- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Michele Paris
Per la terza volta in sei anni, la Federal Reserve americana ha annunciato questa settimana la fine del proprio programma di acquisto di titoli azionari legati ai mutui e di bond del Tesoro, comunemente denominato “quantitative easing” (QE). Il programma è servito in sostanza a iniettare migliaia di miliardi di dollari nel sistema finanziario d’oltreoceano e si è accompagnato al mantenimento dei tassi di interesse attorno allo zero, cosa che la Fed ha assicurato di voler continuare anche nel prossimo futuro.
La decisione senza precedenti di intraprendere la strada del QE era stata adottata dall’ex governatore della Fed, Ben Bernanke, dopo che sul finire del 2008 la crisi finanziaria da poco esplosa aveva gettato i vertici politici e finanziari americani nella disperazione. Senza altri strumenti a disposizione per influenzare il corso degli eventi, una volta azzerati i tassi di interesse, Bernanke aveva avviato il discusso programma di acquisto per sostenere i mercati, garantendo agli istituti finanziari la possibilità di scaricare sulla Fed i propri “asset” senza valore.
La terza e fin qui ultima fase del “quantitative easing” o QE3 era iniziata nel settembre del 2012 con l’acquisto di titoli legati ai mutui per 40 miliardi di dollari ogni singolo mese. Tre mesi più tardi, la Banca Centrale USA avrebbe poi aggiunto altri 45 miliardi mensili per acquistare bond del Tesoro. Il graduale abbandono del QE, o “tapering”, era iniziato nel gennaio di quest’anno, in coincidenza con l’addio alla Fed di Bernanke. Al poso di quest’ultimo, il presidente Obama avrebbe scelto la sua vice, Janet Yellen, la quale ha seguito diligentemente i piani del suo predecessore.
I titoli nel portafoglio della Fed hanno così raggiunto cifre da capogiro, essendo passati da meno di mille miliardi all’inizio del programma ai quasi 4,5 mila miliardi odierni, pari a oltre un quarto del PIL degli Stati Uniti. Vista l’esposizione della Fed, in caso di esplosione di una nuova crisi finanziaria, le prospettive in termini di tenuta del sistema appaiono dunque preoccupanti.
La chiusura del rubinetto erogante denaro stampato dalla Fed per drogare i mercati non ha causato il panico in borsa come qualcuno prevedeva. Ciò è dovuto principalmente al fatto che Janet Yellen e i governatori dei distaccamenti regionali della Fed hanno deciso di mantenere i tassi di interesse vicini allo zero fino a quando il livello di inflazione negli USA tornerà ad avvicinarsi al 2%. In questo modo, banche e investitori continueranno ad avere accesso al denaro a costo zero per proseguire con le proprie operazioni speculative.
Inoltre, la Fed non intende disfarsi a breve dei titoli che ha in portafoglio, ma inizierà a farlo gradualmente sempre in concomitanza con il rialzo del livello di inflazione e dei tassi di interesse, secondo gli analisti non prima della metà del 2015.
Il giorno dopo l’annuncio della Fed, i giornali americani si sono interrogati sull’utilità del “quantitative easing” e sulla corrispondenza alla realtà del paese del contenuto delle dichiarazioni ufficiali diffuse per motivare lo stop al programma di acquisto titoli.Il comunicato formale della Fed è in effetti un concentrato di cinismo e tentativi di dipingere un quadro economico decisamente più roseo di quello reale. In particolare, le dichiarazioni rilasciate mercoledì sottolineano sia il “sostanziale miglioramento delle prospettive per il mercato del lavoro” sia la “forza dell’economia in generale”, tale da favorire “l’avanzamento verso il livello massimo di occupazione in un contesto di stabilità dei prezzi”.
La pretesa che la massiccia infusione di denaro sui mercati finanziari abbia portato a un miglioramento dei livelli occupazionali o delle condizioni economiche della maggior parte della popolazione americana è semplicemente assurda.
