di Emanuela Pessina

BERLINO. O si mangia questa minestra o si salta dalla finestra. Sembra essere questo il refrain del padronato italiano nei confronti delle organizzazioni sindacali. La disdetta unilaterale del contratto nazionale metalmeccanici da parte di Federmeccanica, ha avuto sullo sfondo gli applausi sperticati del governo, della Cisl e della Uil e dei soliti columnist a un tanto al rigo.

La FIOM, unica sigla sindacale ad opporsi, è sotto il tiro incrociato di tutti gli specializzati nel profferire verbo che, in vita loro, mai nemmeno un minuto sono stati costretti a vivere come operai, ma ai quali però si sentono d’indicare la retta via. La crisi del settore, dicono in coro da Via Solferino a Viale dell’Astronomia, è europea e la contrazione del mercato dell’auto impone una rivisitazione dei contenuti del contratto nazionale. Ma è proprio così?

Sembrerebbe di no, visto che in Germania le diverse scelte aziendali e un diverso modello di relazioni industriali, oltre che un ruolo diverso del governo, hanno dato risultati completamente diversi. Nel 2009, infatti, il gruppo Volkswagen ha venduto oltre 6 milioni di auto in tutto il mondo, registrando un aumento dell'1.1% rispetto all'anno precedente: cifre di poco conto all'apparenza, ma un traguardo importante considerata la situazione di rosso profondo in cui versa il settore automobilistico mondiale da un paio di anni.

E mentre in Italia si chiede il ciclo continuo h24 della produzione (salvo poi non sapere dove vendere le auto), in Germania un importante fattore anticrisi è stato il consolidamento della cosiddetta "settimana corta", il meccanismo che ha permesso all'azienda Volkswagen di ridurre la produzione evitando licenziamenti di massa. Nel pieno della crisi del mercato mondiale, due terzi dei 92 mila operai Volkswagen si sono visti ridurre le ore di lavoro: il 23 febbraio 2009, Volkswagen ha chiuso alcuni settori delle sue officine sospendendo del tutto le attività, che sono riprese con il ritmo ordinario di produzione solo a inizio marzo.

La settimana corta ha evitato a Volkswagen un eccesso di capacità produttiva in tempo di crisi profonda: nel 2008 la domanda di automobili è crollata drasticamente e le sovvenzioni statali hanno favorito solo la produzione delle utilitarie più piccole, che non vengono montate in Germania. La drammaticità della situazione non ha portato comunque l'impresa a intraprendere provvedimenti estremi nei confronti dei lavoratori: con la settimana corta si sono salvati produzione e occupazione.

Subito approvata dal consiglio di fabbrica, l'iniziativa non ha creato grandi shock agli operai di Volkswagen, che hanno continuato a percepire lo stipendio di sempre. L'azienda ha retribuito loro le ore effettivamente lavorate, mentre l'Agenzia federale del lavoro ha provveduto a pagare il resto. I costi sociali della misura anticrisi, quindi, sono stati sostenuti dallo Stato, che ha dimostrato tutto l'interesse a investire i soldi dei cittadini per evitare licenziamenti di massa. In Germania, tra l'altro, non esiste la cassa integrazione.

Ma non è tutto: il terremoto economico della recente crisi si è sentito fino ai vertici Volkswagen, dove sono stati nettamente ridotti gli stipendi. I membri del consiglio di amministrazione del gruppo di Wolfsburg hanno incassato nel 2009 poco meno di 19 milioni di Euro, rispetto ai più di 45 milioni nel 2008. Secondo la relazione del bilancio annuale della casa automobilistica, il presidente del consiglio di sorveglianza e proprietario del marchio Ferdinand Piech, ha percepito 390 mila Euro rispetto ai 467mila del 2008. Il presidente del consiglio di gestione del gruppo, Martin Winterkorn, si è visto dimezzare lo stipendio, mentre il direttore finanziario, Hans Dieter Poetsch, ne ha preso solo un terzo rispetto a quello del 2008.

Volkswagen sembra essere tornata a guardare al futuro con ottimismo e ambizione. La maggiore casa automobilistica europea ha registrato nel primo semestre 2010 un aumento di immatricolazioni del 16% rispetto al 2009 e una flessione del volume d'affari del 22%, superando di gran lunga le stime degli economisti. I tempi di magra sembrano ormai dimenticati: entro il 2018 Volkswagen vuole arrivare a vendere una media di 10 milioni di auto all’anno, affermandosi come prima casa automobilistica a livello mondiale e scalzando Toyota.

Nel frattempo, invece, Fiat continua a piangere crisi e chi ne paga le conseguenze non sembra essere motivato da nessun tipo di rosee previsioni per il domani. Approfittando della situazione catastrofica dell'economia, qualche mese fa Fiat ha cercato di imporre un contratto di lavoro “capestro” ai suoi operai di Pomigliano d'Arco, in sostituzione a quello nazionale dei metalmeccanici 2008: una stipula in netta contraddizione con la direttiva europea e che nega i principi dello Statuto dei Lavoratori. In caso di mancato compromesso, Fiat minacciava di spostarsi all'estero, in quei Paesi dove la manodopera costa meno.

