di Daniele Rovai

L’invio del combustibile da Caorso era iniziato a dicembre del 2007, procedendo celermente, per mandar via dall’Italia l’80% della radioattività ereditata dalla stagione atomica degli anni ’70. Dopo Caorso sarebbe toccato alle barre della centrale atomica di Trino ed infine sarebbero partite quelle di Saluggia. Da oggi, con lo sciopero dei dipendenti, tutto è fermo e ogni ritardo può compromettere un accordo che è costato alle famiglie italiane, per pagarsi la loro sicurezza nucleare, ben 277 milioni di euro. «Da dicembre del 2007 ad agosto del 2009 abbiamo fatto partire 52 cask - ci dice il tecnico che ha accettato di incontrarci - per un totale di 884 elementi radioattivi. Abbiamo lavorato su tre turni, abbiamo fatto gli straordinari e lavorato anche la domenica. Siamo i primi a non volere più quelle barre. Possiamo però avere il diritto di sapere che fine faremo?»

Quando a ottobre del 2008, con il disegno legge “Sviluppo”, l’esecutivo ha deciso di commissariare e smembrare l’azienda, hanno chiesto rassicurazioni al governo, azionista unico, sui loro posti di lavoro. Non hanno ottenuto risposta. Anzi il ministero, ci dicono, cestinava le mail senza nemmeno aprirle. E’ in quel periodo che inizia un’agitazione sindacale unitaria a livello nazionale che però, per la Uil e la Cisl, finisce ad agosto del 2009, quando il neo commissario rassicura sui posti di lavoro; l’agitazione continua invece per la Cgil, che insieme a quelle parole pretende anche un atto formale del governo che non arriva. E a Caorso a continuare lo sciopero sono daccordo tutti: anche gli iscritti alla Cisl. Il loro é uno sciopero particolare. La legge non prevede che un impianto nucleare, seppur spento, non sia presidiato da tecnici. Il loro sciopero consiste nel rifiuto degli straordinari.

«Con il blocco degli straordinari il lavoro si ferma. Per completare l’inserimento delle barre nei cask 8 ore non bastano e questo lavoro quando lo inizi lo devi portare a termine. Perciò non lo inizi nemmeno. Lo stesso vale per i trasporti: la prefettura per problemi di sicurezza li autorizza solo la domenica e noi quel giorno di straodinario non lo facciamo. Sfido chiunque a lavorare a contatto con materiale nucleare 10 ore al giorno, notti e domeniche comprese, sapendo che la tua azienda sarà fatta a pezzi e nessuno che ti dica che fine farai.»

Il loro, in effetti, è un lavoro rischioso. Devono prendere delle barre radioattive depositate dentro una piscina piena d’acqua a 12 metri di profondità e metterle dentro dei cask, cilindri d’acciaio alti 4 metri. Tutto il lavoro si svolge sott’acqua, usando un carro ponte con un argano costruito apposta pilotandolo da svariati metri d’altezza. L’acqua è l’unica barriera che li protegge dalle radiazioni. Ma quando il cask sigillato viene tirato fuori dall’acqua e asciugato la loro dose di radizioni, seppur bassa, la prendono ogni giorno.

Sono persone che conoscono l’impianto come le loro tasche. Qualcuno l’ha addirittura visto nascere e sono consapevoli della responsabilità che hanno verso la popolazione. Per questo non accettano di passare per irresponsabili. E quasi si offendono quando gli domandiamo se la SOGIN potrebbe utilizzare personale esterno per fare il lavoro al posto loro. «Certo che potrebbero farlo. Alcuni lavori li hanno già appaltati a ditte esterne. Ma la legge (d.lvo 230 del 15 marzo 1995 - n.d.r.) dice che al momento dell’invio di materiale radioattivo fuori dalla centrale devono essere presenti le squadre di sicurezza. Cioè noi. E siccome i trasporti di materiale radioattivo la prefettura li autorizza solo di domenica non parte nulla.»

Eppure nei primi giorni di dicembre qualcosa si era mosso. «E’ vero. Abbiamo incontrato il commisario Mazzuca in videoconferenza, che poi ha messo nero su bianco quello che ci ha detto: cioè che l’azienda sarebbe rimasta in mani pubbliche e che sarebbe addirittura cresciuta con la ripartenza nucleare. Quando gli abbiamo ribadito che volevamo anche la firma di Scajola ci ha assicurato che non avrebbe firmato il documento se non fosse questa la volontà del ministero. Ma se era questa la soluzione perché non l’hanno detto subito?»

Domanda interessante. Anche perché la legge parla di “smembramento” della società e vendita dei beni ad aziende energetiche controllate al 20% dallo Stato. La lettera del commissario, invece, descrive una Sogin divisa in due, con lo Stato azionista di maggioranza sia della prima (100%) che della seconda (51%). Non è una differenza da poco. «Noi abbiamo voluto credere alle parole del commissario ed il 6 dicembre, per dimostrare che non è nostra intenzione mettere in imbarazzo l’azienda, abbiamo fatto partire i 2 cask già pronti. Ma siamo stati chiari: se il 18 gennaio 2010, quando sarebbero dovute ripartire le operazioni d’invio, non c’era il decreto ministeriale con gli indirizzi operativi del governo, da qui non sarebbe partito più niente.» Quel decreto ancora non c’é. E lo sciopero continua.

Mentre veniamo via da Caorso pensiamo a quell’impianto nucleare e a quei tecnici che sembrano vivere in simbiosi con la loro centrale. Ci hanno raccontato come hanno cambiato lavoro, e casacca, ormai troppe volte. Negli anni ’70 tecnici ENEL del ramo nucleare. Poi, quando il sogno è finito, ecco la casacca di ENEL-SGN e la trasformazione in costose guardie giurate d’impianti diventati improvvisamente vecchi. Infine, smantellatori d’impianti atomici con la casacca SOGIN, cioè l’esternalizzazione da parte di ENEL dei servizi di gestione del “vecchio” nucleare: un onere costoso che non dava alcuna remunerazione e che avrebbe potuto danneggiare un’azienda pronta per il collocamento in borsa. Ci hanno colpito le parole di commiato: «Chi opera nelle vecchie centrali nucleari italiane è un bene prezioso. E’ la memoria storica di quel luogo. Chiuderci non solo non avrebbe senso. Ma sarebbe un grave errore anche per il nucleare futuro».
   

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