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di Sara Seganti
Una settimana intensa per i biocarburanti è appena trascorsa. Il bioetanolo e il biodiesel, due tra i biocarburanti più diffusi, rappresentano un’alternativa a benzina e gasolio e sono prodotti a partire da materie prime alimentari. I biocarburanti hanno origine da fonti rinnovabili e rientrano, perciò, nella direttiva comunitaria 2009/28 che fissa, come obiettivo generale, per l'Unione Europea una quota del 20% di energia rinnovabile rispetto al consumo totale di energia, da conseguire entro il 2020.
In seguito all’emanazione di questi obiettivi vincolanti, l’Unione ha specificato che, per quanto riguarda i biocarburanti, essi devono garantire la sostenibilità, intesa principalmente come tutela della biodiversità, e la riduzione dei gas serra rispetto all’utilizzo delle energie fossili. Tradotto: non si possono produrre biocarburanti con la deforestazione e poi pretendere di usufruire degli incentivi europei per le rinnovabili.
E questo è già qualcosa, ma a livello internazionale si sta prendendo coscienza che i problemi causati dai biocarburanti non si esauriscono affatto nella questione ambientale tout court.
Infatti i vincoli posti dall’Unione, fin qui, non sono bastati a indirizzare la produzione di biocarburanti in una direzione compatibile con gli equilibri alimentari dei paesi in cui vengono prodotti. L’aumento esponenziale della produzione, conseguenza degli incentivi europei e della crescita del prezzo del petrolio, richiede sempre più terra da convertire dalla produzione di derrate alimentari destinate al mercato interno, alla produzione di biocarburanti per il mercato esterno.
Nei paesi in via di sviluppo, dove la terra si svende ancora con facilità, i prezzi degli alimenti stanno salendo a dismisura: e così, anche per via dei biocarburanti, si apre la strada alla possibilità di una vera e propria crisi alimentare. Se il cibo si trasforma in benzina, come correre ai ripari?
Lo scorso 24 maggio è uscito il protocollo sui biocarburanti del GBEP (Global Bioenergy Partnership), cui aderiscono 23 paesi tra emergenti e industrializzati e 13 istituzioni internazionali con lo scopo di coordinarsi, su base volontaria, riguardo alle linee di indirizzo sulle bioenergie.
Il GBEP punta il dito sulla necessità di garantire un livello di sostenibilità nella produzione dei biocarburanti, attraverso l’individuazione di 24 criteri da rispettare, tra cui figurano, sì, il contenimento dei livelli di emissioni di gas e la tutela della diversità biologica, ma anche, il calmieramento dei prezzi e la reperibilità dei generi alimentari nei paesi in via di sviluppo.
Il 31 maggio è stata la volta del Guardian, autorevole quotidiano d’oltre Manica, che ha pubblicato uno speciale sulla speculazione in atto nella corsa alla terra africana per la produzione di biocarburanti, all’origine di forti squilibri alimentari locali.
Quasi la metà dei 3.2 milioni di ettari di terra coltivata per i biocarburanti, nei paesi che vanno dal Mozambico al Senegal, può essere ricollegata a 11 aziende inglesi indifferenti alla questione alimentare, complici governi locali conniventi e lauti guadagni. E sono ben 7 le aziende italiane nelle prime file del business dei biocarburanti in Africa.
A completare il quadro è arrivato, lo scorso 1° giugno, il rapporto Oxfam (un coordinamento di diverse Ong), dal titolo evocativo “Growing a Better Future” (Coltivare un futuro migliore) sull’imminente crisi alimentare dove i biocarburanti figurano come una delle principali cause.
Se si smettesse di ridurre la produzione alimentare, dati alla mano, sarebbe possibile sfamare una popolazione mondiale che dovrebbe raggiungere una cifra stimata, nel 2020, vicina ai 10 miliardi di esseri umani. Ma per questa data il prezzo di un alimento base come il mais, già al suo massimo storico, sarà più che raddoppiato. Sono sempre di più le persone che spendono fino all’80% di quel che guadagnano unicamente per nutrirsi: secondo le recenti stime della Banca Mondiale, solo per i rincari alimentari degli ultimi mesi, dallo scorso giugno a oggi, sono entrati sotto la soglia di povertà già 44 milioni di persone. I biocarburanti sono allora davvero energie rinnovabili?