Per applicare il nuovo contratto senza ripercussioni legali, Fiat era pronta ad abbandonare Federmeccanica, fautrice e garante del contratto di lavoro dei metalmeccanici: un passo che si è reso ora superfluo, dato che Federmeccanica ha annunciato proprio in questi giorni l'annullamento del contratto nazionale del 2008. Nonostante la sua matrice "apolitica e senza fini di lucro", a quanto pare, l'associazione non si poteva permettere di perdere uno dei suoi membri più autorevoli e, ancor più, una ghiotta occasione per attaccare la FIOM. L’associazione riconosce dunque l’ultimo contratto siglato, nel 2009, con i sindacati che hanno accettato le loro pretese: Cisl, Uil. Peccato che in calce al contratto manchi la firma della FIOM e che i lavoratori non siano stati chiamati ad approvarlo o respingerlo attraverso il referendum, tutte condizioni invece presenti nel contratto appena disdetto unilateralmente.

Fiat parla di un contratto improntato alla modernità e alla flessibilità, ma le realtà appare ben diversa. Nel nuovo patto di lavoro, il gruppo si arroga la  facoltà di non pagare ai dipendenti la parte di malattia a suo carico per evitare assenteismo e quella di comandare lo straordinario nella mezz’ora di pausa mensa per i turnisti, oltre a prevedere sanzioni per i sindacati che proclamino iniziative di sciopero e licenziamento per chi mostrasse assenze per malattia superiori alla media.

Più che modernizzazione, sembra essere di fronte all’estensione su scala industriale del caporalato, se non addirittura alla versione moderna delle piantagioni di cotone in Mississipi e Alabama pre-guerra d’indipendenza americana.

Più che modernità, le proposte Fiat sembrano andare a riaffermare il primato dell'impresa sui diritti di chi lavora; più che disegni di rinnovamento, le condizioni di Fiat sembrano un ricatto. Fiat vuole tornare a competere sul mercato internazionale con una politica di bassi prezzi di vendita riducendo i diritti fondamentali agli operai. Non punta cioè sull’innovazione di prodotto ma sulla contrazione dei costi e sceglie l’estero non come opportunità di allargamento del mercato, ma come occasione per allungare le mani sui finanziamenti europei e gli incentivi locali e come ricerca del costo del lavoro a livello più basso. Toglieteci le tasse, i vincoli e anche il costo del lavoro, queste sono le giaculatorie che echeggiano da Corso Marconi verso il sistema solare.

Davvero non si capisce, poi, quale strano, perverso gioco, animi le fantasie del PD, che corre ad allinearsi al coro antisindacale. Pare davvero che sia la FIOM e non l'incapacità gestionale della casa torinese il motivo della crisi della Fiat. Tra l'altro, il gruppo ha fatto registrare in agosto un calo delle immatricolazioni del 26.39% a 21 mila unità. Una flessione in linea con le attese, si affretta a spiegare qualcuno, poiché sono stati eliminati gli incentivi statali nel settore. Inoltre, i due terzi delle auto acquistate in Italia sono prodotte all'estero, lamentano gli analisti, quasi a giustificare l'abisso con la mancanza di patriottismo degli italiani. Che però dovrebbero acquistare auto di minor valore ed a maggior costo. La vanità di Marchionne non vale simili sacrifici.

 

di Ilvio Pannullo

Il decreto legge da 24,9 miliardi di Euro, successivamente convertito in legge il 29 luglio dal Parlamento, è stato blindato dal governo con il doppio voto di fiducia nei due rami del Parlamento. I capisaldi del testo non sono stati toccati: rimane infatti il taglio netto ai trasferimenti per enti locali e regioni e il blocco del turn over per gli statali, nonostante le fortissime proteste dei rappresentanti di province, regioni e comuni che hanno addirittura minacciato - con il governatore della Puglia Vendola in testa - di rimettere allo Stato centrale le competenze attribuite loro dalla Costituzione, perché impossibilitati a farvi fronte. Ma i soldi servono e le casse dello Stato languono.

E’ per questo motivo, per fare cassa, che oltre al taglio ai trasferimenti sono state previste, nella legge voluta e blindata dal governo, nuove norme in materia di previdenza. Ecco infatti come attraverso modifiche tecniche alle "finestre" di pensionamento e al sistema di calcolo dei coefficienti, si consuma il furto ai danni dei futuri pensionati.