L’enorme quantità di denaro stampato dalla Fed - a fronte della continua richiesta di sacrifici a lavoratori e classe media a causa della presunta mancanza di risorse per finanziare la spesa pubblica - ha infatti finito per beneficiare pressoché esclusivamente la speculazione finanziaria, arricchendo gli investitori e senza indurre riflessi significativi sull’economia reale.
Come ha ricordato giovedì il New York Times, il QE della Fed americana ha alimentato una delle strisce più lunghe di aumenti degli indici di borsa nella storia degli Stati Uniti. A partire dal primo round, inaugurato nel novembre 2008, l’indice Standard & Poor’s 500 è salito ad esempio del 131%, mentre dall’avvio del QE3 due anni fa l’impennata è stata di oltre il 42%.
Questa corsa al rialzo ha permesso a quei soggetti in grado di beneficiare dell’andamento positivo delle borse di arricchirsi in maniera spropositata, come conferma il quasi raddoppiamento dal 2009 a oggi dei beni nelle mani dei 400 americani più facoltosi, i quali detengono un totale di 2,9 mila miliardi di dollari.
Complessivamente, la Fed americana e le altre banche centrali nel corso della crisi hanno iniettato nei mercati finanziari una cifra stimata tra i settemila e i diecimila miliardi di dollari, confermando come il “quantitative easing” sia uno dei principali strumenti del trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale messo in atto dalle classe dirigenti dei vari paesi.
La Fed, poi, ha citato la riduzione del numero dei senza lavoro negli Stati Uniti per dimostrare l’efficacia del QE. Se il tasso di disoccupazione è nominalmente sceso dall’8,1% alla vigilia dell’inizio della terza fase del “quantitative easing” nell’agosto del 2012 all’attuale 5,9%, ciò è dovuto in larga misura, come ha dovuto ammettere giovedì anche il Wall Street Journal, all’abbandono del mercato del lavoro da parte di un numero crescente di senza lavoro che non vengono così più conteggiati tra i disoccupati.
Gli impieghi creati, inoltre, risultano oggi in gran parte molto meno pagati e più precari rispetto a quelli svaniti durante la crisi, così come il denaro della Fed, infine, non ha promosso quasi per nulla investimenti produttivi, bensì attività speculative.
Nel consiglio dei governatori della Banca Centrale USA, alla decisione di interrompere il QE3 si è opposto soltanto il numero uno della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota, secondo il quale il programma di acquisto di titoli avrebbe dovuto proseguire fino a quando l’inflazione non fosse aumentata in maniera più sostenuta.La Fed ha comunque fatto sapere di essere pronta a riprendere il QE nel caso la situazione dell’economia dovesse nuovamente volgere al peggio, ritornando così sui propri passi come aveva già fatto dopo l’annuncio della fine dei primi due round del programma.
Se, come già ricordato, lo stop al QE3 non ha provocato scossoni in Borsa, in molti prevedono invece gravi turbolenze nel momento in cui la Fed deciderà di far salire i tassi di interesse, visto che l’eliminazione dell’ultima stampella della Fed costringerà l’economia USA a camminare sulle proprie gambe, probabilmente senza esserne in grado.
Anche se appoggiate dapprima dall’amministrazione Bush e successivamente da quella Obama, le iniziative della Fed sono viste con apprensione da molti all’interno della classe dirigente americana, soprattutto per i timori che esse abbiano contribuito alla formazione di una bolla che potrebbe esplodere in maniera ancora più rovinosa di quella dei sub-prime.