Sono in molti oggi a sostenere di no. Circa il 40% del grano prodotto negli Stati Uniti finisce nei biocarburanti e, ad oggi, il 18% dei biocarburanti usati nel Regno Unito sono prodotti a partire da grano e frumento, cereali che rappresentano l’alimentazione di base del mondo in via di sviluppo.
Dato che gli obiettivi Ue prevedono di raddoppiare l’utilizzo di biocarburanti nei prossimi dieci anni, queste percentuali sono destinate a salire mettendo seriamente a rischio la sostenibilità alimentare nei paesi in via di sviluppo.
E non bisogna neanche dimenticare che l’effetto serra, generato dai sistemi di produzione estensivi dei biocarburanti, potrebbe seriamente ridimensionare i risultati positivi ottenuti sulle emissioni di carbonio.
Sarebbe utile, innanzitutto, che l’Ue si assumesse le sue responsabilità stilando delle linee guida più rigide per fare rientrare i biocarburanti nel conteggio delle rinnovabili.
Si è giunti al paradosso che con lo scopo di tutelare l’ambiente, proprio nel nome dello sviluppo sostenibile, si aggravano le già difficili condizioni di vita del mondo in via di sviluppo. Questa sembra essere la riprova che gli incentivi sono strumenti da utilizzare con cautela perché, nel nostro mondo globalizzato, influenzare gli equilibri economici in modo artificiale può trasformare facilmente una buona idea in un pessimo risultato.
E, giacché le alghe sono la next big thing tra le fonti per produrre biocarburanti di seconda generazione, speriamo di riuscire a organizzarci per tempo e salvare almeno quelle, prima che chi si nutre di alghe non abbia più niente da mangiare.
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di Sara Seganti
Lo sanno tutti e non si parla d’altro. Dominique Strauss-Kahn, presidente dimissionario del Fondo Monetario Internazionale, socialista francese, è in attesa di giudizio negli Stati Uniti, in seguito all’arresto con l’accusa di violenza sessuale ai danni di una donna impiegata come cameriera in un grande albergo. Lo sciacallaggio mediatico sulla vicenda è della peggior specie: ipocrisie e svelamenti si susseguono da giorni sui media di tutto il mondo. Confidenti e scavafango, riflettori accesi, manette, dirette e editoriali, il copione si ripete e le acque si confondono.
Colpevole o innocente che sia, Strauss-Kahn finisce qui la sua carriera politica, e non sarà il candidato dei socialisti francesi per il dopo Sarkozy. Del resto, fuori dall’Italia, accuse simili non sono compatibili con un ruolo pubblico di primo piano.Sul piano processuale, spetterà alla giustizia americana stabilire se ci sia stata violenza o no, ma politicamente la sentenza è stata già scritta scandagliando nei dettagli l’acclarata disinvoltura sessuale di Strauss-Kahn. Tralasciando i destini dell’uomo, è possibile che uno scandalo sessuale metta in discussione l’orientamento del Fondo Monetario Internazionale e gli equilibri di potere all’interno di uno dei baluardi del neoliberismo nord-americano? Che ricadute possono avere le gesta erotiche di DSK sulla gestione economica del mondo globale?
Il Fondo, in teoria istituzione sovranazionale, è in pratica da sempre uno strumento della gestione autoritaria del mondo da parte degli Stati Uniti: nel corso degli anni ha, infatti, spesso usato la gestione del debito come forma di ricatto politico verso i paesi in via di sviluppo. Sotto la direzione di Strauss-Kahn ha dato qualche segnale di redenzione, ma solo qualche. Strauss-Kahn, infatti, in seguito alla crisi del 2008, ha giocato un ruolo di primissimo piano nel superamento dell’estremismo neo-liberista, mediando tra Stati-Uniti, Ue e paesi emergenti per imporre a livello internazionale una minima forma di regolamentazione dei mercati finanziari e un maggiore impegno degli stati nell’economia.
Strauss-Kahn è anche uno dei più autorevoli sostenitori dell’euro in un momento particolarmente difficile per l’idea politica europea, nonché uno dei principali gestori dei pacchetti di salvataggio dei paesi dell’euro in difficoltà. Grecia, Irlanda e Portogallo devono ringraziare anche il suo intervento se, tutto sommato, la gestione del loro debito finora è rimasta sopportabile.
