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di Antonio Rei
Macché svolta, ma quale cambiamento di rotta? Il mondo intero ha frainteso le parole pronunciate venerdì scorso dal presidente della Bce, Mario Draghi. Ne è convinto Wolfgang Schaeuble, ministro tedesco delle Finanze nonché possessore dell'unico encefalo sul pianeta in grado d'intendere, l'unico abbastanza evoluto da penetrare nei segreti nascosti dietro un discorso che a noi beoti era parso abbastanza chiaro.
Per fortuna, il buon Schaeuble è anche così generoso da condividere con i meno sagaci le sue ineguagliate intuizioni. "Conosco Mario Draghi molto bene - ha detto il ministro al quotidiano Passauer Neuee Presse - e penso che le sue parole siano state interpretate in modo esagerato".
Ma cosa aveva detto, davvero, il numero uno della Banca centrale europea? Nel corso del simposio con i banchieri centrali a Jackson Hole, negli Stati Uniti, Draghi aveva ribadito che "la Bce farà la sua parte, anche usando strumenti non convenzionali", ma anche che i singoli Stati devono approvare riforme che favoriscano soprattutto la creazione di posti di lavoro. Il riferimento agli "strumenti non convenzionali" - peraltro assai frequente nelle ultime conferenze stampa del governatore - è stato decodificato come il possibile preludio all'acquisto di asset da parte della Bce, sul modello di quanto ha già fatto la Federal Reserve con il Quantitative Easing.
Numerosi commentatori hanno poi riscontrato un cambiamento di tono da parte di Draghi, che ha rivendicato "un’azione complementare a livello di Unione Europea" per stimolare la crescita e ha parlato esplicitamente di "un vasto programma di investimenti pubblici", sottolineando che esiste "un margine di manovra per una componente delle politiche di bilancio europee più favorevole alla crescita".
Ma non è finita. Secondo il presidente dell'Eurotower, la crescita costante della disoccupazione è "una tragedia che ha effetti durevoli non solo sulle capacità di generare reddito da parte dei senza lavoro", ma anche su chi ha ancora un impiego, "poiché cresce l'insicurezza e si mina la coesione sociale", sugli Stati, "poiché pesa sui conti pubblici e danneggia le prospettive politiche", e infine sulle prospettive inflazionistiche "a breve e medio termine, influenzando quindi l'azione delle banche centrali". Come si può non intendere queste affermazioni in senso espansivo? Non si può. E' impensabile una strategia per il rilancio dell'occupazione che non aumenti di una virgola la spesa. Lo hanno notato anche i due principali quotidiani finanziari del pianeta: "Draghi ammorbidisce il tono sull’austerity", ha titolato il Financial Times; "Draghi si distanzia dall’austerità", ha fatto eco il Wall Street Journal.
Questa prospettiva ha messo le ali ai mercati azionari nel corso delle sedute di lunedì e martedì. Sul mercato obbligazionario, invece, il rendimento dei Btp italiani decennali ha aggiornato i minimi storici sotto la soglia del 2,4%, arrivando a livelli inferiori a quelli che gli investitori chiedono a Gran Bretagna e Stati Uniti (Paesi le cui economie corrono molto più della nostra).
A Schaeuble però tutto questo non sta affatto bene. Secondo lui, evidentemente, i milioni di disoccupati che affollano l'Eurozona sono un danno collaterale inevitabile e tutto sommato accettabile pur di non interrompere le genuflessioni davanti all'altare del rigore. La Germania non vuole riattivare la produzione nei Paesi dell'Europeriferia, che devono servire esclusivamente come clienti dell'export tedesco - senza fargli troppa concorrenza - e terre di conquista della speculazione finanziaria, continuando a garantire ottimi affari a prezzi di saldo.
"Abbiamo bisogno di riforme strutturali in Germania e in Europa per assicurare la nostra competitività - ha continuato Schaeuble -. Sono inoltre ancora da migliorare le infrastrutture pubbliche e i mercati finanziari, che devono essere resi più efficienti e competitivi". Infine, la ciliegina sulla torta: il ministro tedesco valuta positivamente lo stato di salute dell'Eurozona, sottolineando come "i Paesi che si sono sottoposti a piani di salvataggio abbiano fatto passi avanti enormi". E' evidente che il buon Schaeuble non ha passato le ferie in Grecia.