Per un governo che, per bocca del suo ministro del Tesoro, aveva affermato solo qualche mese fa che mai avrebbe messo mano alle pensioni, la legge rappresenta una solenne smentita. L’ennesima prova dell’inaffidabilità dei politici quando si parla di soldi. Gli interventi sul sistema pensionistico sono infatti pesanti e alcuni hanno il carattere di un vero e proprio furto a danno dei lavoratori. L’intervento iniziale del governo si limitava ad una modifica delle cosiddette finestre di uscita, ossia del periodo intercorrente tra la maturazione del diritto alla pensione e la decorrenza, cioè l’effettivo pagamento della pensione stessa.

Ma quali sono concretamente gli interventi e le conseguenze giuridiche prodotte dalla nuova manovra? Le finestre di cui sopra sono state introdotte, per la prima volta, con la legge 335/95 e hanno rappresentato un espediente per risparmiare sulla spesa pensionistica: il diritto si matura ad una certa età, ma la pensione si percepisce alcuni mesi dopo con un risparmio per lo Stato. Inizialmente erano previste solo per le pensioni di anzianità ed erano 4 all’anno con un intervallo massimo, quindi, di 3 mesi tra acquisizione del diritto e decorrenza della pensione. Le finestre sono state poi ridotte a 2 ed estese alla vecchiaia e alla pensione con 40 anni di contribuzione (legge 247/2007). Si è esteso quindi l’intervallo tra diritto e decorrenza a 3/6 mesi per la pensione di vecchiaia e per quella maturata dopo 40 anni di contributi previdenziali e a 6/9 mesi per quella, invece, di anzianità.

Con il decreto il governo porta tutte le finestre ad una misura unica di 12 mesi. Dopo il raggiungimento dei requisiti pensionistici di vecchiaia, di anzianità o dei 40 anni, la decorrenza della pensione avverrà dopo 12 mesi. In pratica la pensione di vecchiaia non sarà più a 65/60 anni, ma a 66/61, i 40 anni di contribuzione diventano 41 e i requisiti di età/contribuzione e le quote per le pensioni di anzianità si innalzano di 12 mesi. Certo, l’aumento rispetto ad oggi non è di 12 mesi, dato che le finestre erano già presenti, ma l’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento è di circa 6 mesi e produce un sensibile risparmio che la Relazione Tecnica quantifica in 0, 36 miliardi di euro nel 2011, 2,6 miliardi nel 2012 e 3,5 miliardi nel 2013.

Per l’ennesima volte l’intervento sulle pensioni serve a fare cassa con buona pace di tutti coloro che hanno sempre giustificato o richiesto un intervento sulle pensioni al fine di riequilibrare la spesa sociale. In sostanza chi va in pensione con questi sistemi a 65 anni si vede applicato un coefficiente di trasformazione calcolato in base alla speranza di vita a 65 anni. La sua pensione però inizierà a decorrere 12 mesi dopo a 66 anni. Subisce quindi una decurtazione del montante pensionistico pari ad un anno rispetto a quello a cui avrebbe diritto.

Questa “sottrazione” di monte pensionistico è poi accentuata dall’emendamento approvato in commissione bilancio del Senato. L’emendamento traduce in norma operativa, con qualche cambiamento, quanto già deciso lo scorso anno con la legge 102/2009 in merito all’adeguamento dell’età di pensionamento in base alla speranza di vita. La cadenza di modifica dell’età di pensionamento non è più quinquennale ma triennale e si specifica, fatto positivo, che la speranza di vita da prendere in considerazione è quella a 65 anni. Dal 2015 l’età di pensionamento di vecchiaia e di anzianità sarà elevata in base alla speranza di vita a 65 anni rilevata dall’Istat nel triennio precedente.

L’emendamento affronta il problema dei coefficienti nel calcolo contributivo. Aumentando l’età di pensionamento sopra i 65 anni, infatti, si pone il problema dei coefficienti per età superiori ai 65, oggi non calcolati. L’emendamento prevede che quando gli incrementi dell’età pensionabile di vecchiaia superano di almeno un’unità (12 mesi) i 65 anni debba essere calcolato il coefficiente corrispondente ai 66 anni e così via. Tenendo conto delle finestre e del ritardo nel calcolo del nuovo coefficiente il risultato sarà quello di lavoratori che percepiranno la pensione con più di 66 anni di età (fino a 66 anni e 11 mesi) con un coefficiente di trasformazione calcolato con la speranza di vita a 65 anni. Viene dunque meno per questi lavoratori la corrispondenza tra montante contributivo e montante pensionistico con la sottrazione di più di 1 anno di ratei pensionistici. Indubbiamente una bella mazzata sui denti.

