di Ilvio Pannullo

Lo si potrebbe definire il diario di un tracollo: quanto sta accadendo in questi giorni in Grecia pare infatti confermare gli scenari peggiori circa la possibilità per il governo di rifinanziare il proprio debito. Il mercato dei titoli di Stato della Grecia, molto semplicemente, non esiste più. I grossi investitori che vogliono vendere non trovano nessuno che voglia acquistare. E nessuno compra, nonostante la nuova manovra lacrime e sangue annunciata recentemente dal governo.

L’attuale situazione è il frutto di un accordo a livello europeo dissennato, che trasferisce ricchezza da Atene a Berlino e non viceversa. È il risultato di una politica europea dei paesi periferici (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia) che scompare di fronte alle obiezioni della Germania, vera potenza dominante all’interno dell’eurozona, a conferma che l’Unione Economica Monetaria altro non è se non una maschera a difesa degli interessi tedeschi.

Le affermazioni perentorie della Cancelliera tedesca Angela Merkel sulla necessità che alle inefficienze di un governo in campo economico debba seguire anche,  se non soprattutto, una sanzione politica, sembrano infatti piegare anche Nicolas Sarkozy, indebolito dalle recenti elezioni regionali, dai sondaggi che lo descrivono in perenne calo di popolarità e, non ultimo, da inutili gossip.

Giovedì scorso, all'apice della crisi, il primo ministro greco George Papandreu ha chiamato il suo collega spagnolo Josè Luis Zapatero per convincerlo a chiamare il Presidente francese. Insieme hanno poi convinto la Merkel a mandare il direttore generale del ministero dell'economia tedesco ad un incontro "tecnico" a Bruxelles. Da quell'incontro è uscito fuori un pessimo accordo: tassi troppo alti per essere considerati dai mercati un aiuto e nessuna garanzia di pagamento ai detentori di Bond greci a più lunga scadenza.

In questa cornice, martedì 13 aprile la Grecia poteva collocare solo 1,2 miliardi di titoli a brevissima scadenza, ossia a sei mesi, massimo un anno, dalla data dell'emissione; titoli per lo più sottoscritti da banche greche. L’idea pare dunque quella di lavare i panni sporchi in casa, ma i numeri del deficit greco e la scarsa solidità patrimoniale del suo sistema bancario escludono che questa possa essere una soluzione per evitare il default.

Il mercato ha punito il pasticcio, riportando il rendimento dei titoli greci con scadenza 2012 al 6,5%. Una situazione - per l’appunto - da paese prossimo al crack finanziario. Stando così le cose, la Grecia non può pensare che una nuova emissione a lunga scadenza possa essere sottoscritta dagli investitori. Il rischio sarebbe quello di mandare deserta la vendita all’asta dei titoli, cristallizzando la totale mancanza di credibilità nelle istituzioni elleniche. La data salvifica pare essere quella del 10 maggio quando, passate le elezioni regionali tedesche, Angela Merkel potrebbe convincersi a elargizioni maggiori verso i partner europei più deboli. Ma l'ortodossia economica tedesca vuole che tutti paesi facciano i conti con i propri eccessi di spesa e di debito e, se necessario procedano ad una cura da cavallo per calmare i mercati.

I popoli del nord Europa, infatti, non sopportano di doversi far carico delle inefficienti capacità tecniche e gestionali del c.d. ClubMed, degli stati cioè rappresentativi del sud dell’Europa. La vicenda viene percepita dai tedeschi come paradigmatica: s’interpreta infatti come una chiusura ideologica il netto rifiuto tedesco al salvataggio dell’economia ellenica. Numeri alla mano, la crisi della Grecia potrebbe essere risolta molto rapidamente, rappresentando il Pil greco neanche l’1% dell’intero Pil europeo. Tuttavia passano i giorni e la situazione non accenna a migliorare, perché le posizioni politiche rimangono le medesime.

Manca una vera volontà da parte di Francia e Germania di salvare la Grecia, essendo la situazione contingente letta con una chiave interpretativa  culturale prima che economica. Semplicemente non si ritiene ammissibile che la cicala scialacquatrice trovi conforto alla mensa della parsimoniosa formica. E questo anche se dalla morte della cicala potrebbe derivare un forte pregiudizio per la stessa sopravvivenza della formica.