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di Carlo Musilli
Negli Stati Uniti lo sport preferito dai grandi banchieri è il patteggiamento. Dopo Bank of America, Citigroup, JP Morgan, Citibank, Wells Fargo e altri ancora, l'ennesimo colosso di Wall Street scende a patti con la giustizia di Washington. Si tratta di Goldman Sachs, che la settimana scorsa ha concordato con le autorità americane il pagamento di 1,2 miliardi di dollari. Come sempre, il caso è legato alla truffa del secolo, quella dei mutui subprime, che a partire dal 2007 ha ridotto sul lastrico milioni di americani, per poi trasformarsi nel detonatore della bomba che ha portato al collasso finanziario globale.
Goldman riacquisterà titoli per 3,15 miliardi di dollari da Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi del credito ipotecario Usa nazionalizzati durante la crisi. La differenza fra la cifra sborsata e l'attuale valore di mercato dei bond è appunto di 1,2 miliardi, una sanzione di gran lunga inferiore rispetto a quella recentemente patteggiata da Bank of America (16,5 miliardi di dollari), ma comunque una delle più alte mai pagate da Goldman nella sua storia ultracentenaria.
Per non dimenticare le colpe e la follia all'origine della grande crisi, vale la pena di riepilogare il meccanismo della truffa. In primo luogo, le banche statunitensi spingevano i loro clienti a usare le case come bancomat, accendendo mutui immobiliari in serie. I nuovi prestiti coprivano quelli precedenti ed essendo d'importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito) consentivano agli americani d'intascare la differenza. Il trucco suicida si è forzatamente interrotto non appena il prezzo delle case ha smesso di salire. A quel punto un'infinità di persone si è ritrovata con un mutuo impossibile da ripagare e ha dovuto lasciare la propria abitazione in mano alla banca.
Purtroppo non è finita. Mentre piazzavano i subprime ai piccoli clienti, infatti, gli istituti emettevano titoli derivati garantiti proprio da quei mutui. Questi prodotti finanziari complessi venivano poi smerciati con l'inganno: le banche sapevano di rifilare carta straccia (perché era evidente che i subprime non sarebbero mai stati coperti), ma facevano credere agli investitori che si trattasse di titoli incredibilmente convenienti.L'ultima rotella del meccanismo erano le agenzie di rating, che - in palese conflitto d'interessi, essendo pagate dalle banche stesse - assegnavano a quei titoli la celebre tripla A, ovvero il massimo giudizio d'affidabilità.
A completare il disastro è stata la folle cupidigia degli istituti, che all'inizio rifilavano questi derivati a clienti esterni, poi hanno iniziato a scambiarseli fra loro. Il trading garantiva guadagni così alti che tutti hanno fatto finta di non vedere quanto il meccanismo fosse drogato. Quando il giocattolo dei mutui si è rotto, ovviamente, la bolla speculativa è esplosa.
Intossicate dai subprime, Fanie Mae e Freddie Mac (che non erogano prestiti, ma li comprano e li trasformano in prodotti finanziari, fornendo garanzie in caso di default dei mutui stessi) sono state salvate dai contribuenti americani con 187 miliardi di dollari, ma poi hanno ripagato il loro debito e sono tornate alla redditività.
Nel 2011 la Fhfa (Federal Housing Finance Agency) ha intentato causa contro 18 istituti che avevano venduto alle due agenzie titoli legati ai subprime per un totale di 196 miliardi di dollari. Da allora la giustizia americana non può certo dire di aver prevalso, poiché l'ostruzionismo delle lobby ha fatto in modo che quasi tutte le banche pagassero sanzioni lontanissime dalla ricchezza bruciata per colpa loro. E il club del patteggiamento continua a crescere.
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di Carlo Musilli
Per non soffocare in Brasile, Telecom Italia vuole respirare aria francese. Secondo Valor Economico e la versione online de La Folha de S. Paulo, rispettivamente il principale quotidiano economico e il giornale più venduto del Paese sudamericano, la società italiana sarebbe pronta a cedere il 20% del proprio capitale a Vivendi, gruppo francese di tlc guidato da Vincent Bolloré. In cambio, Telecom vorrebbe mettere le mani su Global Village Telecom (Gvt), azienda brasiliana che fa capo proprio a Vivendi.