Riassumendo si può dunque dire che l’intervento voluto dal governo è di certo fraudolento e questo appare palese dalla discrasia che si coglie tra ciò che si dichiara ufficialmente e ciò che poi si legge negli atti normativi blindati con il voto di fiducia; tuttavia la necessità di ripensare il modello del welfare state appare tanto storicamente necessaria da non consentire nessuna liquidazione superficiale degli interventi realizzati. Di certo quello che non può essere taciuto è la mancanza di equità nella sopportazione, tra le diverse classi sociali che compongono il paese, dei grandi mutamenti che stanno e continueranno ad interessare la vecchia Europa.

di Ilvio Pannullo

Stanno cadendo, cadono e continueranno a cadere uno dopo l’altro, come in un domino ben progettato, i pezzi del mosaico dorato disegnato da Berlusconi e spacciato all’Italia intera come il dipinto di un successo inarrestabile. La crisi politica in atto, ormai cristallizzata nell’immotivata richiesta di dimissioni di Gianfranco Fini da Presidente della Camera dei Deputati, avanzata scompostamente da un iracondo Presidente del Consiglio  - da sempre scarso conoscitore delle norme costituzionali che disciplinano le varie istituzioni che compongono il nostro ordinamento - segna la fine del grande sogno.

E con esso, una dopo l’altra, vengono sbugiardate tutte le promesse fatte per ottenere quel consenso popolare utilizzato solo per fuggire dalla giustizia dei tribunali. Dopo quindici anni il berlusconismo, il sogno americano all’italiana, getta la spugna e si rivela per ciò che è, che è sempre stato: una maschera si ottimista e sorridente, ma pur sempre una maschera imposta ad un’Italia troppo brutta per essere vera.

Esemplificativa, se non addirittura paradigmatica, è la vicenda che ha interessato il fisco. Chiunque ricorderà il mantra azzurro del “meno tasse per tutti”. Uno slogan vincente, un progetto politico, un’idea propulsiva ora ridotta ad un clichè; un’utopia, un motivetto consolante da ripetere davanti le telecamere, nella speranza che ci sia ancora qualcuno disposto a credere alle favole. Purtroppo la realtà è ben diversa da come l’avevamo immaginata, da come ce l’avevano fatta immaginare attraverso descrizioni luminose, plastici lucidi e cartine dello stivale magicamente ridisegnate in quei grandi consessi autocelebrativi che sono diventati i salotti tv. 

Sono i numeri, le proporzioni matematiche, i rapporti economici tra indicatori socialmente apprezzabili a spazzare via il campo da ogni ambiguità dialettica. E i numeri non hanno voce; posso essere interpretati, ma mai fino al punto di rovesciarne il significato originario (come invece puntualmente accade con le parole). E cosa dicono i numeri del decennio azzurro? Eccoli qui.

Nel 2000 le entrate complessive dello Stato rappresentavano il 45,4% del Pil; nel 2009, alla fine del decennio berlusconiano, questa percentuale è salita al 47,2%, il valore più alto mai raggiunto. In termini assoluti, nello stesso periodo le entrate sono cresciute del 33%, un valore superiore di ben 12 punti percentuali rispetto alla crescita dei prezzi, ferma al 20,6%. In altre parole, il costo della macchina statale aumenta con il passare degli anni molto più di quanto non sia ammesso dall’aumento dei prezzi causato dall’inflazione.

Un simile dato economico non potrebbe essere politicamente più pregnante. Non vi è dubbio infatti che nell'immaginario collettivo i governi Berlusconi (siamo arrivati a quattro, con buona pace per i pronostici di Montanelli) si sono caratterizzati come quelli che “non hanno messo le mani nelle tasche degli italiani”. Al contrario, gli stessi slogan del centrodestra (oltre ovviamente all’intero impero mediatico berlusconiano, tv e giornali in testa) hanno accreditato i governi di centro sinistra come quelli che hanno sempre puntato ad alzare le tasse. E il fatto che sulla questione fiscale gli italiani siano particolarmente recettivi lo dimostra l’esito della campagna elettorale del 2006: Prodi perse terreno sulla base della martellante campagna mediatica di Berlusconi. Con il risultato che quella che fino a poche settimane prima sembrava per il centrosinistra una marcia trionfale, si trasformò invece in una risicata vittoria, per non dire una mezza debacle, come si vide meglio un anno mezzo dopo.

Si penserà allora che i dati sono fasulli, i numeri taroccati o magari forniti da qualche società schermo dei soliti pericolosissimi comunisti. Consultando però quelli che emergono nella relazione annuale della Banca d'Italia, ciò che s’impone all’evidenza dei fatti è la categorica smentita di quella narrazione di cui sono state colonna sonora le roboanti affermazioni che il nostro premier ci ha regalato in tutti questi anni. Dal meno tasse per tutti al meno burocrazia per tutti, passando per il presidente operaio al servizio della nazione.

In estrema sintesi, i numeri evidenziano con chiarezza due circostanze: la prima riguarda le entrate dello Stato nel decennio berlusconiano, la seconda fa riferimento all'incremento delle stesse. Nel primo caso si sottolinea come l’incidenza dell’intera  struttura amministrativa e politica sulla produzione, non soltanto non é diminuita, ma risulta sia addirittura aumentata, in relazione sia all'inflazione, sia al prodotto interno lordo. Non soltanto non c'è quindi stata la promessa riduzione delle tasse, ma al contrario è aumentata la voracità dello Stato.

