di Giuseppe Zaccagni

Sono stati sempre su sponde diverse. Da una parte (quella del potere) un generale che nel 1981 era segretario del Partito Operaio Unificato Polacco (Poup), capo del governo, ministro della Difesa e capo del Consiglio militare della salvezza nazionale (Wron); dall’altra (quella dell’opposizione) un semplice elettricista di Danzica divenuto leader assoluto del sindacato Solidarnosc e un leader di Mosca, segretario generale del Pcus. I nomi - noti in tutto il mondo - sono, rispettivamente, quelli di Wojciech Jaruszelskij, di Lech Walesa e di Michail Gorbaciov. I primi due nemici giurati, il secondo impegnato su posizioni di compromesso. E tutti e tre esponenti di diverse concezioni in merito al futuro del potere polacco.

di Fabrizio Casari

La tensione tra Venezuela e Bolivia da un lato e Stati Uniti dall’altro non pare destinata a ridursi. All’espulsione degli ambasciatori statunitensi da La Paz e Caracas, Washington ha risposto con eguali misure nei confronti dei diplomatici dei due paesi latinoamericani, con ciò riaffermando un meccanismo scontato nella prassi diplomatica. Ma il meccanismo azione-reazione, se ha una sua logica nella fisica, non sempre ce l’ha in politica e, meno ancora, nelle relazioni internazionali. Quella in corso non è una diatriba diplomatica, ma uno scontro politico di dimensioni ampie, che ha origine nell’ingerenza pesante del governo statunitense negli affari interni di tutti i paesi latinoamericani in generale, di quelli con governi progressisti in particolare. Nel caso specifico della Bolivia, l’ambasciatore statunitense, Philip Goldberg, ha promosso, diretto e finanziato la rivolta delle elites bianche nelle regioni ricche del Paese, ostili alla presidenza di Evo Morales. L’ostilità, ad essere precisi, andrebbe declinata con un termine forse non più di moda, ma non per questo meno esplicativo: odio di classe.

di Carlo Benedetti

MOSCA. I “fatti” sono noti e incontestabili. La Georgia ha attaccato l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Ha distrutto la città di Ksinvali. I soldati georgiani delle forze di pace hanno ucciso i loro colleghi russi. Tutto è avvenuto l’8 agosto quando alle 00,00 le truppe di Saakasvili, presidente di Tbilisi, hanno attaccato gli ossetini e i soldati della Russia. Da quel momento è guerra. Con il Cremlino che incassa una presa di posizione che viene dal Congresso americano e che va a favore della “tesi” russa relativa alla colpevolezza georgiana: attacco all’Ossezia del Sud e ai militari russi delle forze di pace. Ma nonostante tutte queste dichiarazioni di livello diplomatico, Mosca non accenna a passi indietro, pur se mostra attenzione alle critiche che negli Usa vengono rivolte all’amministrazione americana che ha creduto in Saakasvili. Il Cremlino non cede. E fa sapere che i suoi missili strategici saranno puntati contro le basi in Polonia e nella Repubblica Ceca se lo scudo antimissile Usa sarà dispiegato nell’Est europeo.

di Eugenio Roscini Vitali

In Afghanistan, il vertiginoso aumento del livello di scontro registrato negli ultimi mesi sta mettendo a dura prova le forze della coalizione internazionale. Dalla fine dello scorso anno le milizie talebane hanno cambiato strategia e alla guerra aperta hanno preferito il terrorismo usato dalla guerriglia irachena: più snervante, più efficace e meno rischioso. La scelta é dovuta soprattutto alla schiacciante supremazia dimostrata in precedenza dalle Forze della Nato e dai paesi che partecipano alla missione, ai mezzi a disposizione, alla loro potenza di fuoco e alla capacità operativa. Tutti fattori che avrebbero portato le milizie ad evitare il combattimento diretto in favore di una strategia basata su azioni clamorose, sull’uso massiccio di ordigni esplosivi improvvisati (più comunemente conosciuti come IED o Improvised Explosive Device), di bombe piazzate sul ciglio delle strade, di attacchi suicidi e rapide sortite. I successi ottenuti dalla guerriglia stanno determinato la reazione delle truppe della coalizione, che in questo modo si espone al rischio di errori tattici ed operativi; si conta un elevato numero di perdite e una crescente percentuale di “danni collaterali”, leggasi vittime civili che pagano con la vita tragici errori di valutazione. A sette anni dalla cacciata del regime talebano la popolazione afgana inizia a considerare le truppe straniere come una sorta di esercito di occupazione, un esercito da combattere cosi come furono combattuti i sovietici negli anni Ottanta.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Il titolo è: “L’aggressione georgiana diretta da israeliani”. E subito dalle edicole moscovite vanno esaurite le 570.000 copie del settimanale Argumenty nedeli (Argomenti della settimana) che dedica una pagina a questa notizia che già circolava negli ambienti diplomatici della capitale. Ma ora arrivano i fatti, le testimonianze, i nomi precisi. Di qui l’interesse dell’opinione pubblica ed anche un certo allarme perchè questa “vicenda” può scatenare una reazione del nazionalismo russo, ferito e risentito. La vicenda generale è nota ed è l’argomento del giorno. Perchè il fatto che la Georgia abbia attaccato l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia è già un fatto consegnato alla storia. Ma la domanda che resta si riferisce al “come” sia stato possibile che un paese così piccolo - e cioè la repubblica caucasica - sia stato in grado di muovere le sue armate con un blitz-krieg teso a mettere l’avversario con le spalle al muro. Molti, a Mosca, gli interrogativi sulle capacità o meno dell’intelligence di prevedere mosse aggressive, situazioni di fatto, sbocchi e conseguenze. E così la Russia potente e militarmente ben piazzata scopre di avere il suo tallone d’Achille.


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