L'ombra della Grecia offusca infatti il futuro dell’intera ripresa europea. A lanciare l'allarme è il Fondo Monetario Internazionale secondo cui "l'Europa sta uscendo dalla recessione più lentamente di altre regioni" e ci sono "varie forze che frenano la ripresa". Tra queste, una di rilievo è la Grecia. La "sfida chiave" sarà dunque quella di prevedere "piani di consolidamento credibili". Nell'ultima bozza del World Economic Outlook, si legge che nel Vecchio Continente le prospettive di ripresa variano considerevolmente da paese a paese. "Un sostanziale stimolo macroeconomico ha sostenuto la ripresa nei paesi avanzati dell'Europa, anche se la domanda privata non si è ancora solidificata. Al tempo stesso, ampi squilibri di bilancio minacciano la ripresa in alcuni paesi più piccoli, con potenziali effetti dannosi per il resto della regione". "Certamente - mette in guardia il Fmi - i timori per la solvibilità del debito sovrano e per la liquidità della Grecia (e per i possibili effetti di contagio in altri paesi vulnerabili dell'area euro) hanno minacciato la normalizzazione dei mercati finanziari".

I mercati temono infatti, secondo il Fmi, che i problemi d’insolvenza di Atene si traducano in una vera e propria crisi del debito sovrano, che porterebbe a casi di contagio. Proprio per questo "sarà molto importante che le autorità greche ristabiliscano la credibilità della loro politica fiscale e che le autorità europee assicurino che la paura per la situazione greca non porti a un'instabilità finanziaria o a ripercussioni significative sui bilanci e sulle banche in Europa". La ripresa, secondo il Fmi, sarà dunque "graduale e diseguale" tra i paesi di Eurolandia.

Se non intervengono investimenti politici, investimenti cioè assolutamente impensabili perché fuori da una logica strettamente economica, la Grecia non riuscirà rifinanziare il suo debito sui mercati e utilizzerà la linea di credito messa a disposizione dall'Europa molto presto. A quel punto chi detiene i Bond greci non resterà che sperare che i debiti pregressi vengano pagati, anche se magari in un futuro lontano.

Ma il mercato ha già scelto le sue prossime vittime: Portogallo e Spagna. Il rendimento dei Bond a due anni di Lisbona sono al 1% sull’Euribor; Madrid invece iniziò ad avvertire il pericolo da quando le grandi banche e gli Hedge Funds americani hanno iniziato a vendere allo scoperto i titoli spagnoli. Le banche private spagnole continuano a comprare titoli del governo di Madrid controbilanciando l'offerta, ma questa strategia non potrà durare in eterno. L'articolo apparso il 15 aprile sul Sole24ore, che indicava la Spagna come prossima vittima dell’insicurezza dei mercati ha poi convinto molti gestori di fondi italiani a non acquistare.

Si attende dunque un segnale dalla Germania, dall'Europa o da entrambe, che rassicuri sul fatto che la situazione sia migliore di come la dipingono gli economisti più accreditati e i giornali di settore. La gestione della finanza europea appare sempre più un deserto senza leader in cui ognuno tira acqua al proprio mulino non capendo che il fiume rischia di prosciugarsi. Delle due l’una: o l’Europa saprà costruire un coerente e credibile governo politico della propria economia o, se lo scenario futuro è quello di un’Eurozona che cresce di un misero 1% per i prossimi dieci anni, a causa di una vera e propria crisi del debito sovrano, l’intero progetto politico di una Comunità Europea federale, iniziato con la firma dei trattati di Roma il 25 marzo del 1957, rischia di collassare.

di Michele Paris

All’indomani dell’esplosione della crisi finanziaria, nell’autunno del 2008, la banca d’affari Goldman Sachs diventò immediatamente - e a ragione - il simbolo delle pratiche speculative e dell’avidità di Wall Street che stavano per condurre l’economia americana sull’orlo del baratro. A macchiare ulteriormente l’immagine del colosso, fondato nel 1869 dall’immigrato tedesco Marcus Goldman, e a provocare una nuova ondata di rabbia tra i cittadini comuni colpiti dalla crisi, è giunto qualche giorno fa l’annuncio di una causa civile per “condotta fraudolenta” avviata dalla Commissione per i Titoli e gli Scambi (Securities and Exchange Commission, S.E.C.), l’ente governativo incaricato di vigilare sulle attività della borsa statunitense.