La seconda circostanza, che emerge da un’analisi interna dei dati riguardanti l’innalzamento delle entrate, indica come questo incremento non sia stato causato da un apprezzamento omogeneo delle principali fonti di gettito, cioè le imposte dirette (quelle sul reddito), le imposte indirette (Iva e accise) e i contributi previdenziali (essenzialmente Inps e Indap). Analizzando le principali componenti delle entrate dello Stato, si osserva infatti che le imposte dirette, quelle generalmente prelevate alla fonte e già pagate in busta paga, sono cresciute tra il 2000 e il 2009 del 33%, una percentuale più alta di quasi 12 punti percentuali rispetto al 20,6 dell'inflazione. In relazione alla crescita del Pil sono invece rimaste sostanzialmente immutate (soltanto 0,2 punti percentuali in più nello stesso periodo).

È quindi corretto ammettere che il gettito delle imposte che si pagano con la busta paga (lavoratori dipendenti) o con la dichiarazione dei redditi (autonomi e partite Iva) non è aumentato nel suo complesso. Quanto questa tenuta generale sia poi il frutto in realtà di uno strano equilibrio raggiunto tra l’inferno delle tasse prelevate alla fonte ed il paradiso di quelle pagate sulla base della dichiarazione dei redditi è tutto da apprezzare. Questo risultato può infatti dipendere anche da altri fattori, come il livello di evasione fiscale. Confrontando, infatti, le aliquote Irpef (l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, ndr) per gli anni 2000, 2005 e 2009, non si riscontra una palese riduzione delle stesse, anzi queste paradossalmente - se si considera che secondo l’articolo 53 della Costituzione “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità produttiva” -  tendono ad aumentare per i redditi più bassi, sebbene tale incremento possa risultare neutralizzato da maggiori detrazioni.

È invece leggermente diminuito il cerchio delle imposte indirette, ossia Iva e accise. Se lo si rapporta all’andamento dell'inflazione (meno  2,3% nel periodo considerato), ed in particolare, se lo si confronta con il Pil: da un 14,7% nel 2000 si è scesi ad un 13,6% nel 2009. In particolare c'è da notare che la riduzione più accentuata è avvenuta negli ultimi due anni, cioè nel 2008 e nel 2009 (nel 2007 era ancora uguale a quella del 2000). Ben conoscendo tutti l’incapacità cronica - evidentemente voluta, cercata e realizzata - della complessa macchina statale di dotarsi degli strumenti necessari per contrastare efficacemente i fenomeni dell’evasione e dell’elusione fiscale, si può capire come questi dati, se calati nella situazione italiana caratterizzata conseguentemente da un'evasione fiscale impressionante (si stimano ormai 120 miliardi di euro d’imposte non pagate), indicano come la riduzione del gettito delle imposte indirette che si è verificato – ad aliquote Iva ed importi delle accise invariati – potrebbe segnalare una maggiore evasione.

Con il duce di Arcore al potere la fedeltà fiscale - è noto crolla come una diga logora e consunta che si sbriciola sotto l’impulso antisociale - ma umano, troppo umano - di autoconservazione economica, acutizzato dall’incancrenirsi della crisi che infiamma la rivalità sociale. Va comunque detto che il calo delle imposte indirette rilevato negli ultimi due anni è certamente da mettere in relazione anche con la crisi economica. Da notare, poi, che nel decennio considerato l'anno in cui il gettito delle imposte indirette è stato più alto in assoluto è il 2007, al tempo del secondo governo Prodi: 227 miliardi, poi scesi a 216 nel 2008 - anno della vittoria berlusconiana e dello scoppio della bolla immobiliare negli USA - e 207 nel 2009.

Anche qui, ancora una volta, un dato che segnala come nulla sia stato fatto per migliorare il sistema tributario e fiscale al fine di meglio cogliere il flusso della ricchezza, per poi andarla a colpire lì dove si ammassa artificiosamente, diventando capitale finanziario e producendo una ricchezza virtuale destabilizzante per gli stessi sistemi produttivi del paese. Anzi, un altro dato molto interessante viene dalla voce contributi sociali, che in assoluto è la componente della pressione fiscale cresciuta di più (+46,6% in nove anni), sia rispetto all'aumento del costo della vita (+26% nello stesso periodo), sia rispetto al Pil (dal 12,4% del 2000 al 14,1% del 2009). In altre parole è aumentata di molto la pressione fiscale sul fattore lavoro, in particolare su quello dipendente.