Uomo politico autorevole, Strauss-Kahn è un esponente socialista, e questo ha la sua importanza, perché il debito dei paesi europei insolventi è già da un pezzo diventato un problema politico. Se, ad esempio, si seguisse l’idea di Angela Merkel di ristrutturare il debito greco, in pratica dichiarando il paese in bancarotta, quali sarebbero poi i rischi per l’ordine sociale, e per la stessa giovane democrazia ellenica? Queste non sono questioni che si affrontano solo a suon di punti percentuali. E per un’Europa di fronte al bivio più importante della sua storia comunitaria, Strauss-Kahn era un interlocutore politico importante.
Il Fondo Monetario Internazionale è oggi teatro di una lotta di potere, segno dei tempi cambiati: l’indebolimento economico europeo e nord-americano ha favorito le ambizioni dei paesi detti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa). Con la fine indecorosa di Strauss-Khan, i BRICS hanno pensato fosse finalmente arrivato il momento di assumere la Presidenza del Fondo Monetario, storicamente appannaggio dell’Europa. I BRICS rappresentano, infatti, più del 40% della popolazione mondiale e del 16% del Pil globale, e sono in aperto disaccordo sulla gestione della crisi europea da parte del FMI.
Del resto, avendo subito trattamenti molto più duri in passato dallo stesso organismo internazionale, e fanno fatica ad accettare l’imponenza degli strumenti messi in campo per soccorrere questo o quel paese europeo. In questo contesto, per la prima volta, i BRICS richiedono a gran voce di vedere riconosciuto il loro peso in seno al Fondo Monetario, presentando candidati più che autorevoli turchi, indiani, messicani e altri. Queste pressioni arrivano in un momento particolarmente delicato: siamo infatti di fronte al primo cambio di vertice in un’istituzione finanziaria internazionale da quando la Cina detiene buona parte del debito pubblico americano.
Ma quello che era sembrato possibile fino a qualche giorno fa, dalla lettura dei giornali internazionali sembra un’ipotesi già superata. Il riequilibrio - parziale - sarà riscontrabile solo ai piani medio alti. I BRICS aumenteranno la loro influenza nelle sedi internazionali, avranno diritto a un numero maggiore di vice-direttori, ma il presidente del Fondo Monetario Internazionale, per questa volta, sembra proprio che resterà europeo.
La selezione, contrariamente al passato, sarà per titoli di merito e non solamente per influenze politiche, ci tengono a ribadire dal FMI, ma la posta in gioco è troppo alta perché l’Europa possa rinunciare alla presidenza. La questione greca deve ancora trovare una soluzione convincente e, con essa, anche quella di Portogallo e Irlanda.
Nonostante tutto, quindi, l’Ue sembra avere ad oggi l’influenza necessaria per imporre il suo candidato, Christine Lagarde, attuale ministro dell’Economia francese, stimata economista e, soprattutto, donna. Lo scandalo sessuale di Strauss-Kahn ha contribuito a rendere evidente il processo inarrestabile di riequilibrio nelle istituzioni internazionali che i paesi emergenti richiedono a gran voce. Ma la strada, come si evince dalla scelta della Lagarde, è ancora lunga..
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di Alessandro Iacuelli
E' un colpo praticamente senza precedenti: Microsoft ha comprato Skype. Senza precedenti perchè si tratta della più grande e più costosa operazione nella storia del colosso di Redmond: tra prezzo pagato e risanamento dei debiti della compagnia, il totale è di circa 8 miliardi e mezzo di dollari. Una cifra giudicata decisamente alta da moltissimi analisti economici e finanziari: è stata definita una scelta "antistrategica", ma in realtà l'azienda di Steve Ballmer ha compiuto un passo che un senso ce l'ha.
Da sempre Microsoft ha una posizione dominante sul mercato dei sistemi operativi per PC, un po' meno su quello dei server, ma soprattutto è storicamente stata debole su Internet. Dopo i fallimenti delle "reti alternative", come MSN, dopo che Bing, il suo motore di ricerca, non è andato oltre una piccola nicchia rispetto a colossi come Google, dopo che il suo web server IIS non è riuscito a contrastare Apache 2, a Redmond sperano ora che l'acquisizione di Skype dia una spinta decisiva alle operazioni di Microsoft su Internet.
