La visita di sei giorni del primo ministro australiano Anthony Albanese in Cina si è conclusa qualche giorno fa con tutti i crismi del successo diplomatico, almeno secondo i suoi sostenitori che non hanno esitato a definirla un “capolavoro”. Ma dietro la facciata delle strette di mano cordiali e dei banchetti a porte chiuse con Xi Jinping si nasconde una realtà ben diversa: l'Australia si trova oggi schiacciata in una morsa geopolitica che rischia di stritolare le sue ambizioni di equilibrio tra Est e Ovest, ovvero tra il suo principale partner commerciale (Cina) e lo storico alleato militare-strategico (Stati Uniti) in un frangente storico segnato dalla competizione crescente tra le due potenze.

Il viaggio di Albanese a Pechino, Shanghai e Chengdu ha avuto infatti un sottotesto di quasi disperazione, volto a puntellare quei rapporti commerciali da cui Canberra dipende in maniera vitale, proprio mentre gli Stati Uniti di Trump alzano il tiro delle pressioni militari e strategiche in chiave anti-cinese. “Non esiste alcuna relazione tra la nostra forte dipendenza commerciale dalla Cina e la nostra alleanza militare-strategica con gli USA”, ha dichiarato Albanese ai giornalisti, continuando a invocare l'importanza del principio di “equilibrio”. Una posizione, quest’ultima, che suona tuttavia sempre più come una vera e propria illusione di fronte alle pressioni in aumento provenienti da Washington.

La Rivoluzione Sandinista ha compiuto 46 anni ed è bene ricordarne pensieri ed opere che la rendono un fenomeno unico al mondo. E’, prima di ogni altra cosa, un’opera di architetture politica che è stata capace di immaginare e realizzare, contro vento e maree, il più grande processo mai concepito di trasformazione del Nicaragua e per il Nicaragua. E’ una Rivoluzione ininterrotta, che nel suo incedere, frutto anche del contesto internazionale, mantiene la postura tipica di una Rivoluzione.

La politologia spesso utilizza la categoria della Rivoluzione quando si potrebbe parlare anche solo di cambiamento politico. Ma nel caso del Nicaragua il termine Rivoluzione è  adeguato. Perché è stato frutto di una guerriglia prima e di governi poi, che hanno abbattuto le strutture di potere politico ed economico precedenti ed hanno cambiato tutto quello che doveva essere cambiato: la struttura di comando, l’equilibrio dei rapporti di classe, la cultura, la mentalità diffusa, persino il senso comune del suo popolo.

Lo scioccante bombardamento del palazzo presidenziale e di altri edifici governativi siriani da parte di Israele nella giornata di mercoledì ha dimostrato ancora una volta come non sia possibile intrattenere rapporti paritari con lo stato ebraico, il quale, per sua natura, comprende e accetta soltanto la dipendenza, quando a essa è collegata la sua stessa esistenza, ed è il caso delle relazioni con gli Stati Uniti, o la sottomissione, a cui cerca invece di sottoporre virtualmente tutti gli altri paesi. Il nuovo regime (ex) qaedista al potere a Damasco aveva infatti obbedito agli ordini di Washington per aprire un processo di normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv, ma questa disponibilità non lo ha risparmiato dalla violenza sionista.

La presentazione del bilancio pubblico per l’anno 2026 del primo ministro, François Bayrou, ha dato un’anticipazione piuttosto chiara delle misure drastiche di riduzione della spesa sociale che attendono non solo la Francia, ma anche molti degli altri paesi europei che hanno abbracciato con entusiasmo insensato le politiche ultra-dispendiose di riarmo per far fronte alla minaccia-fantasma russa. La brutale intensificazione dell’austerity prevista dal governo del presidente Macron è anche la conseguenza di un debito pubblico esploso in seguito alle crisi economiche degli ultimi due decenni, che hanno richiesto pesanti interventi di salvataggio per banche e imprese, e alla costante riduzione della pressione fiscale per le grandi società transalpine. Il costo del crescente buco di bilancio venutosi così a creare, in Francia come altrove, verrà fatto pagare come sempre a lavoratori, pensionati e classe media.

L’aggressione di Stati Uniti e Israele dello scorso mese di giugno contro l’Iran e il sostanziale appoggio dato alla guerra dai governi europei hanno reso ancora più improbabile una già complicata soluzione diplomatica all’annosa questione del nucleare della Repubblica Islamica. Gli eventi delle ultime settimane e l’attitudine generale dell’Occidente hanno però dato anche un colpo forse letale al sistema internazionale di controllo e regolamentazione in ambito nucleare. Un ordine diventato più che precario e che potrebbe crollare definitivamente se i tre governi europei coinvolti nell’accordo di Vienna del 2015 (JCPOA) dovessero decidere di far scattare un meccanismo previsto da quest’ultimo per reintrodurre le sanzioni internazionali contro Teheran, sospese appunto un decennio fa.


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