Che cosa dunque si desume dai numeri sopra indicati? Innanzitutto che, aldilà degli alti sonanti proclami su una loro riduzione, le tasse non sono complessivamente calate. Se si considera poi che tutte le vergognose leggi che sono state fatte ingoiare alla Repubblica sono state considerate dal popolo telespettatore come un sacrificio necessario per quella rivoluzione liberale da tutti desiderata ma mai realizzata, il fallimento politico non potrebbe essere più eclatante.

Non si può dunque che prendere atto del disastro politico, economico e fiscale, e dunque inevitabilmente sociale, reso sempre più evidente e irrimediabile da una crescente finora spesa pubblica e da un debito pubblico che ha continuato la sua ascesa ininterrotta, assumendo proporzioni ingestibili nel lungo periodo a seguito del perdurare di una situazione di recessione economica.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Come la voce di una Cassandra solitaria, dalle colonne del New York Times si leva ogni giorno la supplica rivolta al governo americano: spendere, spendere, spendere! Ma le sue parole cadono nel vuoto, tanto in America quanto in Europa. Mentre banchieri e speculatori, questa volta travestiti da paladini della responsabilità fiscale, banchettano sulle carcasse delle economie occidentali. È la folle rincorsa alla riduzione del deficit la nuova parola d'ordine.

Non usa mezze parole il premio Nobel per l'Economia Paul Krugman, per denunciare l'assurdità dello spettacolo cui stiamo assistendo. “Soltanto due anni fa, chiunque avesse predetto uno scenario come quello attuale (non solo la disoccupazione è a livelli disastrosi, ma tutte le previsioni assicurano che resterà così per molti anni) sarebbe stato preso per un pazzo allarmista. Ora che l'incubo è realtà - per milioni di americani - Washington sembra aver perso qualsiasi senso di urgenza. Speranze infrante, piccole imprese in bancarotta, vite distrutte? Non importa, parliamo invece del malvagio deficit di bilancio”.

Delle due l'una: o il New York Times è diventato un covo di serpi comuniste (ma nessun giornalista è stato incluso nella lista di spie russe per lo scambio di detenuti), oppure il professor Krugman è l'unico che riesce a fare due più due. Secondo Krugman, il responsabile della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, sa perfettamente cosa si dovrebbe fare, visto che è stato proprio lui a proporlo in tempi pre-crisi. Qual sarebbe dunque la ricetta Krugman-Bernanke per rilanciare l'economia?

“I tassi di interesse americani a breve termine - dice Krugman - sono già vicini a zero e non possono essere abbassati oltre. Ma il messaggio di Bernanke nel 2002 era di comprare il debito a lungo termine del governo e il debito del settore privato. Annunciare che la Fed manterrà i tassi così bassi per lungo tempo e convincere i privati che prendere soldi a prestito è una buona idea, mentre tenersi in tasca il contante una pessima idea.” Peccato che Bernanke abbia improvvisamente cambiato idea, diventando, nel momento di crisi, paladino del pareggio di bilancio.

“Possiamo ancora fermare il disastro - argomenta Krugman - con un secondo massiccio piano di stimolo e con un'azione molto più aggressiva da parte della Fed. Ma politicamente siamo inchiodati: anche se i democratici tengono nelle elezioni di Novembre, non avranno comunque i voti per fare grossi aggiustamenti.”

Gli Stati Uniti l'anno scorso hanno passato un colossale piano da ottocento miliardi di sostegno all'economia, ma nonostante questo la disoccupazione è al valore che si paventava soltanto nelle stime più catastrofiche. Ora che quelle stime sono diventate realtà, invece di investire più denaro, tutto a un tratto i fautori degli stimoli economici hanno abbracciato l'austerità fiscale, che essi stessi avevano definito sbagliata un anno fa. Ma mentre l'austerità dell'armata “spietata, confusa e sprovveduta” dei Repubblicani in Congresso è premiata con montagne di denaro dalle grosse corporations, secondo Krugman l'austerità della Federal Reserve è sintomo piuttosto di codardia.

Soprattutto, è curioso il fatto che questi sarti del deficit abbiano le forbici spuntate quando si tratta di cancellare i tagli alle tasse sui redditi alti, voluti da Bush e mantenuti da Obama, che fanno sprofondare il bilancio statale. E siano tempestivi nel cancellare i contributi ai disoccupati di lunga durata, la cui proroga è stata bocciata al Senato americano la scorsa settimana grazie al voto di un senatore democratico voltagabbana. Stando alle più recenti proiezioni economiche, l'economia americana sta per entrare in una fase di deflazione, che sarà disastrosa proprio per il deficit. Mentre ci sarebbe bisogno di un periodo d’inflazione prolungata per ripianare il debito.

Per quanto riguarda l'austerità fiscale della zona europea, la spiegazione di Krugman è talmente ovvia che basta dare un'occhiata guardare alla disoccupazione in Spagna e Germania per capire di che si tratta. La disoccupazione tedesca è in calo. Quella spagnola è rampante. La politica di contenimento del debito cui tutti i paesi europei si stanno prestando, ha dunque un solo artefice e beneficiario: la Germania.