Altro motivo importante è la buona integrazione già esistente di Skype con il settore mobile, nel quale Microsoft sta investendo pesantemente con lo sviluppo di un nuovo sistema operativo tutto dedicato agli smartphone, nel quale deve collocarsi il recente accordo con Nokia. Sono settori, questi, nei quali Microsoft per ora sta solo investendo senza grandi rientri: infatti, al momento la gran parte dei profitti deriva dai suoi prodotti software, Windows e Office in testa. Con Linux e OpenOffice di Sun che avanzano.
Con l’acquisto di Skype, Microsoft ha bruciato la concorrenza di Google e di Facebook: sia il motore di ricerca che il social network, infatti, si erano mossi nelle ultime settimane per mettere le mani sul servizio di telefonia online.
In pratica, con questa mossa costosa, Microsoft svela la sua strategia futura per non perdere mercato: Tv, pc, smartphone, giochi, per connettere gli utenti in tempo reale in tutto il mondo, come piano globale. A tale proposito, Steve Ballmer ha dichiarato che la tecnologia di Skype verrà utilizzata su tutti fronti: "Supporteremo Xbox, Kinect, Windows Phone e altri dispositivi Windows, daremo più possibilità ai nostri utenti", puntando a intergrare Skype in Live Messenger e connettere "gli utenti di Outlook, Msn, Hotmail, Lync, Xbox Live e altre community".
Continua Ballmer: "Le comunicazioni sono l'area fondamentale in cui la tecnologia può davvero cambiare la vita delle persone. Skype acquisisce 600 mila nuovi utenti ogni giorno e ha circa 25 milioni di utenti collegati in ogni momento". Per Ballmer, i numeri interessanti sono anche nella crescita economica: "Skype cresce del 20% ogni anno - dice l'AD - e stiamo pensando a strategie pubblicitarie per sfruttare al meglio la convergenza delle piattaforme".
Tony Bates di Skype aggiunge altri numeri: "Abbiamo circa 170 milioni di utenti al mese e ognuno di questi comunica in media per 100 minuti. Stimiamo una crescita del 45% per le inserzioni pubblicitarie". Ma Ballmer delinea chiaramente la strategia dietro l'acquisto di Skype: "Siamo interessati al mercato dei computer, delle piattaforme mobili e alle connected tv".
Lasciando da parte il tema delle connected tv, che merita un discorso a parte e da approfondire in modo diverso, con l'acquisizione di Skype ora Microsoft può integrare tecnologicamente computer e piattaforme mobili. Ma perchè Skype andava venduta, visto che i "numeri" degli utenti connessi sono tanto interessanti?
Skype, prima di essere acquisita da Microsoft, sperava di ottenere dalla quotazione in Borsa circa 7 miliardi di dollari; l'acquisizione è arrivata a 8,5. Pertanto chi l'ha venduta ha intascato un miliardo e mezzo di dollari in più. Secondo Bloomberg Microsoft ha pagato il 40% in più per avere Skype, come mossa difensiva per evitare che l'acquistassero Facebook o Google.
Da un punto di vista finanziario, prima ancora che tecnologico, gli analisti cercano di capire se Steve Ballmer abbia fatto un buon accordo, il che dipende da quanto Microsoft saprà implementare la "convergenza tecnologica" di cui parla. Senza dubbio ci sono vantaggi per Microsoft, se saprà integrare in fretta la tecnologia di Skype per dimostrarne il valore. Per molti Skype è più di un Voip, ma rappresenta un social network, è un modo per rimanere in contatto e ciò potrebbe risultare utile per Microsoft.
Alcune società di Wall Street vedono ad esempio l'effetto traino Skype nelle piccole e medie imprese, dove è molto diffuso: le piccole aziende usano Skype per le chiamate low cost, e Microsoft, dopo aver promesso che Skype rimarrà multipiattaforma (per Windows, Mac e Linux), dovrebbe mantenere anche l’approccio nella telefonia Internet a basso costo.
Analizzando la situazione, si possono fare alcune valutazioni riguardo a questa operazione. Indubbiamente le prospettive di guadagno di Microsoft sono di non poco conto: prima di tutto si dota di un importante tecnologia in fatto di comunicazioni voce e video.
Inoltre, secondo alcuni analisti, l'acquisto di Skype è da mettere in relazione con la partnership tra Microsoft e Nokia per la produzione di smartphone e lo sviluppo di Windows Phone 7: l'azienda di Redmond, infatti, ha assolutamente bisogno di un software che sia in grado di competere con le applicazioni mobile di Android (Google Voice) e di iOS (FaceTime).
