di Bianca Cerri

Nessuno ha il diritto di rallegrarsi per l’arresto di una persona ma se mai è esistito un uomo che meritava di conoscere quello che la detenzione riesce a fare alla mente e all’anima di un essere umano questi è Jon Burge, ex-capo della polizia di Chicago per oltre un ventennio, arrestato in Florida il 21 ottobre scorso. Per il momento Burge, che aveva accolto l’arrivo degli agenti con la consueta arroganza, è riuscito ad ottenere i domiciliari contro una cauzione di 250.000 dollari ma le autorità gli hanno ritirato il passaporto. L’11 maggio del 2009 verrà processato per aver autorizzato l’uso della tortura durante gli interrogatori e ostruito il corso della giustizia dichiarando il falso sotto giuramento davanti al gran giurì. Rischia dai nove ai quaranta anni di carcere.

di Saverio Monno

Ogni quattro anni la corsa alla presidenza degli Stati Uniti ripropone, pedante, un copione che, dai tempi della dichiarazione d’Indipendenza ad oggi, non ha subito sostanziali modifiche. “Una sceneggiatura in quattro atti e due protagonisti”, questo l’elemento distintivo di un sistema elettorale reso complesso, non tanto dalla forma federale dello Stato, quanto da una visione segnatamente aristocratica della democrazia, com’era nello spirito dei padri costituenti alla fine del ‘700. L’elezione del presidente costituisce il momento più importante nella vita politica statunitense: l’Inquilino della Casa Bianca infatti, ricopre sia la funzione di Capo dello Stato, sia quella di Presidente del Consiglio dei Ministri e rappresenta, dunque, l’espressione più compiuta del potere esecutivo. Ma a dispetto delle rilevanti prerogative ad esso riservate, la procedura che conduce alla nomina della carica più prestigiosa dell’ordinamento statale, è soggetta ad un sistema elettorale indiretto, che non garantisce l’effettivo esercizio del diritto di voto.

di Eugenio Roscini Vitali

Sono decine di migliaia le persone che fuggono dal Nord Kivu, la turbolenta provincia orientale della Repubblica Democratica del Congo dove da alcuni mesi si è scatenato un sanguinoso confronto armato tra i guerriglieri del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), guidati dal deposto generale filo-ruandese Laurent Nkunda, e le forze armate congolesi (Fardc) del presidente Joseph Kabila. La gravità della situazione è tale che a poco più di un mese dalla sua nomina a comandante del contingente di pace Onu nella Repubblica Democratica del Congo (Monuc), il Generale spagnolo Vicente Diaz de Villegas ha rassegnato le sue dimissioni. Pur adducendo "motivi personali" alla sua scelta, subito dopo essere stato sostituito dal generale Ishmeel Ben Quartey, Diaz de Villegas avrebbe ufficiosamente dichiarato che dietro la sua decisione c’è la ferma convinzione che la comunità internazionale non ha i mezzi per impedire che i combattimenti si propaghino in tutta la regione, sia perché la Monuc non ha una chiara visione del quadro generale in cui è costretto ad operare sia perché il paese è in mano ad una leadership politicamente debole. Dietro le fila dei ribelli sembra infatti che ci sia la mano del Rwanda, paese amico degli Stati Uniti che da anni offrirebbe appoggio e ospitalità agli uomini di Nkunda.

di Michele Paris

Anche se costretto in troppe occasioni a piegarsi al volere dell’ala più conservatrice del proprio partito durante la campagna elettorale in corso, ciò che tuttora contraddistingue il senatore dell’Arizona John McCain nel giudizio di una buona parte dei cittadini americani, rimane la sua capacità mostrata in oltre un quarto di secolo di attività congressuale di andare contro ogni dogmatismo, di saper parlare in maniera diretta ai suoi elettori, di ammettere i propri errori e di saper ricavare lezioni importanti dalle sconfitte politiche. Per questo forse, l’aver abbracciato incondizionatamente l’aggressiva strategia di Karl Rove – che nel 2000 gli era verosimilmente costata la nomination a beneficio di George W. Bush – volta a sfruttare ogni linea d’attacco nei confronti del proprio avversario, ha causato la reazione negativa non solo di gran parte di quella stampa, conservatrice e liberal, che aveva contribuito a costruire la sua immagine di “maverick”, ma anche dell’elettorato indipendente che sembrava essere inizialmente un punto di forza della sua candidatura.

di Mariavittoria Orsolato

Il decreto Gelmini è ora ufficialmente legge. Lo ha stabilito ieri mattina il Senato con 162 voti a favore, 134 contrari e 3 astenuti, mentre tra i banchi dell’opposizione si parlava già di referendum abrogativo con relativo striscione. Non sono quindi valsi a nulla gli appelli lanciati durante le centinaia di cortei e manifestazioni organizzati da studenti, docenti e genitori: la schiacciasassi del governo Berlusconi IV passa con la solita arroganza anche sulla scuola pubblica. Il ricorso dell’opposizione al referendum è stato confermato poche ore più tardi da Walter Veltroni, che in una conferenza stampa ha spiegato come il Pd, pur avendo chiara la necessaria parsimonia con cui misurarsi con l’istituto referendario, ritiene importantissima la materia scolastica; da qui l’urgenza di fermare la schifezza della Gelmini appena approvata. Il disegno di conversione è arrivato a Palazzo Madama dopo il maxiemendamento approvato alla Camera con lo strumento della fiducia ma, in sostanza, non una virgola è stata cambiata in merito ai tagli preannunciati sul personale e sui costi.


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