di mazzetta

L'amministrazione Bush è prevedibile come l'alternarsi del giorno e della notte, eppure riesce a stupire ancora, anche coloro i quali ne pensano il peggio possibile. Sembra incredibile, ma di fronte alla crisi di Wall Street, Bush sta facendo esattamente quello che fece all'indomani del 9/11. Il piano presentato dal capo del Tesoro Paulson è l'esatta riedizione della risposta americana agli attacchi di sette anni fa. Come allora l'amministrazione chiede carta bianca, assegni in bianco e assoluta discrezionalità operativa. Come allora la Casa Bianca rifiuta di indagare e perseguire i responsabili della crisi e si prepara a sfruttare l'occasione per l'ennesima grande rapina ai danni dei contribuenti americani. Come allora i soldi pubblici saranno spesi - senza alcun controllo - per ingrassare amici e danti causa dell'elite di Washington. Non c'è alcun senso compiuto nella richiesta di Paulson e Bush al Congresso, se non quello di cercare di salvare gli amici degli amici, quella piccola percentuale di americani (e non) super ricchi che controllano Wall Street e dintorni.

di Carlo Benedetti

MOSCA. La “guerra del Caucaso” è un campanello d’allarme per la dirigenza russa. Ed ora l’onda lunga degli scontri militari costringe il Cremlino a mettere in campo l’altra faccia della sua politica. E se Medvedev aveva parlato di “modernizzazione delle forze armate” ecco Putin che annuncia l’aumento delle spese militari per il 2009 del ventisette per cento fino a un totale di "2.400 miliardi di rubli (pari a 94,12 miliardi di dollari, circa 65 miliardi di euro)". La notizia piomba su un paese che non è solo quello dei “nuovi russi” (ladri mafiosi, ricchi e gonfi di dollari e di ricchezze rubate allo stato) perchè in Russia - ricordiamolo - ci sono decine di milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà. Ma la realpolitik detta le sue leggi. E si scopre che non c’è solo questo aspetto contingente di escalation militare. Vengono alla luce - negli ambienti del vertice russo - problemi di strategia a medio e lungo termine.

di mazzetta

Tra i pochi attori delle guerre d'inizio secolo che ne hanno tratto un evidente vantaggio, ci sono sicuramente le industrie che si occupano di armamenti. Oltre all'aumento esponenziale dei fatturati, le guerre volute da Bush si sono rivelate un'occasione unica per i reparti di Ricerca & Sviluppo delle grandi corporation del complesso militar-industriale americano. Sono piovuti finanziamenti a pioggia e l'occasione di sperimentare ogni genere di arma direttamente sui teatri di guerra, spesso a spregio delle convenzioni che regolano i conflitti. La natura particolare dei conflitti in Iraq e Afghanistan ha indirizzato la ricerca sugli strumenti per acquisire, anche nella cosiddetta “guerra asimmetrica”, quella supremazia incontestabile che gli Stati Uniti vantano già in quella più tradizionalmente simmetrica. Gli armamenti pesanti servono a poco negli scenari di guerra urbana, che secondo gli studi del Pentagono saranno comunque quelli che vedranno impegnate le truppe americane anche nel futuro, non solo al di fuori delle frontiere americane.

di Eugenio Roscini Vitali

Tzipora Malka "Tzipi" Livni è il nuovo leader di Kadima, il partito centrista fondato nel 2005 da Ariel Sharon e dallo scorso anno in balia degli scandali che hanno coinvolto il premier Ehud Olmert. Ora, nell'ipotesi che subito dopo le dimissioni di Olmert dalla carica di premier, il Presidente Shimon Peres decida di affidarle alla signora Livni l’incarico di formare un nuovo governo, il ministro degli Esteri avrà a disposizione 42 giorni per presentare la lista dei ministri, passati i quali si andrà ad elezioni anticipate. Anche se l’incertezza che ha segnato queste primarie non corrisponde alla reale situazione sul campo, il compito non è facile. Tzipi Livni gode dell’appoggio di gran parte della piazza ma il testa a testa che si venuto a creare all’interno del partito dimostra che probabilmente il nemico non alberga poi così lontano. Come prima reazione, Shaul Mofaz ha infatti deciso di prendersi un periodo di riflessione, un "time out" durante il quale dovrà definire il suo futuro politico; una scelta che fa capire le difficoltà in cui versa Kadima.

di Eugenio Roscini Vitali

Sono ormai alcuni mesi che i vertici del Pentagono annunciano con soddisfazione gli effetti della nuova politica americana in Iraq; successi che spesso rimangono legati a contesti del tutto particolari, ma che non nascondono il fatto che qualche cosa sta cambiando. Come il trasferimento dei poteri avvenuto nella provincia di Al Anbar dove, dal primo settembre 2008, le forze di polizia irachene hanno assunto il controllo della sicurezza territoriale di quella che è definita la più turbolenta ed estesa regione sunnita del paese della Mezzaluna fertile. Undicesima delle 18 province irachene tornata sotto il controllo di Baghdad, Al Anbar è stata fino allo scorso anno la principale roccaforte di Al Qaeda e l’area nella quale per lungo tempo la media giornaliera delle perdite Usa è stata superiore ad uno. In questo momento di grave crisi internazionale Washington guarda perciò con grande fiducia ai progressi iracheni e promette una drastica diminuzione delle truppe, argomento che tra l’altro rappresenta uno dei principali cavalli di battaglia della campagna elettorale di entrambi i candidati americani alla presidenza. Ma a cinque anni dall’inizio del conflitto, il piano di disimpegno miliare dall’Iraq pubblicizzato dalla Casa Bianca è possibile o è solo un’altro specchio per le allodole?


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