Ma il vincitore reale di questa vicenda potrebbe essere Facebook, sostiene l'analisi di Gigaom: il social network conseguirebbe così il doppio intento di poter sviluppare una partnership con Skype (Microsoft è un investitore di Facebook) - di cui ha bisogno - e, nel contempo, di tener lontano dal gigante del VoiP il rivale Google; che, nonostante l'interesse all'acquisto, probabilmente non avrebbe avuto realmente bisogno di acquisire la tecnologia di Skype.
Intanto, Wall Street ha avviato la seduta in rialzo, spinta proprio da questa operazione di acquisto. Pochi minuti dopo l'inizio, il Dow Jones aveva già guadagnato lo 0,17%, il Nasdaq era cresciuto dello 0,36%.
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di Sara Seganti
Il nuovo mensile di Emergency si è affacciato in edicola questo mese di maggio con la foto in copertina di una fabbrica di jeans in Cina, in grado di esprimere al meglio le condizioni di degrado in cui lavorano i giovani cinesi nelle Zes. Le Zes (Zone Economiche Speciali) sono città-fabbriche dove la Cina ha permesso ai capitali stranieri di entrare senza controlli, e sono state il motore iniziale della vertiginosa crescita economica di Pechino.
L’articolo di Simone Pieranni riporta dati interessanti: le fabbriche nelle Zes sfruttano i giovani cinesi migranti oggi come ieri, ma qualcosa sta cambiano. Frustrati dalle aspettative disattese, dai salari ancora troppo bassi, dall’assenza di sicurezza e di diritti sul lavoro, i trentenni cinesi stanno dando vita a scioperi e contestazioni per rivendicare benessere ancor prima che diritti. Una novità talmente enorme che, sfidando la censura, se n’è cominciato a parlare perfino nella televisione di Stato cinese e su internet. Nel 2009, ultimo dato disponibile, in Cina sono stati registrati circa 90.000 scioperi e contestazioni organizzati dai lavoratori. Le condizioni di vita e di lavoro nelle Zes sono ancora disumane, soprattutto per le donne, ma è innegabile che, senza cadere in facili entusiasmi, dei segnali di cambiamento, si comincino a vedere.
Li aveva raccontati già Loretta Napoleoni, economista formata in Inghilterra di origini italiane, in Maonomics: aspettate a giudicare la Cina in modo sommario, scriveva, perché nei prossimi anni potreste avere delle sorprese. Certo, sono tutte fondate le critiche da parte dei sostenitori della democrazia a un Paese che democratico non è, che non rispetta i diritti umani, che non ammette la formazione di sindacati autonomi e che non tutela l’ambiente né la salute dei suoi lavoratori. Ma, scrive Loretta Napleoni, queste critiche andrebbero approfondite alla luce dello stato critico in cui versano le nostre democrazie. In altre parole: perché non pensiamo a noi prima di criticare loro?
Già, perché ripercorrendo l’evoluzione cinese dal 1989 ad oggi si scopre che questo inedito mix cinese di comunismo e capitalismo forse ha qualcosa da insegnarci. In occidente, dal crollo del muro di Berlino, da quando cioè l’equazione benessere - democrazia ha prevalso su tutti i modelli alternativi, Marx sembra essere stato depennato di colpo dalla lista dei grandi padri dell’economia. Ora, fiumi d’inchiostro si sono già riversati sulla carta per dimostrare come l’Unione Sovietica non rappresentasse un’applicazione della teorica marxista, ma nonostante questo dopo il 1989 è venuto meno quel dibattito che vedeva contrapporsi nelle migliori università visioni liberiste e visioni marxiste dell’economia: il modello neoliberista ha trionfato perché quello socialista aveva fallito.
Mentre qui da noi il dibattito languiva e si avvicinava la peggior crisi di sistema del dopoguerra, la Cina recuperava la sua posizione centrale nello scacchiere geopolitico ed economico a colpi di controllo centrale e piani quinquennali. Oggi le nostre democrazie versano in cattive acque e il neo-liberismo sta facendo vedere tutti i suoi limiti. Al di là dei distinguo tra l’Europa e i suoi modelli di welfare e gli Stati Uniti, le democrazie occidentali sembrano tutte immerse nella stessa crisi di senso: democrazia esportata con i missili, connivenze con la criminalità organizzata, lobby finanziarie che la fanno da padrone, diritti del lavoro in fase di ridimensionamento e consumismo estremizzato che procura stress più che alleviarlo. Decisamente segnali di un malessere, o forse di qualcosa di peggio.