Ciononostante, i vertici politici e finanziari negli Stati Uniti come in Europa e in Asia sono da tempo a corto di ricette alternative per soccorrere un sistema capitalistico in crisi strutturale. Perciò, in concomitanza con l’abbandono del “quantitative easing” da parte della Fed, questo stesso programma di sovvenzionamento della speculazione continua a essere implementato dalla Banca Centrale del Giappone ed è stato da poco inaugurato, sia pure per il momento in una versione ridotta, dalla BCE di Mario Draghi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Carlo Musilli
Altro che nuovi prestiti all'economia reale: la parola chiave è "redditività". A poco più di un mese dalle prime aste con cui la Bce ha messo a disposizione delle banche europee un oceano di liquidità, la stessa Eurotower ha condotto un sondaggio fra 137 istituti dell'area valutaria. E il risultato non è stato incoraggiante: a quanto pare, le banche non intendono utilizzare quel denaro per aumentare il numero dei prestiti a cittadini e imprese, ma al massimo per migliorare le condizioni di erogazione del credito.
Potranno quindi essere allentati parametri come gli interessi sul prestito, il suo ammontare massimo, le commissioni o le garanzie richieste, ma non saranno rivisti i cosiddetti "credit standards", ovvero i criteri in base ai quali un istituto decide se concedere o meno un finanziamento.
“Le banche indicano che la partecipazione alle operazioni Tltro è determinata soprattutto da motivi di redditività – si legge nel comunicato di Francoforte – e prevedono che l’effetto dei fondi Tltro sui crediti sarà trasferito in larga parte in termini di allentamento delle condizioni”.
Il poco leggibile acronimo sta per "Targeted longer-term refinancing operations", nome tecnico dei prestiti quadriennali a bassissimo costo che la Bce ha iniziato a distribuire fra gli istituti di credito il mese scorso. Rispetto alle precedenti Ltro, quella T iniziale ("Targeted") avrebbe dovuto segnare una svolta decisiva, perché sta a significare che questa volta le banche ottengono liquidità solo se accettano di utilizzarla per finanziare l’economia reale (e non più per investire in titoli di Stato speculando sulle differenze dei rendimenti, come accadde nel 2011-2012). Le aste saranno complessivamente otto (due quest'anno e sei fra 2015 e 2016) e la Bce punta a distribuire in tutto mille miliardi.Con queste misure l'Eurotwer intende allentare la stretta creditizia e aumentare la massa monetaria più ancora di quanto non le è riuscita a fare tagliando a ripetizione i tassi d'interesse, così da riaccendere la corsa dei prezzi e allontanare il pericolo della deflazione. Obiettivi lodevoli, peccato che il piano non stia funzionando, visto che ora le banche ammettono candidamente di non voler incrementare il proprio sostegno all'economia reale.
Rendere gli impieghi più convenienti è un risultato positivo, ma largamente insufficiente: se davvero sarà questo l'unico o il principale effetto delle Tltro, purtroppo, la Bce avrà fallito. Non ci sarà alcuno shock in grado di rianimare l'inflazione, nessun colpo di coda capace di mettere in dubbio il futuro di stagnazione che attende l'Eurozona.
D'altra parte, che le banche europee non fossero proprio entusiaste delle Tltro si era capito da subito. All'asta di settembre 255 istituti avevano chiesto alla Bce in tutto 82,6 miliardi di euro, un risultato di gran lunga inferiore alle attese degli analisti, considerando che il valore mediano indicato dagli operatori interpellati dall'agenzia Bloomberg era di circa 170 miliardi.
In realtà l'esito deludente della prima asta non aveva destato particolari preoccupazioni, perché si pensava che gli istituti aspettassero con ansia l'offerta di inizio dicembre. Dopo gli stress test e i chiarimenti arrivati sul piano di acquisti di Abs e covered bond da parte della Bce, insomma, gli istituti dovrebbero scatenarsi. Purtroppo delle 137 banche ascoltate per il recente sondaggio appena il 47% è orientato a partecipare alla prossima asta e il 29% è ancora indeciso. L'unica certezza è che i soldi non prenderanno direzioni diverse dalle solite. Chi finora è riuscito a farsi prestare soldi potrà spuntare qualche agevolazione. Chi invece non ha mai ottenuto un euro farà meglio a rassegnarsi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Carlo Musilli
La mancanza di politiche espansive, alla fine, ha arrugginito anche i binari della locomotiva tedesca. Dopo una serie di dati macro negativi, ieri Berlino ha tagliato le stime di crescita relative al 2014 da +1,8 a +1,2% e quelle sul 2015 da +2 a +1,3%. Non solo: poche ore prima la Germania aveva incassato anche un brutto colpo dall’indice Zew, il termometro che rileva la fiducia degli investitori nel Paese.