Sarebbe questo il passaggio principale del piano messo a punto dalla squadra dell'ad Marco Patuano, che - stando alla ricostruzione del Sole 24 Ore - si dovrebbe articolare in tre tempi. Primo: massiccio (e difficoltoso) aumento di capitale di Tim Brasil, di cui Telecom ha il 67%. Secondo: integrazione di Tim Brasil e Gvt, che si fonderebbero in una nuova società controllata per il 50% da Telecom e per il 50% da Vivendi. Terzo: ingresso dei francesi nel capitale del gruppo italiano con una quota che - se sarà davvero del 20% - farà di Vivendi il nuovo socio di riferimento di Telecom.
Il progetto è stato concepito per rispondere all'affondo arrivato da Telefonica, che a inizio mese ha messo sul piatto una ghiotta offerta da 6,7 miliardi per Gvt. Il pagamento sarebbe effettuato per la gran parte in contanti (circa il 60%), ma anche con la cessione di azioni Vivo, la controllata brasiliana degli spagnoli che il colosso di Madrid vuole integrare con Gvt. Se l'offerta sarà accettata, Vivendi avrà anche l'opportunità di acquistare poco più dell'8% di Telecom Italia, di cui la stessa Telefonica è ancora primo socio (pur avendo ridotto dal 15 all’8,1% la propria presenza diretta nel capitale attraverso un bond convertibile in azioni).
Sempre secondo a La Folha de S. Paulo, l'offerta di Telecom avrebbe un valore complessivo di sette miliardi di euro: sarebbe quindi superiore in termini assoluti a quella degli spagnoli, ma non prevedrebbe alcun pagamento in contanti.
Gli italiani sono però convinti che Vivendi giudicherà più interessante la loro proposta per una serie di ragioni: primo, incontrerebbe il favore dell'autorità antitrust brasiliana, che in passato ha già manifestato la propria ostilità a un eccessivo rafforzamento di Telefonica; secondo, garantirebbe ai francesi un canale di distribuzione per i contenuti video e musicali da loro prodotti rispettivamente con Canal+ e Universal Music; terzo, fra gli azionisti di Telecom c'è Mediobanca, di cui Bolloré è vicepresidente e secondo socio con il 7,01% del capitale. Patuano & Co. dovranno formalizzare l'offerta entro il 28 agosto (previa approvazione dei Cda di Tim Brasil e Telecom), data in cui il Consiglio d'amministrazione di Vivendi si riunirà per esaminare la proposta di Telefonica (che scade il 3 settembre, anche se è assai probabile che gli spagnoli non si arrenderanno senza rilanciare).
Da tutto ciò si potrebbe dedurre che Gvt sia un gioiellino invidiabile, ma non è così. Da sola non ha mai prodotto utili e oggi fa gola per ragioni strategiche, dal momento che - potendo contare su una scintillante rete in fibra ottica - è già posizionata più che bene sia sul mercato della banda larga sia su quello della pay tv. Insieme a Tim Brasil, attiva nel mobile, potrebbe creare un gruppo leader in grado di impensierire seriamente Vivo. Ecco spiegata l'opposizione di Telefonica.
Se alla fine vinceranno gli spagnoli, si ridurranno drasticamente le prospettive di Tim Brasil, troppo piccola per sostenere la concorrenza di Telefonica-Gvt. Se invece saranno gli italiani a prevalere, l'alleanza Telecom-Vivendi potrebbe essere importata anche in Europa. L'ago della bilancia è in mano a Bolloré.
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di Carlo Musilli
Dimenticate i derivati, i Cds e i mutui subprime. Quella è roba da dilettanti, troppo facile. Riuscite a immaginare quanto sia più complicato mettere in piedi una truffa milionaria commerciando in frullati e tisane? Qualcuno, a quanto pare, ci riesce. Stavolta nell’occhio del ciclone finanziario è finita Herbalife, società americana quotata a Wall Street, nota al mondo per gli integratori e le bevande dimagranti.
