in certi altri Paesi ormai dimenticato.

E ora i cristiano-democratici della Merkel e la consorella bavarese, i cristiano-sociali della CSU, piangono le sorti del beneamato barone zu Guttenberg e cominciano a pensare a chi mettere al suo posto. Con la moglie Stephanie, zu Guttenberg era considerato la stella nascente delle scuderie della Cancelliera. In passato, la coppia era stata addirittura paragonata ai Kennedy per fascino e popolarità. La fine dell’ascesa del giovane barone bello (e adorato dalle masse) della politica tedesca ha quasi dell’incredibile e va mettere ancora più in discussione una coalizione, quella della Cancelliera, già tesa in vista delle prossime elezioni regionali, ben sei nei prossimi mesi.

Per quel che riguarda la successione, i vertici CSU non si sono ancora espressi. La questione verrà discussa venerdì, ma la soluzione più semplice sembra essere  la sostituzione di zu Guttenberg da parte del segretario alla Difesa Christian Schmidt. Anche se, a ben guardare, la parabola discendente di zu Guttenberg era già cominciata prima delle accuse di plagio, e cioè con gli scandali della cadetta morta sulla nave di addestramento della marina federale, la Gorch Fork, a gennaio, e del soldato morto in Afghanistan lo scorso dicembre. Due situazioni in cui l’ex-ministro della Difesa non ha saputo gestire la situazione con determinazione, nascondendosi dietro improbabili “non sapevo”, e che sono immancabilmente andati a scalfire la sua carriera impeccabile agli occhi di cittadini, stampa e colleghi.

Per quel che riguarda la Gorch Fork, l’opposizione aveva accusato il ministero della Difesa di tentato insabbiamento, mentre in Afghanistan lo aveva sospettato di aver controllato la posta dei soldati per evitare la fuoriuscita d'informazioni scomode, un metodo ritenuto poco ortodosso di mantenere i segreti di Stato. E ora, rinvigorita anche dai recenti risultati alle elezioni della città stato di  Amburgo, l’SPD non si perde certo l’occasione per dare il colpo di grazia al ministro dimissionario e per infierire, per quanto possibile, sulla coalizione Merkel.

Secondo i socialdemocratici, zu Guttenberg si è ritirato troppo tardi. Il rappresentante parlamentare Thomas Oppermann (SPD) ha definito le dimissioni di zu Guttenberg tanto “inevitabili” quanto “tardive”: la faccenda avrebbe già danneggiato la credibilità della Merkel e la sua reputazione, così come l’essere della politica tedesca in generale. E ora, l’ultima parola spetta ai cittadini, che saranno chiamati alle urne in Sassonia-Anhalt  il penultimo fine settimana di marzo e potreanno già esprimere una prima opinione al riguardo.

 

 

 


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