Secondo la S.E.C., nell’aprile del 2007 Goldman Sachs avrebbe ricevuto un input da parte del banchiere d’affari John Paulson per predisporre un pacchetto di CDO (collateralized debt obligation), obbligazioni ad alto rischio che hanno un debito come garanzia, costituito da mutui sub-prime. Il prodotto finanziario in questione, chiamato ABACUS 2007-AC1, era stato venduto ai clienti di Goldman nonostante fosse ben noto ai suoi dirigenti che fosse destinato a crollare di lì a poco. Scommettendo sulla caduta dello stesso titolo, Goldman Sachs e Paulson riuscirono ad incassare profitti enormi al momento dell’esplosione della bolla finanziaria.

A confondere gli investitori ci si sarebbero messe anche le ben note agenzie di rating Moody’s e Standard & Poor, le quali (verosimilmente dietro pressioni di Goldman Sachs) avrebbero attribuito al titolo la tripla A, stimandolo così come un investimento con rischio praticamente pari a zero. Le perdite per gli investitori sono alla fine ammontate complessivamente a un miliardo di dollari, anche se la transazione relativa ai titoli ABACUS faceva parte di una serie di titoli dello stesso genere - almeno 25 a detta della S.E.C. - del valore di quasi 11 miliardi.

Come se non bastasse, il gigante delle assicurazioni A.I.G., salvato dal collasso grazie a qualcosa come 180 miliardi di dollari provenienti dalle casse pubbliche, aveva garantito i titoli ABACUS emessi da Goldman Sachs per 6 miliardi. Una polizza molto gravosa per A.I.G che dichiarò per questa operazione una perdita di 2 miliardi al momento dell’intervento di salvataggio del governo federale. Un coinvolgimento di denaro pubblico che ha spinto due deputati democratici a chiedere un’indagine più approfondita sulle pratiche di Goldman Sachs.

Per quanto questa condotta possa risultare a dir poco riprovevole, essa risulta in gran parte legale. L’indagine federale, infatti, non verte sulla vendita in sé dei titoli sul cui tracollo la banca aveva scommesso per ottenere profitti, bensì sulla creazione deliberata di un prodotto finanziario destinato a crollare per poter appunto raccogliere i conseguenti profitti. Come hanno rivelato svariate indagini dei media d’oltreoceano, d’altra parte, Goldman Sachs non appare l’unica istituzione finanziaria distintasi per tali manovre. Molte altre banche d’investimenti di Wall Street nel corso del boom immobiliare avevano predisposto titoli-spazzatura che, una volta, precipitati hanno consentito ad hedge funds (fondi speculativi) ad esse collegati di portare a casa miliardi di dollari.

La vicenda in corso negli Stati Uniti permette in ogni caso di gettare uno sguardo piuttosto approfondito su di un sistema finanziario distorto, fondato su pratiche speculative al limite della criminalità che hanno causato la più grave crisi economica mondiale dal secondo dopoguerra. La gigantesca truffa legalizzata, permessa dal progressivo allentamento dei vincoli normativi istituiti con il New Deal, che avevano garantito uno sviluppo economico relativamente stabile fino agli anni Ottanta, ha prodotto devastanti conseguenze sociali per le quali hanno sofferto e continuano a soffrire decine di milioni di cittadini americani che hanno perso casa, lavoro, risparmi o copertura sanitaria.

Se pure, come appare evidente, i vertici di Goldman Sachs e degli hedge funds coinvolti nella truffa erano a conoscenza dei sistemi adottati per ingannare gli investitori, l’indagine federale per ora non ha toccato nessun top manager. Nemmeno nominati nei documenti dell’inchiesta sono, ad esempio, l’amministratore delegato di Goldman, Lloyd Blankfein - beneficiario di un compenso di circa 100 milioni di dollari nel 2007 - o lo stesso architetto dell’operazione ABACUS, John Paulson, la cui compagnia ha riscosso quasi 3 miliardi di dollari nel 2007 e 2 miliardi nell’anno successivo, quando la crisi sarebbe scoppiata in tutta la sua gravità.

Immediatamente dopo l’apertura della causa ai danni di Goldman Sachs negli USA, i governi di Gran Bretagna e Germania hanno fatto sapere di volere a loro volta intraprendere azioni legali. The Royal Bank of Scotland e IKB Industriebank, entrambe salvate dal fallimento dai rispettivi governi, avevano infatti anch’esse subito pesanti perdite - circa un miliardo di dollari - in seguito all’acquisto dei titoli ABACUS originati dalla banca d’affari di Wall Street.