I mercati temevano il peggio, e avevano ragione: a ottobre l’indicatore è sceso in territorio negativo per la prima volta dal novembre 2012 (a -3,6 punti, dai 6,9 di settembre), mentre l'indice che misura le condizioni correnti è crollato a 3,2 punti dai 25,4 del mese scorso. Entrambe le rilevazioni sono inferiori alle attese degli analisti, rispettivamente a 1 e 18 punti.
L’indice Zew è ormai in calo costante dall’inizio dell’anno, rispecchiando una dinamica dell’economia assai peggiore del previsto. La recessione è a un passo anche per la Germania e il dato sul Pil del terzo trimestre (dopo il -0,2% del periodo aprile-giugno) potrebbe certificarla. Nel migliore dei casi sarà stagnazione.
La carrellata di dati poco incoraggianti è iniziata da due comparti in cui per tradizione la Germania non teme rivali: industria ed export, che hanno registrato le peggiori performance dal 2009. La settimana scorsa, infatti, erano arrivate notizie pessime sia sul fronte della produzione (ad agosto -4% su mese, contro il -1,5% atteso) sia su quello degli ordini industriali (un -5,7% mensile mitigato dal +4,9% di luglio, ma comunque molto superiore al -2,5% previsto dagli analisti). Quanto alle esportazioni, sempre ad agosto la caduta su mese è stata del 5,8%.
Numeri di questo tipo hanno fatto vacillare perfino un falco come Wolfgang Schaeuble. Nei giorni scorsi, mentre si trovava a Washington per i meeting di Fmi e Banca Mondiale, il ministro delle Finanze tedesco ha ammesso che la politica di bilancio “deve spostarsi verso gli investimenti” per rispondere ai colpi della stagnazione e tornare alla crescita.
Parole che in bocca al re dei falchi, alfiere del rigore e nemico della spesa pubblica, suonano come un’abiura al vangelo della disciplina di bilancio. In realtà così non è. Al contrario, pare che Schaeuble si riferisse solo agli investimenti privati, considerando che a stretto giro ha riattivato il pilota automatico, scagliandosi prima contro un eventuale quantitative easing della Bce, poi contro lo sforamento del deficit da parte della Francia.Peccato che l’andamento dell’economia europea stia dando torto a Schaeuble. Il rispetto pedissequo del Patto di stabilità, finora, non solo ha mancato l’obiettivo di porre le basi per una crescita sana, ma ha anche strangolato sul nascere le potenzialità del rimbalzo al termine del ciclo più nero della crisi. In molti Paesi la ripresa non c’è mai stata e i pochi che ne hanno goduto ora sono tornati a rallentare.
Di fronte a una realtà del genere, in molti chiedono alla Germania di avviare politiche fiscali espansive, soprattutto attraverso maggiori spese in investimenti infrastrutturali, con l’obiettivo di stimolare la domanda interna a beneficio dell’economia tedesca ed europea.
Si tratterebbe di aumentare i consumi e di conseguenza l’import, così da ridurre l’immenso surplus della bilancia commerciale made in Germany, che a luglio ha superato i 23 miliardi e da anni sfora il 6%, valore indicativo che il Six Pack indica come limite da non oltrepassare.
