di mazzetta

Qualche settimana fa il Procuratore del Tribunale Penale Internazionale (International Criminal Court), l'argentino Luis Moreno Ocampo, ha scosso le diplomazie occidentali annunciando che chiederà l'incriminazione del leader sudanese al-Bechir per genocidio. Ocampo ha scosso anche i giuristi, ai quali la sua uscita è apparsa strana per diversi e fondati motivi. Molti media e molti commentatori sono corsi avanti, parlando dell'incriminazione come già avvenuta, ma Ocampo l'ha solo annunciata e, secondo gli esperti in procedure dell'ICC, ci vorranno alcuni mesi, sempre che l'accusa alla fine sia formalizzata veramente. Nel caso, nella sua qualità di Procuratore, Ocampo propone un'accusa, ma non è per niente scontato che questa sia poi accolta e che ne scaturisca un processo. Che poi a sua volta è sempre di esito incerto. Questo per misurare la distanza da certi commenti che davano per imminente o già attivo un mandato d'arresto per il leader sudanese. Anche in questi giorni i telegiornali italiani parlano del presidente sudanese “incriminato”.

di Carlo Benedetti


MOSCA. Il Cremlino cerca di spegnere l’incendio nel Caucaso sfruttando tutte le possibilità offerte dalla diplomazia e getta acqua sul fuoco smentendo quanti vanno affermando che la Russia vuole costruire un muro “stile Berlino” per dividere Ossezia del Sud e Abchasia dalla Georgia. Le fonti ufficiali della dirigenza russa - interrogate da Altrenotizie - rispondono con una battuta che suona più o meno così: “Grazie, abbiamo già dato...”. Ma le questioni vere sono ben altre. Mosca intanto, incassa i risultati positivi del vertice dei leader dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) i quali condannano il tentativo della Georgia di risolvere militarmente il conflitto con l’Ossezia del Sud ed esortano ad una rigorosa realizzazione del piano “Medvedev-Sarkozy”. E’ questa, in sintesi, la posizione collettiva fissata nella dichiarazione conclusiva del vertice dell’Organizzazione chiuso da poco a Mosca. Ma la preoccupazione maggiore dei leader dei paesi - un tempo facenti parte dell’Urss e precisamente, oltre alla Russia, anche Bielorussia, Armenia, Kasachstan, Kirghisia e Tagikistan - consiste nel fatto che nella regione caucasica si registra una escalation militare incontrollata ed incontrollabile.

di Marco Montemurro

Il governo delle Filippine ha dispiegato l’esercito nella provincia meridionale di Mindanao e ha scelto la linea dura contro le rivendicazioni di maggiore indipendenza. La presidente Gloria Macapagal Arroyo, lo scorso 3 settembre, ha dichiarato ufficialmente concluse le trattative di pace tra il governo e il Milf, l’organizzazione Moro Islamic Liberation Front che da anni si batte nella regione. Si è rotto così il cessate il fuoco in vigore dal 2003 ed è di nuovo acceso il conflitto che dura da oltre trenta anni e che ha causato finora 120mila vittime. Nell’ultimo mese l’intensificarsi degli scontri ha provocato una nuova tragedia umanitaria per l’alto numero di sfollati. I dati forniti dall’autorità filippina (il National Disaster Coordinating Council) riferiscono che ben 479.223 persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa della guerra in corso nei villaggi tra l’esercito e guerriglieri ribelli.

di Elena Ferrara

Potenza dello sport. Se una volta c’era la “diplomazia del ping-pong” (con gli americani che nel 1971 sbarcarono in Cina per una partita che segnò, appunto, l’inizio dell’era di una nuova forma di intese diplomatiche) oggi comincia il periodo della “diplomazia del calcio”. Avviene tutto nell’antica Armenia che, da sempre “nemica” della Turchia, ha ospitato un’invasione pacifica dei tanto temuti turchi. Alle spalle c’è il ricordo del 1915 quando gli armeni dell’Anatolia orientale furono sterminati in quello che è stato poi definito come il genocidio armeno attuato dai turchi (le vittime furono circa due milioni). E c’è poi l’interruzione delle relazioni politico-diplomatiche dal 1993 a causa delle rispettive rivendicazioni sui confini. Ma ora comincia il disgelo. Ed è un fatto epocale. Tutto, appunto, per una partita di calcio nella capitale armena che ha visto schierate in campo le nazionali della Turchia e dell’Armenia. Avvenimento storico perchè le due nazioni vivono ancora nel clima di una loro guerra fredda, lontane da ogni rapporto diplomatico e con le frontiere chiuse. L’evento sportivo non è tanto importante per l’esito quanto per l’incontro tra i leader dei due paesi.

di Eugenio Roscini Vitali

Le dimissioni del presidente Pervez Musharraf rappresentano l’atto finale di una disfatta personale e politica, la fine di un regime che ha generato lacerazioni sociali e paralisi istituzionale. Durante il suo ultimo discorso alla nazione, Musharraf è apparso avvilito e sconcertato; anziché rivolgersi ai pakistani sembrava parlare a se stesso, quasi fosse la vittima inconsapevole di una rapida successione di eventi che avevano consumato e determinato la sua morte politica. Di fronte alle telecamere ha cercato di trovare una giustificazione al suo fallimento: “Ancora una volta mi sacrifico per la patria, non ho fatto nulla per me e tutto per il paese”. Parole di circostanza che non hanno nascosto l’amarezza di una sconfitta annunciata; parole che lasciano in sospeso il futuro di un paese ostaggio della guerriglia, di un’economia in grave crisi, di una nazione incatenata da inimicizie interne, diatribe e settarismi, interessi privati e corruzione. Ma ora che il discusso e “benevolo” dittatore si accinge ad affrontare il dorato esilio di Jedda, che l’alleato della guerra americana al terrorismo ha deciso di farsi da parte, quali saranno le sorti del Pakistan?


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