Le polemiche che imperversano negli Stati Uniti in questi giorni attorno a Goldman Sachs, intanto, stanno già per essere sfruttate negli ambienti politici, soprattutto democratici, in vista della stretta finale al Senato sulla riforma del sistema finanziario. Alla legge che la Camera dei Rappresentanti aveva approvato lo scorso anno si oppone in maniera pressoché totale l’opposizione repubblicana, per scalfire la quale viene allora strumentalizzata l’irritazione diffusa tra i cittadini americani nei confronti degli ambienti bancari. Per Obama e la sua amministrazione, l’intera vicenda appare insomma come una ghiotta occasione per incassare un secondo successo legislativo, dopo la recente approvazione della riforma sanitaria, nonostante la legge in discussione risulti ben lontana dal creare una regolamentazione efficace del sistema finanziario.

Per quanto riguarda il procedimento avviato dalla S.E.C., invece, molto difficilmente ci saranno conseguenze significative. Come già anticipato, i piani alti di Goldman Sachs non verranno sfiorati dall’inchiesta, la quale si risolverà, nella migliore delle ipotesi, in una multa di qualche milione di dollari, un importo irrisorio per una compagnia che ha fatto segnare utili per oltre 13 miliardi nel solo 2009. I legami di Goldman Sachs con la politica di Washington, e con la stessa Casa Bianca, sono d’altronde ben documentati. Un legame talmente saldo, al di là di qualche polemica pubblica, che garantirà a Wall Street di continuare a fare affari con ben pochi vincoli o regolamentazioni e senza dover rendere conto dei propri eccessi.

di Ilvio Pannullo

Mentre dall’altra parte dell’Atlantico già si parla di primi, timidi segnali di ripresa, nella vecchia Europa si continua a navigare a vista, nel mare delle conseguenze portate in dote dalla crisi. Negli Stati Uniti l’aumento dell’8% della compravendita di abitazioni - il migliore risultato da tre anni - e l’incremento di fatturato che le società di servizi stanno registrando, in percentuali che non ricordavano dal lontano 2001, fanno ben sperare. Anche l’occupazione cresce: ultimamente si sono registrati qualcosa più di 100 mila nuovi posti di lavoro.

Ovviamente non è molto rispetto al totale di quanti il lavoro l’hanno perso o continuano ad arrancare facendo lavori occasionali e sottopagati, ma è certamente un segnale di inversione di tendenza. Il presidente Obama, infatti, ha usato quest’ultimo dato per indicare la classica luce in fondo al tunnel, la metafora di una situazione ancora drammatica ma prossima alla fine. Anche se, volendo essere realisti, confrontando queste speranze con i dati macroeconomici da sempre legati all’analisi dell’economia americana, si potrebbe interpretarli più coerentemente come una boccata di ossigeno che salva dall’ipossia, piuttosto che il segno di una nuova fase di espansione economica. Più grave è la situazione dell’Europa.

Purtroppo per noi, infatti, le cose al di qua dell’oceano non lasciano neanche la speranza di poter, un giorno, tornare a sperare. In questi ultimi giorni stampa e televisioni “scoprono” improvvisamente ciò che si poteva agevolmente pronosticare oltre un anno fa. L’economia italiana, seconda solo a quella greca, è la peggiore dei paesi dell'Eurozona. L'inceppato meccanismo produttivo non riesce a sbloccarsi, “si è arenato soprattutto il Made in Italy”, ed arretra anche l’industria del turismo.

Rispetto ai numeri degli anni passati, solo fra i nostri connazionali oltre sei milioni hanno saltato la villeggiatura. Alla crisi dell’apparato produttivo si accoda pesantemente dunque anche quella del settore turistico con contrazioni ancora più marcate nei flussi esteri. La dubbia e timidissima ripresa economica che si cerca ora di accreditare ad ogni costo e strombazzata a ogni stormir di fronda, per ammissione delle stesse fonti ufficiali risulta in ogni caso molto al di sotto di quella avviata nei Paesi europei nostri concorrenti e questo contribuisce ancor più a divaricare la forbice delle rispettive velocità economiche.

In questi ultimi anni i blasonati economisti sia di area governativa che d'opposizione hanno fatto dunque cilecca. La progressiva rivalutazione dell’Euro rispetto al dollaro, la sistematica e prolungata riduzione del TUS americano - che ha preceduto di molto quella dell'Euro - la sistematica riduzione della circolazione monetaria nel mercato nazionale interno e nel pur vasto mercato europeo, la forsennata liberalizzazione dei mercati internazionali, doveva far comprendere immediatamente ai nostri fini politici e ai loro brillanti consiglieri economici, che il nostro paese sarebbe stato esposto ad una pressione costante e crescente, che non sarà in grado di sopportare ancora per molto.

