di Daniele John Angrisani

L’affaire Abu Omar è una storia oscura di spie e sospetti terroristi, intrisa di quel clima di illegalità diffusa cui più volte siamo stati spettatori. Una storia vergognosa che dimostra come il nostro Paese, a distanza di oltre 60 anni dalla fine del fascismo e dalla nascita della nostra Repubblica sia ancora, purtroppo, un Paese a sovranità limitata, le cui leggi finiscono nel nulla, lì dove arriva il segreto di Stato. Come ha affermato Dick Marty, relatore dell'inchiesta approvata dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa sulle presunte prigioni segrete della Cia: "Nel caso del rapimento di Abu Omar, o l’Italia sapeva ciò che è successo, oppure vi è stata una palese violazione della sua sovranità nazionale. Ma, in questo caso, perché Roma ancora non ha presentato una protesta ufficiale alle autorità americane?" A questa domanda, ancora oggi non vi è alcuna risposta. Ma andiamo per gradi. Hassan Mustafa Osama Nasr, più conosciuto come Abu Omar al Masri, nato ad Alessandria d'Egitto il 18 marzo 1963, è un religioso egiziano che da ragazzo è dovuto scappare via dal suo Paese dopo che l'organizzazione islamica a cui apparteneva, al-Gama'a al-Islamiyya, era stata dichiarata illegale dal governo dittatoriale del presidente egiziano Hosni Mubarak. Tale organizzazione, guidata dallo "sceicco cieco" Omar Abdel-Rahman, aveva come scopo principale quello del cambio di governo in Egitto, ma era stata considerata da tempo come una organizzazione terrorista dai due principali alleati internazionali di Mubarak, l'Unione Europea e gli Stati Uniti d'America.

di Alessandro Iacuelli

La procura di Roma ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta bis sulla tragica morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia. Un inchiesta avviata dopo il primo procedimento, che si è concluso con la condanna a 26 anni di reclusione per il giovane somalo Hashi Omar Hassan. Il PM romano Franco Ionta specifica che la richiesta di archiviazione nasce "dall'impossibilità di identificare i responsabili degli omicidi". Il duplice omicidio avvenne a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo 1994. La Toyota su cui viaggiano i due inviati fu colpita dal fuoco sparato dalle armi di almeno sette miliziani. I due giornalisti erano in Somalia per seguire la missione "Restore Hope", dove erano impegnati militari italiani. Fin da subito, per il duplice omicidio, fu ipotizzato un legame con i fatti e le attività scottanti di cui erano venuti a conoscenza Ilaria Alpi e Hrovatin, soprattutto in relazione a traffici illeciti di rifiuti nocivi e radioattivi, il cui pagamento per i somali non era in denaro ma in armi.

di Cinzia Frassi

A trentatrè anni dalla bomba che nel 1974 esplose in Piazza della Loggia a Brescia, mentre era in corso una manifestazione organizzata dal comitato permanente antifascista per protestare contro la violenza di gruppi della destra neofascista, la procura di Brescia rinvia a giudizio sette persone tirando le somme di quella che ormai è la terza inchiesta sulla strage. Ma dare ancora speranza ai cittadini bresciani è il secondo filone dell'inchiesta, quello che segna il coinvolgimento di nomi eccellenti: l'ex generale Francesco Delfino, Pino Rauti e Gianni Maifredi. Si concretizza così quello che il procuratore capo di Brescia Giancarlo Tarquini aveva ventilato il 28 maggio scorso in occasione del 33esimo anniversario della strage: "Non ci limiteremo ai sette nominativi già conosciuti - l'elenco si allargherà, depositeremo altri elementi".

di Sara Nicoli

Dal “ritorno” a Barbiana, la terra di Don Milani, alla candidatura a segretario del Partito Democratico il passo non è breve. Ma è un passo decisivo, quello della legittimazione di una storia, politica e sociale, che la nuova aggregazione politica di centro sinistra che nascerà in autunno non possiede e tenta disperatamente di acquistare sul campo a prezzi modici. Non si può leggere diversamente la visita del candidato unico Walter Veltroni a “uomo forte” del Pd, a braccetto con il suo probabilissimo vice, Dario Franceschini, sui luoghi che segnarono la nascita dell’unione tra il sentimento cattolico e i valori più forti del solidarismo sociale, Barbiana e Don Milani, appunto, destinati – a questo punto –a diventare “radici”di chi non le ha più e forse non le potrà avere in seguito. Ma la visita di Veltroni a Barbiana ha significati più profondi della semplice “scesa in campo” di un Veltroni, passato da “eterno secondo” delle grandi occasioni di leadership, ad essere finalmente davanti all’agognata svolta.

di Maura Cossutta

Quattro ministri, Fabio Mussi, Paolo Ferrero, Alfonso Pecoraro Scanio e Alessandro Bianchi, hanno preso carta e penna e hanno scritto a Prodi. Hanno scritto una lettera perché, mentre giovedì prossimo Prodi dovrebbe presentare al Consiglio dei Ministri il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (DPEF), nessuno di loro è mai stato coinvolto, sentito, ascoltato. Altri ministri sì, sono stati ricevuti e con loro si sono formulate proposte, si sono definite cifre. Una lettera, quindi, che rappresenta innanzitutto una esplicita e dura critica di metodo, di mancanza di collegialità e che è già questione di merito. Un governo che non si presenta insieme all’appuntamento del DPEF dimostra infatti di avere seri e gravi problemi politici al suo interno; un Presidente del Consiglio che procede senza coinvolgere nemmeno i suoi ministri dimostra di essere schiacciato da questa debolezza e per questo destinato soltanto ad essere condizionato da chi è più forte. Dini in questo senso si è già fatto subito sentire, ponendo il suo diktat, e dietro di lui quel pezzo dei poteri economici e di forze politiche che stanno aspettando il tempo del cambio della guardia, dell’espulsione dalla maggioranza delle forze della sinistra”radicale” per aprire a un governo istituzionale. E contro Dini la stampa che conta non ha lanciato strali, anzi; contro i quattro ministri, viceversa, sta partendo un fuoco incrociato: i soliti irresponsabili, ideologici, irriducibili.


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