A onor del vero, non sono state emesse sentenze, quindi vale il principio della presunzione d’innocenza. Ma la vicenda è troppo originale per non suscitare attenzione. Tutto nasce da Pershing Square, un hedge fund che ha speso 50 milioni di dollari per pagare un’indagine investigativa privata con l’obiettivo di smascherare la (presunta) maxi-frode di Herbalife.
“Datemi retta… Quando vedrete quel che abbiamo raccolto vi renderete conto che sono stati soldi ben spesi”, ha assicurato il miliardario Bill Ackman, numero uno del fondo. La sua tesi è che il regno delle tisane sia costruito su uno schema di vendite piramidale proibito dalla legge.
In termini generali, questo tipo di marketing - vietato anche in Italia dal 2005 - promette facili guadagni con bassi investimenti, senza richiedere alcuna qualifica o capacità particolare. In sostanza, le persone vengono indotte a pagare una somma generalmente irrisoria per entrare nella piramide commerciale: i soldi sono destinati a chi occupa i livelli superiori della gerarchia, mentre i neofiti sperano di rientrare dell’investimento (per poi iniziare a guadagnare) portando a loro volta nuovi adepti su cui incassare una percentuale. Chi è al vertice della piramide guadagna più degli altri e molto spesso si dilegua dopo aver messo da parete un discreto gruzzolo.
Secondo Ackman, questo sarebbe più o meno il meccanismo creato da Herbalife, che conta su due milioni di distributori indipendenti, chiamati a reclutarne sempre di nuovi. In particolare - stando all'indagine - molte persone acquisterebbero i prodotti dell'azienda solo per essere poi abilitate ad aprire uno dei cosiddetti "nutrition club", nella (falsa) speranza di trarne profitto.
L'inchiesta, che prende in considerazione un campione di club aperti a New York, sostiene che queste attività subiscano delle perdite annue medie di 12mila dollari. La società stessa ammette che nel 2013 appena 7.300 persone sulle 409mila che compongono la rete di vendita sono riuscite a guadagnare più di 5mila dollari. Secondo Herbalife, però, la sproporzione si spiega col fatto che la grande maggioranza di loro punta solo a ottenere sconti sui prodotti, non a guadagnare.
Ackman non ci crede e ormai dà battaglia dal dicembre del 2012, anche se solo di recente - all'apice dell'enfasi - è arrivato a scommettere un miliardo di dollari contro i titoli in Borsa dei suoi suoi nemici giurati, accusandoli di aver ingannato i distributori, fornito dati falsi sulle vendite e gonfiato in modo smisurato il prezzo di prodotti di bassa qualità. Ora il materiale raccolto dall’hedge fund sarà messo a disposizione della polizia, ma alla fine dovranno pronunciarsi la Federal Trade Commission degli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia, l'Fbi e almeno un paio di procuratori generali: tutte autorità che, a quanto si apprende, starebbero indagando su Herbalife.
Intanto, la società sotto accusa si difende, minaccia azioni legali e incassa una generosa ricompensa dai mercati azionari. Dopo le prime dichiarazioni di Ackman, la quotazione dell’azienda è crollata dell’11% a Wall Street, arrivando a perdere il 31% nel conto da inizio anno; subito dopo, tuttavia, le azioni hanno registrato un rimbalzo spettacolare, mettendo a segno il miglior rialzo di sempre in una sola seduta (+26%). E’ evidente che il mercato non ha creduto alla storia della frode. Ma questo - come insegnano i derivati, i Cds e i mutui subprime - significa davvero poco.
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di Carlo Musilli
Jyrki Katainen non parla a nome dell'Europa, ma non è nemmeno uno sparuto e isolato commentatore. Da poco nominato commissario agli Affari economici e monetari dell'Ue, carica che ricoprirà pro tempore (ma con il rischio d'impiantarsi stabilmente da novembre), il simpatico falco della Finlandia ha iniziato il suo mandato sparando contro il nostro Paese: "La cosa più importante per l'Italia, che da anni si avvicina sempre di più all'abisso, è attuare le riforme promesse dagli ultimi governi", ha detto in un'intervista pubblicata ieri sul sito del quotidiano tedesco Die Welt.