Gli effetti di questa terapia, si sono infatti puntualmente verificati: improvvisa perdita di competitività sui mercati internazionali, Made in Italy in particolare, crollo dei flussi turistici internazionali, fuga delle aziende produttive dal nostro territorio. La manovra è stata assecondata con il fattivo apporto della BCE, l'unica ad avere competenza e capacità decisionali in materia monetaria a causa dell'insipienza/connivenza delle forze politiche europee e nostrane, colposamente responsabili della sottoscrizione del trattato di Maastricht. In questo scenario le aziende vanno, si de-localizzano, si trasferiscono all’estero e le nostre maestranze restano a guardare, a casa.

Il tutto in silenzio assordante da parte di associazioni di categoria, sindacati, partiti di governo e d'opposizione: nessuno deve parlare o affrontare simili spiacevoli argomenti. Le schiene incurvate dei media sono ovviamente allineate su queste posizioni. Il motivo ufficiale e ricorrente è, come al solito, solo quello economico: abbattere i costi con ogni mezzo per essere competitivi. Tutto risulta lecito: sacrificare per continuare a far incassare ai banchieri il pizzo sugli artificiosi indebitamenti, sia pubblici che privati, e le loro tangenti imposte al mercato su ogni movimento e su tutte le operazioni bancarie, divenute tra le più care al mondo. Disperazione per perdita di posti di lavoro, fallimenti a catena, suicidi per insolvenza, sono solo considerazioni fastidiose e conseguenze fisiologiche necessarie per fare avanzare globalizzazione e omologazione a tutti i costi. Dobbiamo essere tutti uguali, come in nuova visione, più eccentrica e sottile, dell’egualitarismo sovietico, ma del tutto priva di poesia e di speranza.

Pensare al futuro dell’Italia, potendo peraltro osservare quanto accade alla vicina Grecia, aggiunge nubi ad uno scenario già di per sé già tetro. Come già scritto precedentemente, osservare la Grecia di oggi aiuterà a capire l’Italia di domani, vista l’identità dei problemi e la triste somiglianza delle stesse soluzioni utilizzate. Pare, infatti, che alla fine l'Europa troverà un accordo su come salvare la Grecia dalla bancarotta. Anche se le istituzioni comunitarie continuano a muoversi in ordine sparso, con la sola Germania fare da guida.

Il consiglio europeo del 25 marzo, dove si sono riuniti i capi di Stato e di governo dei paesi membri (tra cui anche Silvio Berlusconi), ha raggiunto l'intesa su una bozza di piano di salvataggio. Si parla di un pacchetto di aiuti da 23 miliardi di Euro che dovrebbero prendere la forma di "prestiti bilaterali coordinati involontari" e a tasso agevolato (cioè da uno stato all'altro, senza mediazione comunitaria e senza alcun obbligo). Un piano di emergenza pronta scattare nel caso le aste del debito pubblico greco previste per maggio andassero deserte. Meno chiaro è cosa succederà se il governo di Atene fallisse nel tentativo di imporre un dimagrimento del deficit dal 12 all'8% in un anno che sta già causando tensioni sociali difficili da gestire.

Tutto a posto, quindi? Per nulla. Perché l'ipotesi che nel salvataggio sia coinvolto il Fondo Monetario Internazionale - istituzione considerata di matrice americana, anche se diretta da un francese - ha fatto perdere a Jean-Claude Trichet il suo abituale aplomb da presidente della Banca centrale europea. Il ricorso alla FMI, dice Trichet, è "molto, molto negativo". Sottinteso: la Banca Centrale Europea ha già dimostrato di saper gestire le crisi interne all'eurozona e può essere più efficace degli americani, per esempio annunciando (come ha recentemente affermato pubblicamente) che continuerà ad accettare come garanzia i declassati titoli del debito greco.