Purtroppo, nulla di tutto ciò è destinato ad accadere nel prossimo futuro. Secondo il ministro dell'economia tedesco Sigmar Gabriel (che è socialdemocratico), “non vi è alcuna ragione per cui il governo della Germania debba modificare la propria linea di politica economica, di bilancio e sociale. Non siamo in recessione, ma sempre su una traiettoria di crescita. Fare debiti in Germania non creerà crescita in Italia, in Francia, in Spagna o in Grecia”.
Ma non farne potrebbe soffocare tutti. E se “la traiettoria” di cui parla il ministro prima o poi cambierà verso, l’Italia sarà la prima vittima collaterale della miopia di Berlino, dal momento che il mercato tedesco è lo sbocco principale delle nostre imprese esportatrici. In termini economici, mal comune non è mai mezzo gaudio.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Carlo Musilli
Tra François Hollande e Angela Merkel, l’altro ieri a Milano per il vertice Ue sul lavoro, ha prevalso l'etichetta istituzionale. Dalla Cancelliera è arrivato perfino un accenno di apertura: "Ci sono Paesi che devono lottare per rispettare il patto di stabilità siamo pronti a discutere modifiche da portare al sistema per l'uso dei fondi europei" ha detto. Il Presidente francese, da parte sua, ha svicolato sui conti pubblici, affermando che il suo Paese "rispetterà gli impegni presi", ma anche che intende avvalersi di "tutti i margini di flessibilità possibili".
Formalità a parte, in queste settimane il filo che lega le due principali economie dell'Eurozona è sottoposto a una tensione mai così alta negli ultimi anni. Il caso è scoppiato a inizio mese, quando il governo francese ha annunciato nella legge di stabilità 2015 che il rapporto deficit-Pil si attesterà quest'anno al 4,4%, per poi calare al 4,3% il prossimo, al 3,8% nel 2016 e infine al 2,8% nel 2017. La riduzione entro il limite del 3% imposto dal Trattato di Maastricht avverrà quindi con due anni di ritardo rispetto alla tabella di marcia pattuita con l'Europa.
Non hanno chiesto il permesso, lo hanno deciso e basta: "Il ritmo di riduzione del deficit è adeguato alla congiuntura - ha scritto il ministro delle Finanze, Michel Satin -. Non saranno richiesti altri sforzi ai francesi: il governo, pur mantenendo la responsabilità sul bilancio necessaria a tenere il Paese sulla giusta rotta, rifiuta l'austerità".
Parole a cui Merkel, in prima battuta, ha replicato con la solita, odiosa metafora scolastica: "Non siamo ancora al punto in cui si possa dire che la crisi è alle nostre spalle. I Paesi devono fare i loro compiti per il loro benessere. Il patto di stabilità e crescita si chiama così perché non può esserci crescita sostenibile senza finanze solide". Prima o poi la Cancelliera spiegherà al mondo in base a quale rivelazione mistica uno scostamento di un punto percentuale nel rapporto deficit-Pil possa marcare il confine tra la solidità e lo sfacelo delle finanze pubbliche.
Intanto, le mosse della Francia danno ai Paesi del Sud Europa l'occasione di cementare finalmente un asse contro l'austerità. Se Parigi, Roma, Madrid e Lisbona chiedessero con una sola voce di modificare i Trattati (e non solo "il sistema per l'uso dei fondi europei"), a Berlino non basterebbe l'appoggio di Finlandia e Olanda per mettere a tacere gli oppositori. Purtroppo è difficile che accada, perché - esclusi i francesi - nessuna delle altre vittime di Maastrich ha la forza politica di contrapporsi ai reggenti di Bruxelles.
