di Carlo Benedetti

MOSCA. Nella palazzina liberty situata nel vicolo moscovita Maly Rgevskij, dove ha sede l’ambasciata della Georgia è rimasta solo una targa d’ottone che ricorda l’esistenza della repubblica caucasica. All’interno dell’edificio non c’è più nessun diplomatico. E’ restato solo il vecchio centralinista che ora fa anche da portiere. Ma porte e finestre sono già sbarrate perchè la dirigenza di Tbilissi ha rotto le relazioni diplomatiche con Mosca “colpevole” di aver riconosciuto l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Ed ora, dopo la guerra calda delle settimane scorse, è guerra fredda tra Tbilisi e Mosca, con l’avvio di questa nuova fase che ha trovato anche un palcoscenico ufficiale di rilievo mondiale. Perchè alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu il rappresentante russo, Vitaly Ciurkin, ha gettato il guanto di sfida al suo collega americano, l'ambasciatore aggiunto Alejandro Wolff. Tra i due sono volate parole dure e poco diplomatiche che hanno evidenziato una situazione di estrema tensione che da tempo non si registrava attorno al tavolo rotondo del Consiglio.

di Valentina Laviola

Da alcuni giorni ormai migliaia di persone assediano la sede del governo per dimostrare il loro dissenso. Sono i sostenitori del PAD-People’s Alliance for Democracy, un partito allineato su posizioni conservatrici, che si appoggia alla monarchia e all’esercito. Chiedono con fermezza le dimissioni del primo ministro Samak Sundarevej e del suo gabinetto e non intendono andarsene finché non le avranno ottenute. Accusano il premier (espresso dal Partito del Potere del Popolo) di non essere altro che un fantoccio e di proseguire quella politica corrotta che aveva caratterizzato il suo predecessore Thaksin Shinawatra. Costui si trova attualmente in esilio, a seguito del golpe militare che lo ha destituito nel 2006 e ha messo al bando il suo partito, ma il sospetto è che continui ad agire da dietro le quinte. Alcuni movimenti di protesta si erano registrati già da maggio a Bangkok, ma nulla di comparabile a quanto sta accadendo ora: circa 10.000 persone sono letteralmente accampate nell’area che circonda la sede del governo, organizzate a resistere per giorni e determinate a contrastare eventuali interventi delle forze dell’ordine.

di Michele Paris

Erano sostanzialmente due gli obiettivi che Barack Obama si era imposto di raggiungere con il discorso di accettazione destinato a chiudere la Convention democratica giovedì a Denver in pieno prime-time televisivo per il pubblico americano. Da un lato dare forma concreta a quella promessa di cambiamento che lo aveva proiettato al comando delle primarie durante i primi mesi dell’anno; dall’altro dimostrare di poter fronteggiare John McCain senza timori sui temi della politica estera e della sicurezza nazionale. Nonostante non siano stati fugati i dubbi di quanti all’interno del suo partito temono che gran parte dell’elettorato statunitense ancora non abbia un’idea totalmente chiara di chi sia veramente questo 47enne senatore afro-americano dell’Illinois, il suo straordinario talento di oratore gli ha permesso tutto sommato di risolvere positivamente una quattro giorni di Convention che si era aperta prima con l’investitura ufficiale del vecchio, e malato, Ted Kennedy e proseguita successivamente con il messaggio congiunto di unità dei coniugi Clinton.

di Carlo Benedetti

MOSCA. La tensione nell’intero teatro caucasico non accenna a diminuire. I venti di guerra sono sempre presenti e già al Cremlino (pienamente coinvolto in questo scontro epocale con Washington) si parla di una situazione che sta sfuggendo di mano e che si caratterizza con un riesplodere di antichi conflitti tra nazionalità che sembravano sepolti nella polvere degli anni. E così la realtà di queste ore impone di fare i conti con una vera e propria “balcanizzazione” del Caucaso. Perché i bollettini di guerra che arrivano dai due fronti opposti - russo e georgiano - sono praticamente identici. Arrivano navi nello specchio di mare dell’Abkhazia che battono bandiera russa o americana; si scambiano prigionieri e si trasferiscono bare di zinco da una parte all’altra; si presentano elenchi di “trofei” che sembrano un catalogo di qualche grossa industria militare; si soffia sul vento della propaganda cercando di trovare amici disposti a firmare appelli e dichiarazioni; si fa a gara per chi porta più coperte o bottiglie di acque minerali alle popolazioni che hanno subito gli attacchi. E si mette in moto anche la Nato che non è disposta a perdere la partita. Ingiunge alla Russia (forte anche di un impegno raggiunto con 26 stati dell’organizzazione) di fare una immediata marcia indietro gettando alle ortiche le dichiarazioni delle ore scorse in favore degli abkhazi e degli ossetini.

di Luca Mazzucato

Le elezioni americane si avvicinano a grandi passi e i sondaggi sono incerti. È ovvio che i due candidati Barack Obama e John McCain cerchino di attirarsi le simpatie delle varie lobby e minoranze, seguendo la ricetta vincente di Bush, che nel 2004 passò grazie al voto in massa dei fondamentalisti evangelici. Questa volta nessuno dei due candidati, entrambi di stampo liberal, è particolarmente amato dai cristiani, mentre i latinos hanno già deciso di votare democratico. Resta da decidere il voto della popolosa comunità ebraica degli Stati Uniti: storicamente democratica, amava i Clinton, ma è poi passata dalla parte di Bush per via di Saddam e della questione iraniana. A chi andranno i voti ebraici nelle elezioni di novembre? Agli americani in genere importa assai poco della politica estera, men che meno in periodo di crisi economica. L'ultima visita di Bush in Medioriente ha occupato un misero tre percento di copertura sul totale delle news. La comunità ebraica, al contrario, è forse la più sensibile alle questioni estere e i candidati si danno da fare per accattivarsela.


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