Ma questa non è la sola cosa che ha fatto infuriare Trichet. Non è una sorpresa che la cancelleria tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy abbiano ipotizzato di trasformare il consiglio europeo in un "governo economico" dell'Unione, che eserciti un ruolo maggiore nella "sorveglianza economica". Adesso però l’idea viene ripresa anche da altri - non ultimo il nostro Giuliano Amato - e la cosa certo non fa piacere al comandante in capo del Sistema Europeo di Banche Centrali. Una simile iniziativa significa, infatti, quasi soltanto maggiori pressioni sulla BCE, che vedrà ridursi il proprio spazio di autonomia, visto che per ora non c'è alcuna intenzione di elevare a livello europeo la politica fiscale o emettere quegli euroBond, titoli di debito europeo, che da anni invoca il ministro Giulio Tremonti.

Rimane quindi la speranza che da questa crisi esca un Europa più politica e più coordinata nella gestione del governo dell’economia, più forte dunque nell’affermare la propria voce sui desiderata dei banchieri. Forse è vero che non tutti i mali vengono per nuocere.


 

di Luca Mazzucato

New York. Le aziende hanno gli stessi diritti dei cittadini. Ma cosa succederebbe se le persone avessero gli stessi diritti delle aziende? Se queste ultime hanno recentemente ottenuto la libertà di parola sotto forma di contributi elettorali, allora è giusto che tutti noi possiamo disporre del nostro denaro come se fossimo delle banche. Il comico americano Jon Stewart ha raccontato la storia del tracollo di Lehman Brothers facendo un piccolo esperimento. In questo nuovo mondo, in cui le persone possono diventare aziende, l'attore cambia nome: non più Jon, ma il più accattivamente United Jonco International. Jonco sente il bisogno urgente di ottenere un prestito da un milione di dollari in contanti. Se Jon Stewart si presentasse allo sportello, gli verrebbe chiesta subito una solida garanzia: i banchieri sono dei veri professionisti.

La garanzia dell'azienda Jonco Int. è una Skoda dell'Ottanta, valore commerciale cento euro. Il finestrino è chiuso con il nastro adesivo, ma lo sguardo d'insieme è passabile, a parte qualche bozzo nella carrozzeria. Chiunque presentasse questa bagnarola come garanzia, verrebbe accompagnato velocemente alla porta. Ma Jonco è una corporation: le sue proprietà sono valutate da un'agenzia di rating.  Invece di Moody's, Jonco preferisce rivolgersi all'agenzia amica Jimmyco, suo cugino. Che gli valuta la Skoda ben tre milioni di dollari: l'ambito triplo AAA che tutte le banche vorrebbe avere.

La banca si fida dell'agenzia di rating ed eroga il prestito da un milione di dollari a Jonco. Un cittadino qualunque dovrebbe pagare fino al 30% di interessi su questo prestito, ma non Jonco: lui si può rivolgere allo sportello dedicato della Federal Reserve, che elargisce prestiti confidenziali al tasso di interesse pari a zero. Ma solo alle aziende. A questo punto Jonco si merita un bel bonus da un milione di dollari, come riconoscimento della fantastica operazione finanziaria. Altrimenti, senza bonus un genio come lui andrebbe subito a lavorare per la concorrenza.

Nessuno avrebbe mai potuto smascherare una truffa così sofisticata. Ma ora si è sparsa la voce che la Skoda è un po' ammaccate e i creditori picchiano alla porta. Per il semplice cittadino Jon si aprirebbero subito le porte del carcere: ma Jonco ha in serbo qualche altro trucco. Fonda una nuova compagnia, la Jon&Jon, che prontamente acquista la Skoda per due milioni e mezzo di dollari. Creare scatole cinesi per occultare i propri titoli tossici? Jonco è andato a scuola da Citigroup, una delle banche “troppo grandi per fallire.”

Ora Jonco vorrebbe incassare i soldi della sua Skoda, che gli è stata valutata due milioni e mezzo di dollari e che ha ceduto alla Jon&Jon. Niente di più facile: basta dare fuoco alla casa del vicino e riscuotere i soldi dell'assicurazione. Proprio così: Jonco ha assicurato una proprietà non sua, seguendo l'esempio di Goldman Sachs, che in questo modo ha provocato la bancarotta del gigante assicurativo AIG e sprofondato gli Stati Uniti nel caos.

Una giornata di duro lavoro per Jonco, che però rischia di perdere i propri soldi, se qualcuno si mettesse a fare domande sulla sua Skoda. Ma niente paura, c'è un ultimo regalo prima di tornare a casa: altri dieci milioni di dollari in contanti, grazie al piano di salvataggio finanziario del governo americano! Non sia mai che Jonco possa trovarsi a corto di denaro, l'economia nazionale ne risentirebbe. Così Jonco se ne va a festeggiare al bar con gli amici, a bordo della sua fantastica Skoda da dieci milioni di dollari.