Senza nessuno che li sostenga davvero, Hollande e compagni hanno comunque portato le istituzioni comunitarie di fronte a un bivio. Se la Commissione europea aprirà una procedura disciplinare contro la Francia per lo sforamento del deficit, rischierà di spezzare il legame fra Parigi e Berlino, l'architrave su cui Kohl e Mitterand hanno costruito l'Unione. Se invece la punizione non arriverà, la pistola in mano alla Merkel si scaricherà all'improvviso e a quel punto ogni Paese - forse perfino l'Italia - si sentirà in diritto di anteporre l'interesse dei propri cittadini al vangelo del 3%. In questo scenario, è quasi struggente la crisi d'identità che sta vivendo Pierre Moscovici, commissario designato agli Affari economici dell'Ue ed ex ministro delle Finanze di Parigi, dunque corresponsabile dell'aumento del deficit francese. "Cosa farò di fronte al mio Paese d'origine? - ha detto la settimana scorsa -. Regole, nient'altro che regole, sono qui per garantire la nostra funzione di controllori del bilancio e se un paese non soddisfa gli obblighi del trattato e si trova sotto procedura come la Francia, io continuerò con la procedura. Direi una bugia se dicessi che sono qui per cambiare le regole di bilancio, io sono qui per applicarle".
In effetti, più che una bugia sarebbe stato un suicidio politico, visto che parlava di fronte all'Europarlamento, la stessa istituzione che deve confermare la sua nomina in Commissione. Su Moscovici, inoltre, si allunga l'ombra del falco finlandese Jyiri Katainen, sostenitore sfegatato del rigore made in Germany, nonché futuro vicepresidente dell'Esecutivo Ue con potere di veto sulle decisioni dei commissari che si occupano d'economia. Le parole dell'ex ministro, insomma, erano più che condizionate.
Una pressione opposta - tutta interna - è invece quella che spinge alla ribellione il nuovo governo di Parigi guidato dal socialista Manuel Valls, che si è insediato a metà settembre lanciando un preciso grido di battaglia: "La Francia decide da sola cosa fare: rifiutiamo l'austerità per difendere i più poveri, ma ci impegniamo comunque a controllare la spesa pubblica".
La verve antirigorista è una scelta praticamente obbligata per un Esecutivo sempre in bilico, che si ritrova a dover gestire una maggioranza impalpabile e un Senato di destra in cui gli estremisti del Front National hanno conquistato per la prima volta due seggi. Forse, per trovare il coraggio di ribellarsi a Bruxelles, era necessario avvistare il mostro del neofascismo all'orizzonte.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Carlo Musilli
Mario Draghi spara un altro colpo dal bazooka della Bce. Anzi, due. Contro le aspettative di quasi tutti gli analisti, ieri il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha deciso di tagliare ulteriormente i tassi d'interesse: quello di riferimento è sceso dallo 0,15 allo 0,05 (nemmeno a dirlo, nuovo minimo storico), mentre quello sui depositi, che era già negativo, è sceso da -0,1 a -0,2%. Il primo taglio serve ad abbassare il costo del denaro per cercare di rianimare l'inflazione, mentre il secondo punta a distogliere le banche dalla tentazione di parcheggiare la propria liquidità presso l'Eurotower (un tasso negativo vuol dire che non si ricevono interessi, si pagano).
Il secondo intervento vede la Bce coinvolta in modo ancora più attivo. Il board dell'istituto ha dato il via libera a un piano di acquisto di titoli Abs, ovvero cartolarizzazioni di crediti bancari a imprese non finanziarie e obbligazioni garantite. Si tratta di strumenti che la Banca centrale conosce molto bene, perché da anni le vengono consegnati come garanzia per i prestiti. La novità è che stavolta da Francoforte partiranno dei veri e propri ordini d'acquisto, con l'obiettivo di sgravare le banche e allo stesso tempo immettere altra liquidità sul mercato.
Questa misura inciderà in modo significativo sul bilancio della Bce, così come i Tltro, ovvero i prestiti per un importo complessivo massimo di mille miliardi che la Bce inizierà questo mese a distribuire fra gli istituti di credito, cui però stavolta è imposto l'obbligo di usare le risorse incassate per riaprire i rubinetti del credito.