Si tratta ancora una volta di un esempio di shock economy da manuale. Prima si puntano tutte le scommesse sulla bancarotta di un paese sovrano, mentre con l'altra mano gli si prestano soldi come se piovesse (vedi il gioco delle tre carte della Grecia con Goldman Sachs e Germania). Poi, quando il bilancio statale è insolvente, si prepara un ultimo prestito internazionale a tassi da usura, per ripagare i prestiti precedenti. Nel momento cruciale del panico da bancarotta, gli esperti di economia e i banchieri giurano che l'unico rimedio è il solito taglio drastico al settore pubblico. E sperano che i cittadini se la bevano.

In Grecia, come a Princeton (dove insegna Krugman), hanno fatto due più due e se ne sono accorti. Mentre il governo approvava i tagli draconiani ai dipendenti pubblici, per ripagare i debiti con le banche tedesche, francesi e americane, i cittadini greci infuriati assaltavano il Parlamento e mettevano a ferro e fuoco Atene. La loro pretesa assurda? Che a pagare per la bancarotta fosse chi l'ha provocata, ovvero il mare di evasori fiscali, i banchieri e la corrotta classe dirigente.

In Italia la situazione è del tutto analoga. Il nostro premier è tornato dall'ultimo G20 vantando una grande vittoria per l'Italia (ma soprattutto per la sua P3): aver evitato che, per ripianare i bilanci statali, i ministri europei approvassero una tassa sulle transazioni finanziarie. A pagare il conto alla Merkel saranno invece i dipendenti pubblici e i redditi più bassi, che risentiranno più pesantemente dei tagli agli enti locali. Ma se la maggior parte dei consumatori non avrà soldi da spendere, chi ci spiega come farà nei prossimi anni il PIL ad aumentare e di conseguenza il deficit a rientrare?

di Mario Braconi

Se la Grecia è arrivata al punto di dover sopravvivere grazie all'elemosina dell'Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, non lo deve solamente agli speculatori internazionali. La diagnosi stilata da alcuni giornalisti americani sullo stato dell'arte del paese mediterraneo è certamente corretta: livelli di burocrazia "kafkiani", corruzione e nepotismo onnipresenti (si pensi ad esempio ai dati contabili fasulli sul deficit mandati a Bruxelles dal governo ellenico), mercato dominato da aziende statali e comunque da aziende greche, competitività inesistente, alto livello di litigiosità giudiziaria e tribunali inefficienti.

Interessa, in questo caso, non tanto dolersi del fatto che nessun competitor estero (magari americano, come comprensibilmente vorrebbe il Wall Street Journal) riesca a penetrare la cortina protettiva della chiusa economia greca; quanto piuttosto sottolineare come il contesto descritto dipinga una situazione di stabile compressione dei diritti sociali degli strati meno fortunati della popolazione, anche prima del deflagrare della crisi finanziaria.

A titolo di esempio, basti ricordare che, come ricorda la giornalista conservatrice Anne Applebaum, su Slate, la Grecia è l'unico paese europeo (assieme all'Albania) a non essersi dotato di un catasto informatizzato, cosa che consente a molti agricoltori disinvolti di appropriarsi di terreno pubblico, coltivandoci sopra e arrivando perfino a chiedere sussidi allo stesso stato che stanno derubando: inutile aggiungere che la richiesta di automatizzare i registri è fieramente osteggiata dalla lobby degli agricoltori disonesti.

Ma è davvero così devastante il default della Grecia? Senza voler minimizzare le responsabilità di chi ha scandalosamente approfittato dei tassi bassi per abbandonarsi ad eccessi di ogni tipo, sono utili un paio di precisazioni: se è vero che la Grecia presenta un rapporto deficit/PIL del 13,6%, questo stesso indicatore è pari ad 11,4% in Gran Bretagna (2009) e 10,64% negli Stati Uniti (stima 2010); il debito greco è pari al 115,1% del prodotto interno lordo - lo stesso rapporto fatto registrare dall'Italia.

E' tuttavia interessante notare come la situazione della finanza pubblica greca trovi un inaspettato pendant in quella degli Stati Uniti. Anne Vorce, del think tank New America Foundation, spiega perché su un suo pezzo per la CNN. Certo - sostiene - i due Paesi sono diversissimi: a differenza della Grecia, gli USA impiegano una divisa riserva che può anche essere svalutata in caso al bisogno, hanno un importante mercato domestico, e dispongono di un mercato finanziario ampio e liquido. Ma anche gli Stati Uniti hanno un problema di debito pubblico esplosivo: si stima che, a fine 2010, il debito del Governo americano in forma di titoli negoziabili raggiungerà il 67% del prodotto interno lordo.