Fuor di metafora, abbiamo riportato la vera storia del tracollo della banca d'affari Lehman Brothers, nel racconto di Jon Stewart. Solo adesso stanno venendo a galla le colossali frodi fiscali che gli spensierati manager della banca d'affari praticavano. Quindici miliardi di dollari in assetti finanziari basati sui mutui subprime, il cui valore sprofondò al punto da renderli invendibili: ecco l'ammontare del buco iniziale. Ogni trimestre, la banca faceva rapporto ai propri azionisti, ma la fantasia regnava sovrana. Subito prima della chiusura del trimeste, la Lehman prestava la montagna di titoli spazzatura in cambio di quindici miliardi di dollari in contanti, scritti a bilancio, per poi farsi restituire i rifiuti subito la fine del trimestre. Tutti i bilanci risultavano sempre in attivo, fino al fallimento improvviso. E nessuno aveva sospettato nulla.

di Ilvio Pannullo

L’aiuto che il primo ministro ellenico George Papandreu aveva invocato non è arrivato: la cancelliera Angela Merkel ribadisce la linea dura nei confronti di Atene, linea che ha impedito nell'ultima riunione dell'Eurogruppo e dell'Ecofin, il 15 e 16 marzo, la possibilità che si concretizzasse un piano di aiuti economici per il risanamento della Grecia. Il rigore teutonico si abbatte sull’esecutivo greco, cui tocca ingoiare un boccone che potrebbe, in un futuro non troppo lontano, rivelarsi fatale. Il dado è tratto: nessun aiuto economico alla Grecia unitamente alla minaccia di una possibile esclusione dall'area Euro di tutti quei Paesi che non rispettano ripetutamente i vincoli di bilancio imposti dai trattati.

Per quella che fu la culla della civiltà europea non poteva andare peggio. Il rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale appare ora l’unica alternativa possibile, sempre che all'ultimo momento non si trovi una soluzione europea, magari attraverso la Bce. La situazione greca dovrebbe allarmare non poco quegli stati che si trovano in una situazione economica analoga - i famosi “maiali” europei - il quartetto noto con l’acronimo P.I.I.G.S. e cioè Portogallo, Italia, Irlanda e Spagna. Capire quanto sta accadendo alla Grecia e come tutto questo si sia potuto verificare, è dunque di fondamentale importanza per evitare che si ripetano le stesse dinamiche, ma su paesi - come l’Italia e la Spagna - economicamente molto più pesanti sulla bilancia dell’economia europea.

Già si era detto dei rumori che imputavano alle grandi banche d’affari americane la colpa di aver truccato i conti pubblici all’ombra del Partenone. Adesso che anche la Banca Centrale americana, la Federal Reserve, denuncia le responsabilità di Goldaman Sachs nel taroccare il debito pubblico della Grecia, i rumori sono diventati fatti concretamente dimostrati. In una testimonianza davanti al Parlamento, il 25 febbraio 2010, il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha infatti detto: "Stiamo esaminando una serie di questioni relative alle operazioni di Goldaman Sachs e di altre aziende nel negoziare strumenti derivati con la Grecia". E dire che tra amici raramente ci si dà fastidio.

I fatti risalgono al 2001: la Grecia deve entrare nell'Euro e negozia con la banca d'affari più famosa del mondo, la Goldman Sachs, un contratto derivato, ossia uno strumento finanziario che ridistribuisce nel tempo gli oneri del debito pubblico, il tutto per rendere presentabili i suoi conti pubblici. La Grecia riesce così a rientrare nei parametri europei nascondendo a Bruxelles la reale fragilità delle sue finanze e Goldman intasca una commissione da trecento milioni di Euro. La banca d'affari non smentisce l'operazione, ma il 21 febbraio ha precisato che l'accordo con il governo greco rispettava "i principi fissati dall'Eurostat", il servizio statistico della Commissione europea.

Come sempre tutto viene fatto nel rispetto delle regole. Le stranezze, tuttavia, non finiscono qui: alquanto singolare infatti è la puntualizzazione fatta sul caso dalla Banca d’Italia, che sulla vicenda  de quo ha sentito la necessità di chiarire che il suo attuale presidente, Mario Draghi, vicepresidente di Goldman dal 2002 a 2005, non ha avuto alcun ruolo nell'operazione. Dicevano i latini excusatio non petita accusatio manifesta. Se è vero che in campo economico  la regola generale impone di non credere mai a nulla, fino a quando il nulla non viene ufficialmente smentito, questa precisazione aiuta a rafforzare la preoccupazione di quanti sono convinti che, nel mondo della finanza, la facile intercambiabilità tra ruoli pubblici e privati sia il segno evidente dell'esistenza di una cabina di regia occulta, la cui opera appare del tutto insindacabile e svincolata da qualsivoglia controllo di natura politica.