Insomma, siamo finalmente di fronte a misure espansive. Tanto è vero che i mercati europei hanno stappato lo champagne: Borse in rialzo (Piazza Affari addirittura +2,82%), spread in picchiata (il rendimento sui Btp decennali già in circolazione ha toccato un nuovo minimo storico) e euro a picco fin sotto quota 1,3 dollari (il minimo da oltre un anno).
Tutto ciò fa sorgere un quesito: perché mai la Bce ha aspettato tanto a muoversi in questa direzione? Esiste più di una risposta. La più ovvia è che tutti in Europa si sono accorti di aver clamorosamente ciccato le previsioni, sovrastimando la ripresa. Nel secondo trimestre l'Italia è addirittura tornata in recessione tecnica e perfino il Pil della Germania è scivolato in rosso. I consumi e la produzione non ripartono e intorno all'area euro si addensa a poco a poco il fumo della deflazione, un mostro capace d'innescare spirali mortifere (se so che i prezzi scendono rinvio gli acquisti, la domanda cala, quindi i produttori abbassano ancora i prezzi, e così via, finché le fabbriche chiudono e si rischia il collasso).
Il secondo punto da tenere a mente è che la Bce non può essere considerata una Banca centrale a tutti gli effetti. Non lo è. Nel suo statuto c'è scritto che deve salvaguardare la stabilità dei prezzi, ma non che deve tutelare i livelli occupazionali. Zavorrata dall'ideologia suicida del rigore prima di tutto, fin qui è rimasta pressoché immobile mentre gli altri principali istituti centrali del mondo (Federal Reserve, Bank of Japan e Bank of England) inondavano di liquidità il mercato per ridare ossigeno al sistema, senza che questo portasse i tassi d'inflazione a crescere oltre il dovuto. Ora si parla di un Quantitative easing all'europea, ovvero una massiccia operazione di acquisto di bond pubblici e privati da parte della Bce, sulla scorta di quanto già sperimentato con successo dalla Fed. Sarebbe il colpo definitivo del bazooka di Francoforte, la mossa oltre la quale nessun governatore si potrebbe mai spingere, a meno di non trasformare l'Eurotower in una banca centrale uguale alle altre.
Sulla strada del Quantitative easing Draghi dovrà superare ancora una volta l'opposizione del falco Jens Weidmann, governatore della Bundesbank. Ci riuscirà senz'altro, potendo contare su un asse collaudato con Angela Merkel che gli ha già consentito di scavalcare il governatore tedesco in varie occasioni, dal varo delle Omt ai tagli dei tassi. Al contrario dello speculatore Weidmann - che proprio non riesce a spingere il proprio sguardo oltre gli spread - la cancelliera sembra aver finalmente capito che anche la Germania ha bisogno di una Bce con i forzieri aperti per scacciare il fantasma di una crisi da sovrapproduzione.
In primo luogo perché indebolire l'euro favorisce l'export: i tedeschi sono i principali esportatori del continente e come tutti (più di tutti) dovranno fronteggiare l'embargo stabilito dalla Russia in risposta alle sanzioni Ue per la crisi ucraina. Inoltre, è anche possibile che a Berlino abbiano finalmente acquisito un concetto all'apparenza banale: se in Europa i consumi non ripartono, se la domanda muore, alla fine non rimarrà nessuno a comprare i prodotti tedeschi.
L'evidenza degli errori fin qui commessi ha consentito all'Eurozona di fare dei passi avanti, l'ultimo dei quali è quello compiuto ieri da Draghi. Peccato che la crisi economica e sociale in corso non sia ancora bastata a far sì che qualcuno rimetta in discussione i trattati, a cominciare da quello di Maastricht, che pur avendo oltre 20 anni continua a imporci parametri di bilancio manifestamente assurdi per chiunque abbia l'obiettivo di ripartire. Cominciamo ad allentare il cappio, ma lo abbiamo ancora intorno al collo.