Loretta Napoleoni ci spiega come, negli stessi anni, la Cina abbia gestito la globalizzazione molto meglio di noi, e questo perché è un Paese dove lo Stato ancora oggi guida le metamorfosi economiche nell’interesse della popolazione. Cioè perché la Cina è ancora, in parte, un Paese comunista, e questo può non essere una contraddizione in termini.
Se, da un lato, il Partito Comunista Cinese ha smantellato gran parte dell’industria di Stato e delle comuni agricole, aprendo le Zes ai capitali stranieri ha innescato un processo di formazione di una classe media, e ha provocato l’uscita dalla soglia di povertà di milioni di persone. Questo senza rinunciare a un orientamento pianificato pensato per guidare lo sviluppo, rispettandone i tempi come invece non è avvenuto nell’ex-Unione Sovietica, dove l’apertura improvvisa al capitalismo gestito da un potere oligarichico ha fatto dei danni di cui si fatica a vedere la fine.
E’ possibile definire neo-marxista il modello cinese se si esce dall’interpretazione che ha identificato Marx con la dittatura del proletariato che, per Loretta Napoleoni, era solo un abbozzo finale, molto meno significativo della dottrina economica marxista nel suo complesso, identificabile con una critica puntuale e mai superata del sistema produttivo capitalista che può essere studiata all’interno di una dialettica non antitetica al capitalismo, ma anzi può diventarne una critica costruttiva.
Secondo questa interpretazione, per Marx la molla del profitto è il fulcro dell’intero sistema capitalista, e non può essere semplicemente rimosso dall’equazione economica. Questo è stato un errore dell’Unione Sovietica a cui la Cina ha posto rimedio. Allora il neo-marxismo cinese funziona? Aver evitato la crisi economica, essere avviati a diventare la prima potenza mondiale, sono indicatori di una strada corretta?
Ovviamente no, almeno non finché questo non andrà di pari passo con la conquista dei diritti. Secondo molti l’unione delle due cose è impossibile, non secondo la Napoleoni, e, a quanto sembra, nemmeno secondo il Partito Comunista Cinese, che a marzo ha pubblicato il suo dodicesimo piano quinquennale.
Cosa si propone? L’azzeramento delle diseguaglianze tra città e campagna, l’aumento dei salari per creare consumatori cinesi che dovranno sostenere la domanda in patria, centralità delle tematiche ecologiche e aumento dei diritti. Addirittura, il piano quinquennale si prefigge il raggiungimento della felicità. Ambizioso, certo, però interessante, e in linea con l’analisi di Maonomics.
Secondo Loretta Napoleoni, esiste una via cinese alla modernità in cui Marx ha ancora un ruolo e che potrebbe darci delle risposte su come migliorare il nostro sistema pieno di falle: la Cina deve per lo meno essere una fonte di riflessione. Se poi il piano quinquennale dovesse avere successo, allora dovremmo tutti riprendere in mano il Capitale e ricominciare a studiare Marx: scopriremmo che ha ancora parecchio da insegnarci…
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Una zona euro senza la Grecia: la politica tenta di sdrammatizzare in tutti i modi, ma le voci che paventano lo scenario si fanno sempre più autorevoli. A riaprire il dibattito proprio in questi giorni è stata la redazione online del settimanale tedesco Der Spiegel, secondo cui la Grecia starebbe effettivamente valutando l’abbandono dell’Eurozona per introdurre una moneta propria. Da Atene, il ministro delle Finanze socialista Giorgos Papaconstantinou smentisce subito con decisione, così come il capo dell’Eurogruppo Jean-Claude Junker, per cui l’idea è semplicemente una “sciocchezza”. A catena, parole di rassicurazione arrivano da tutti i maggiori politici europei, eppure le illazioni proseguono.
Ad esempio, il presidente dell’Istituto di previsioni economiche tedesco Ifo Hans-Werner Sinn, ritiene che l’abbandono dell’Eurozona costituirebbe per Atene il “male minore”. In un’intervista al Franfurter Allgemeinen Sonntagszeitung, Sinn ha affermato che la Grecia potrebbe tornare a essere competitiva solo lasciando la zona euro. Certo, l’introduzione di una nuova moneta comporterebbe il rischio di bank run, ha ammesso Sinn, poiché il panico spingerebbe i risparmiatori greci a ritirare i propri soldi dalle banche e a metterli altrove, al sicuro da eventuali insolvenze. Il processo porterebbe quindi gli istituti bancari al fallimento e li costringerebbe a rivolgersi nuovamente all’Europa per riallinearsi.