Ma questi sono problemi di ieri, anche l'interesse della Federal Reserve per la tenuta dei conti greci nasconde una preoccupazione più importante e drammaticamente attuale: il default dello Stato. Soltanto nei prossimi tre mesi Atene dovrà infatti rifinanziare qualcosa come 25 miliardi di Euro e non è affatto detto che troverà investitori interessati a scommettere sulla credibilità delle sue istituzioni. Dopo qualche giorno di tregua, infatti, da ieri i mercati finanziari hanno ricominciato a mettere sotto pressione i titoli di Stato greci. La task force di Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale, che ha da poco concluso la sua missione ad Atene, è arrivata alla conclusione che le misure di austerità previste dal governo greco non sono sufficienti: la richiesta perentoria delle istituzioni economiche internazionali è stata quella di trovare altri 4,8 miliardi di Euro.

Non sarà tuttavia facile visto che la Grecia ha già preso impegni giudicati dai mercati quasi impossibili da rispettare: secondo il piano proposto dal primo ministro socialista, George Papandreu, il feroce risanamento imposto al paese dovrebbe portare il rapporto tra deficit e Pil dal 13% attuale al 3% in soli tre anni. Un’impresa degna di Mago Merlino. Delle due l'una: o il piano si rivelerà credibile e sarà attuato con brutale rigore, oppure si rivelerà la mera descrizione di un sogno irrealizzabile ma comunque da realizzare. Autore del miracolo - a voler essere ottimisti - dovrebbe essere un paese caratterizzato da una corruzione endemica e da un'immane evasione fiscale, oramai funzionale alla stessa fisiologia del sistema economico greco.

In entrambi i casi le conseguenze per il popolo ellenico saranno disastrose, con tagli ai servizi pubblici che andranno a colpire la larghissima maggioranza dei quei cittadini appartenenti alla classe media, colpevoli soltanto di non aver potuto evadere la fiscalità generale accumulando indebitamente ricchezze che avrebbero potuto, in questo momento di difficoltà, garantirgli una possibilità di sopravvivenza.

La macelleria sociale di prossima attuazione è già nell'aria. Si susseguono ininterrottamente scioperi generali che hanno come unica conseguenza quella di aggravare la capacità produttiva di un paese oramai già in ginocchio. Tutti i segnali che provengono dalla società civile palesano ciò che agli analisti economici è evidente già da tempo: l'eventuale risanamento causerà inevitabilmente fortissime tensioni sociali e una recessione economica che potrebbero destabilizzare il governo. Anche per questa ragione alcune agenzie di rating cominciano a pensare di tagliare il giudizio di affidabilità del debito greco: qualora questo dovesse accadere, potrebbe diventare l'innesco della fase finale della crisi finanziaria.

Pierre Cailleteau, responsabile per i rating sovrani di Moody’s, in merito a questa possibilità ha detto: "Se in pochi mesi si dovesse vedere uno scostamento significativo rispetto al piano, allora è abbastanza probabile che dovremo aggiustare il rating  di conseguenza" e già oggi il giudizio sui titoli greci non è dei migliori, soltanto A2. Il tutto mentre Standard&Poor’s e Fitch, le altre due più importanti agenzie di rating, sono già più pessimiste e lo classificano come BBB+.

Intanto la borsa di Atene continua a perdere e dalla fine di febbraio registra chiaramente una tendenza ribassista. In questo scenario l'Euro vale quanto l'anello più debole della sua catena, appunto la Grecia, e diventa sempre più debole sia verso il dollaro che verso lo yen giapponese. Ad avvantaggiarsi di una maggiore competitività della divisa europea è quella stessa Germania cui la Grecia chiede una mano per risollevarsi dalle sue difficoltà economiche. La locomotiva tedesca guidata da Angela Merkel vede, infatti, le merci prodotte sul suo territorio diventare sempre più competitive sui mercati internazionali proporzionalmente all'indebolimento dell’Euro. Insomma per la Grecia e per i “maiali” europei tira aria di macello.


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