Poiché negli ultimi 40 anni questa misura si è mantenuta attorno al 40%, e poiché solo due anni prima era ancora a quel livello, se ne deduce che in un biennio il debito è cresciuto del 50%, grazie soprattutto all'intervento pubblico con cui il Governo è riuscito ad arginare il disastro provocato dai giochini irresponsabili di banche d'affari ed intermediari finanziari. La situazione, già critica, è destinata a peggiorare in futuro, al punto che, secondo la Vorce, il rapporto debito/PIL potrebbe toccare il 150% nel giro di una decade e raggiungere il 300% nel 2050; livelli cui è impossibile giungere senza che si verifichi una crisi devastante.

Ma è poi vero che la società americana è tanto diversa da quella ellenica? Il giudizio di Anne Applebaum è severo: negli Stati Uniti "non si riesce a controllare l'influenza dei lobbisti. Il capacità dei gruppi di potere di influenzare il processo legislativo non può essere messa sotto controllo. Forse da noi non vi saranno persone che occupano abusivamente la terra dello Stato, ma di sicuro abbiamo contadini che dipendono da generosi sussidi agricoli che distruggono il mercato", soprattutto a danno dei Paesi poveri. Anche negli USA, dunque, conservazione dello status quo, iniquità e uso privato della cosa pubblica, sono meno sconosciuti di quanto si voglia ricordare.

Anne Vorce ritiene che sia necessario per gli Stati Uniti affrontare sin da oggi la questione del debito pubblico, al fine di mantenerlo intorno al livello massimo consentito (un buon compromesso potrebbe essere il 60% del PIL). Il controllo dei conti pubblici, continua l'esperta, non dovrebbe andare a discapito dell'equità: "Un semplice taglio della spesa pubblica finirebbe per impedire al governo di fare tutte le cose su cui contiamo per rendere migliori le nostre vite. Un semplice aumento delle tasse finirebbe per drenare denaro dai ceti medi e bassi e sottrarrebbe al paese gli incentivi agli investimenti necessari a sostenere la crescita. Pertanto, occorre assicurarsi che qualsiasi intervento sul budget promuova e tuteli i nostri valori e bisogni essenziali: protezione dei più deboli, incremento dei livelli di qualità della vita attraverso lo sviluppo del capitale umano, l'innovazione e le infrastrutture di base".

Non pare ad ogni modo che i temi sollevati dalla Vorce vengano molto dibattuti al di là dell’Oceano. Con notevole ipocrisia, però, sembra inevitabile che la Grecia vada punita severamente per i suoi eccessi, mentre, ad esempio Gran Bretagna e Stati Uniti possano continuare sulla strada del debito pubblico incontrollato. Frau Merkel, preoccupata dell'esposizione delle banche tedesche verso la Grecia, ha imboccato la strada del rigore inflessibile; cosicché, il martoriato Paese mediterraneo, in cambio del soccorso europeo e del FMI, dovrà affrontara una dieta ferrea a base di rialzi delle tasse, tagli su salari, pensioni (effettivamente generose fino all’insostenibilità) e servizi pubblici, che dovrebbero ipoteticamente riportare in equilibrio il deficit entro il 2013. Una serie di misure che finiranno per colpire soprattutto le fasce delle popolazione già duramente provate dalla grave sperecuazione preesistente.

Non c'è quindi da stupirsi se i cittadini si riversano nelle strade per esprimere (spesso in modi civili e democratici, di rado offrendo un involontario pretesto ai soliti criminali) la propria rabbia nei confronti di un sistema che da decenni continua a favorire sempre le stesse persone. Tanto pesanti e gravati da recessione e disoccupazione si presentano i prossimi anni in Grecia che c'è chi ha provocatoriamente (ma non troppo) proposto una soluzione alternativa: perché la Grecia non abbandona l'Euro?

Lo sostiene Mark Weisbrot, co-director del Centre of Economic  and Politicy Research di Washington in un fulminante articolo comparso sul Guardian lo scorso 18 maggio. Secondo Weisbrot, il governo greco avrebbe dovuto pensarci bene prima di imbarcarsi sul mantenimento dell'Euro e sul processo di aggiustamento di prezzi e salari, secondo lo studioso un vero e proprio "salto nel buio". Basti raffrontare due casi di Paesi in default, la Lituania e l'Argentina: la prima, che persiste sulla strada "lacrime e sangue", ha visto il suo PIL contrarsi del 25% in due anni (un record) e potrebbe impiegare più di un decennio per ritornare ai livelli pre-crisi. La seconda, invece, dopo essere andata in default nel dicembre del 2001, ha abbandonato la parità con il dollaro e, dopo un ulteriore trimestre pesantemente negativo, ha ricominciato a correre, fino a crescere del 63% in termini reali in sei anni. Ma questa, purtroppo è utopia: sembra invece che i Greci dovranno tenersi l'Euro, le lacrime e il sangue.


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