Secondo Katainen, "il dibattito in corso è sbagliato", parlare di flessibilità è "pericoloso" e bisogna "evitare qualsiasi ipotesi sulla possibilità di trovare un modo di eludere" il Patto di stabilità. I due precedenti governi italiani "hanno varato importanti riforme - ha aggiunto il neocommissario - e l'attuale esecutivo ha obiettivi ambiziosi, ma sarebbe di aiuto se realizzasse ciò su cui ha trovato un accordo". Come a dire: lavorate per rispettare il Fiscal compact e smettetela di farci perdere tempo parlando di flessibilità delle regole.
Il governo italiano ha replicato per bocca di Sandro Gozi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'Ue: "Con tutto il rispetto per Katainen - ha detto -, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in Europa non lo dice il commissario pro tempore finlandese, ma il Consiglio dell'Unione, che ha parlato chiaro su crescita e flessibilità: di solo rigore l'Europa non campa".
Fonti di Palazzo Chigi hanno poi aggiunto che "l'Italia ha il massimo rispetto della Commissione, rispetta e rispetterà tutti gli accordi. Ma la linea della sola austerità non porta da nessuna parte. E non è la linea del consiglio europeo che ha licenziato un documento programmatico che parla di rigore e crescita e flessibilità insieme. Portiamo in Europa milioni di voti e miliardi di euro. Non siamo scolaretti indisciplinati, ciò che fa l'Italia - le riforme su cui siamo impegnati dal primo giorno - lo decide il popolo italiano, non certo il temporaneo commissario finlandese".
In effetti, il problema non è Katainen in sé - che un finlandese sputi sentenze ottusamente rigoriste non è una sorpresa per nessuno - ma lo stesso Consiglio europeo. Nel corso della loro riunione di fine giugno, è vero che i capi di Stato e di Governo hanno parlato di crescita e flessibilità - come ricorda Gozi - ma purtroppo lo hanno fatto in termini che piacciono più a Katainen che a noi. Nelle conclusioni del vertice si ribadisce l'impegno a rispettare il Fiscal Compact e di flessibilità si parla solo in termini assai vaghi, precisando però in modo chiarissimo che ogni deroga agli accordi sottoscritti è esclusa. I margini di manovra in questione sono quelli già contenuti nel Patto di Stabilità, dunque, per quanto positivi, non potranno mai rappresentare una vera svolta nella politica economica europea. In particolare, l’ipotesi principale sul tavolo prevede di scorporare dal computo del deficit gli investimenti a sostegno dei progetti in regime di cofinanziamento con l’Unione europea. Una misura che andrebbe a vantaggio di tutti i Paesi (incluse Germania e Finlandia), non soltanto di quelli più in difficoltà, e che ancora non si capisce in che modo possa essere legata all'attuazione delle riforme strutturali.
Il quadro non è migliorato con l'Ecofin dello scorso 7 luglio, durante il quale i ministri delle Finanze dell'Unione non sono addivenuti ad alcuna definizione comune del concetto di flessibilità (su cui si tornerà a discutere soltanto dopo l'estate). Hanno invece ratificato le raccomandazioni sull'Italia elaborate a maggio dalla Commissione e poi irrigidite nel percorso verso l'approvazione definitiva. Nel testo, di fatto, si chiede una manovra correttiva - che il governo Renzi rifiuta categoricamente - rispedendo al mittente la richiesta di spostare al 2016 il termine per il pareggio di bilancio e avvicinando la possibilità di una procedura per debito eccessivo che da metà dell'anno prossimo rischia di azzerare la capacità di azione dell'Esecutivo di Roma.
Non è detto che questa prospettiva si realizzi, perché prima di aprire una procedura si potrebbe tener conto anche delle riforme e della crescita (su cui venerdì Bankitalia ha rivisto le stime, abbassando a +0,2% l'incremento del Pil previsto per quest'anno e alzando a +1,3% quello per il 2015). Ma anche se riuscissimo a scongiurare questa prospettiva, dal 2016 il Fiscal Compact ci imporrebbe comunque di ridurre di un ventesimo l'anno la quota di debito pubblico eccedente il 60% del Pil (oggi è oltre il 130%). Flessibilità per noi vorrà dire anche cercare di diluire nel tempo questo impegno quasi impossibile da sostenere. Nella speranza che, con il tempo, Katainen non diventi Cassandra.