Se si dà credito alle congetture di Sinn, lo scenario, per quanto cupo, rimane comunque la via d’uscita più favorevole per Atene. Per raggiungere gli obiettivi posti dall’Eurogruppo e rimanere un Paese EU a tutti gli effetti, la Grecia è tenuta a imporre un piano di austerity troppo rigido: per l’economista tedesco, tali restrizioni rischierebbero addirittura di condurre il Paese “sull’orlo della guerra civile”. La cosiddetta “svalutazione interna” del 20-30% in zona euro presuppone un taglio di prezzi e salari di portata insostenibile che spingerebbe i gruppi aziendali del Paese alla bancarotta, afferma Sinn. Gli istituti bancari rischierebbero il fallimento anche in questa situazione, poiché sono le aziende stesse a fallire e a non poter più restituire i loro crediti. Una doppia débacle, quindi, che vedrebbe anche “la morte di massa delle aziende”.
La posizione di Sinn non lascia spazio a interpretazioni e non può che riportare alla mente un altro importante economista tedesco, Axel Weber, ex-presidente della Banca federale tedesca, dimessosi a fine aprile. Prima di cedere il suo posto alla Bundesbank e rinunciare così alla candidatura per la presidenza della Banca centrale europea (Bce), l’ex-banchiere aveva criticato apertamente alcune decisioni della Bce stessa in merito all’acquisto dei bond della Grecia per risolvere l’emergenza crisi. Più in particolare, Weber aveva ipotizzato eventuali uscite temporanee dall’euro per i Paesi in crisi: un’opinione, a quanto pare, che sta trovando sempre più sostenitori fra gli economisti di un certo calibro, sebbene non condivisa dalla politica.
Per il momento, l’unica cosa certa rimangono i fatti, e questi non sembrano promettere nulla di buono. La Grecia deve fare i conti con 327 miliardi di euro di debito pubblico e i cittadini protestano quasi quotidianamente contro il Governo Papandreou e i suoi piani di austerità. Per Bruxelles, Atene avrebbe dovuto ritrovare l’equilibrio economico già dal 2012, ma l’obiettivo appare sempre più irrealizzabile e già si comincia a parlare di un’eventuale ristrutturazione del debito. Nonostante appaiano troppo severe per essere metabolizzate dal Paese, le manovre intraprese dal governo greco sembrano non essere sufficienti a soddisfare le esigenze di Bruxelles.
Unanime l’opinione dei politici europei, che considerano la questione greca da tutta un’altra prospettiva. Una voce per tutte è quella del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble (CDU), il maggiore sostenitore del progetto Europa, assolutamente contrario all’uscita della Grecia dalla zona euro. Secondo fonti vicine al ministro, citate da Der Spiegel, l’introduzione di una nuova moneta comporterebbe una svalutazione del 50% nel Paese, mentre il debito pubblico raggiungerebbe il 200% del Prodotto Interno Lordo: ciò significa, in una parola, bancarotta. E a questo punto il Governo di Atene dovrebbe introdurre misure di contenimento per impedire la fuga di capitali, una linea che non andrebbe d’accordo con il liberalismo europeo. In questo modo, secondo Schaeuble, la Grecia rischia di venire tagliata fuori dal mercato globale per i prossimi anni.
Ai primi posti, nella lista dei timori del ministro tedesco, c’è che l’uscita di un Paese dalla moneta unica rovinerebbe inesorabilmente la fiducia economica dei mercati nella zona euro. Gli investitori dovranno convivere con il timore dell’abbandono futuro di altri Paesi e a dominare le piazze di tutto il mondo sarebbe il fantasma del rischio contagio. In attesa dunque di vedere quali saranno le prossime mosse della Grecia, par di capire la sostanza degli incubi europeisti: l’uscita di Atene sarebbe un fatto grave e, per giunta, rischierebbe di provocare un effetto contagio per tutte le altre economie in crisi. Se l’euro è stato fino ad ora il cemento su cui edificare l’Ue, proprio dalla moneta unica potrebbe venire il primo atto della sua possibile disgregazione.