di Carlo Benedetti

MOSCA. Il movimento rigorista islamico dei wahhabiti torna a farsi vivo - con la forza delle armi - nella Turkmenia. La notizia è delle ultime ore. Si apprende da fonti diplomatiche e da alcuni dispacci dell’agenzia iraniana Irna, che nella capitale Askabad “gruppi di terroristi legati ai wahhabiti e ai narcotrafficanti armati” hanno già attaccato ed occupato alcune zone della città dove si trovano i serbatoi delle riserve di acqua potabile. Le informazioni, al momento, sono scarse e contraddittorie anche per il fatto che il paese - da sempre - è isolato e pochissime sono le fonti che possono confermare o smentire la situazione che si sarebbe creata. Si parla già di molti morti e si apprende anche che il governo di Askabad avrebbe chiesto aiuto sia alle forze militari russe che operano in Turkmenia che al servizio di sicurezza del Cremlino, l’Fsb.

di Valentina Laviola

La piazza ha vinto. I dimostranti di Bangkok hanno ottenuto la caduta del primo ministro Samak Sundaravej. Martedì scorso, la Corte Costituzionale ha annunciato la propria decisione costringendo il premier alle dimissioni: la folla ha esultato, festeggiato, ma senza abbandonare la posizione. È la prima volta che un primo ministro tailandese lascia il suo posto per verdetto di anticostituzionalità. Tuttavia, le dimissioni forzate non impedirebbero, legalmente, una rielezione di Samak. Il conflitto d’interessi che ha portato al suo ritiro si sarebbe consumato, secondo la Corte, negli studi di uno show televisivo che si occupa di cucina: il premier era già apparso come ospite nello stesso programma prima di essere eletto, ma la Costituzione della Thailandia vieta rigidamente al Capo del governo di dedicarsi ad impegni di carattere privato, specie dietro compenso, nel momento in cui si trovi in carica. La tensione, comunque, non si è allentata in questi giorni: centinaia di poliziotti in assetto antisommossa sono stati dispiegati attorno al parlamento tailandese; si temono nuove proteste da parte degli oppositori, ma anche dei sostenitori, di Samak.

di Giuseppe Zaccagni

Sono stati sempre su sponde diverse. Da una parte (quella del potere) un generale che nel 1981 era segretario del Partito Operaio Unificato Polacco (Poup), capo del governo, ministro della Difesa e capo del Consiglio militare della salvezza nazionale (Wron); dall’altra (quella dell’opposizione) un semplice elettricista di Danzica divenuto leader assoluto del sindacato Solidarnosc e un leader di Mosca, segretario generale del Pcus. I nomi - noti in tutto il mondo - sono, rispettivamente, quelli di Wojciech Jaruszelskij, di Lech Walesa e di Michail Gorbaciov. I primi due nemici giurati, il secondo impegnato su posizioni di compromesso. E tutti e tre esponenti di diverse concezioni in merito al futuro del potere polacco.

di Fabrizio Casari

La tensione tra Venezuela e Bolivia da un lato e Stati Uniti dall’altro non pare destinata a ridursi. All’espulsione degli ambasciatori statunitensi da La Paz e Caracas, Washington ha risposto con eguali misure nei confronti dei diplomatici dei due paesi latinoamericani, con ciò riaffermando un meccanismo scontato nella prassi diplomatica. Ma il meccanismo azione-reazione, se ha una sua logica nella fisica, non sempre ce l’ha in politica e, meno ancora, nelle relazioni internazionali. Quella in corso non è una diatriba diplomatica, ma uno scontro politico di dimensioni ampie, che ha origine nell’ingerenza pesante del governo statunitense negli affari interni di tutti i paesi latinoamericani in generale, di quelli con governi progressisti in particolare. Nel caso specifico della Bolivia, l’ambasciatore statunitense, Philip Goldberg, ha promosso, diretto e finanziato la rivolta delle elites bianche nelle regioni ricche del Paese, ostili alla presidenza di Evo Morales. L’ostilità, ad essere precisi, andrebbe declinata con un termine forse non più di moda, ma non per questo meno esplicativo: odio di classe.

di Carlo Benedetti

MOSCA. I “fatti” sono noti e incontestabili. La Georgia ha attaccato l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Ha distrutto la città di Ksinvali. I soldati georgiani delle forze di pace hanno ucciso i loro colleghi russi. Tutto è avvenuto l’8 agosto quando alle 00,00 le truppe di Saakasvili, presidente di Tbilisi, hanno attaccato gli ossetini e i soldati della Russia. Da quel momento è guerra. Con il Cremlino che incassa una presa di posizione che viene dal Congresso americano e che va a favore della “tesi” russa relativa alla colpevolezza georgiana: attacco all’Ossezia del Sud e ai militari russi delle forze di pace. Ma nonostante tutte queste dichiarazioni di livello diplomatico, Mosca non accenna a passi indietro, pur se mostra attenzione alle critiche che negli Usa vengono rivolte all’amministrazione americana che ha creduto in Saakasvili. Il Cremlino non cede. E fa sapere che i suoi missili strategici saranno puntati contro le basi in Polonia e nella Repubblica Ceca se lo scudo antimissile Usa sarà dispiegato nell’Est europeo.


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