La Bce insegue i propri errori, ma non li raggiunge. Dopo aver sbagliato le previsioni sull’inflazione - che si è rivelata ben più alta e stabile delle attese - l’istituto centrale ha varato una stretta monetaria in due fasi. Prima ha chiuso, come stabilito da tempo, tutti i programmi di acquisto titoli (sia quello emergenziale, il Pepp, sia quello ordinario); poi ha annunciato due rialzi dei tassi d’interesse, uno a luglio e uno a settembre, precisando che, a seconda di quale sarà l’andamento dei prezzi, nei mesi successivi saranno possibili ulteriori aumenti del costo del denaro.

Negli Stati Uniti, il mostro dell’inflazione ha ruggito come non faceva da più di quarant’anni. L’indice dei prezzi al consumo di maggio, pubblicato venerdì, ha segnalato un aumento dell’8,6%, contro il +8,2% previsto in media dagli analisti. È il livello più alto dal dicembre del 1981. Quando si parla di inflazione negli Usa, peraltro, bisogna tenere presente che il fenomeno è diverso da quello registrato in Europa, in quanto meno legato ai prezzi energetici e, in prospettiva, ben più pericoloso e difficile da sconfiggere. Lo testimonia il dato relativo all’inflazione di fondo (“core”), depurata cioè dai prezzi più volatili (alimentari ed energia), che è comunque molto alto: +6%, un decimo oltre le attese. 

L’effetto di questi numeri sulla Borsa non si è fatto attendere. Wall Street ha fatto segnare la seduta peggiore delle ultime tre settimane: S&P500 -2,9% e Dow Jones -2,7%. Ancora peggio il Nasdaq: -3,5%.

A questo punto, il mercato teme che la Federal Reserve - il cui braccio operativo (Fomc) si riunirà mercoledì per decidere sui tassi - possa decretare una stretta monetaria più pesante del previsto per contrastare l’aumento dei prezzi, rischiando però di affossare il Pil.

“Correlation is not causation”, dicono gli scienziati. Ovvero, la correlazione non implica un legame di causalità: in assenza di prove certe, “dopo di” non vuol dire “a causa di”. Questa massima accademica può essere riportata anche a un’equazione molto diffusa negli ultimi tempi: “Siccome l’inflazione corre ora che c’è la guerra - è il ragionamento - vuol dire che è stato proprio il conflitto a innescare l’impennata dei prezzi”. La deduzione fila, ma è sbagliata. E neanche di poco.

La guerra in Ucraina ha già danneggiato l’economia italiana, ma la situazione rischia di peggiorare. E non poco. Secondo una recente analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il nostro Paese subirebbe una perdita aggiuntiva pari a un punto di Pil nel 2022 e a mezzo punto nel 2023 se la guerra proseguisse fino alla fine della primavera, per poi lasciare spazio a un percorso di normalizzazione esteso al resto dell’anno. Lo stesso scenario avrebbe conseguenze anche sull’inflazione, che aumenterebbe di un punto percentuale in più sia quest’anno sia il prossimo.

Il conto della guerra sarebbe quindi molto salato anche ipotizzando una durata del conflitto relativamente breve.

Gli Stati Uniti stanno spingendo la Russia verso un default artificiale. Di norma, quando uno Stato non paga i propri debiti, le ragioni possibili sono due: non ha abbastanza risorse per farlo oppure le ha ma non intende usarle per soddisfare i creditori. Nel caso di Mosca, invece, la bancarotta è forzata dall’esterno.

Washington ha deciso infatti di bloccare le operazioni di uno dei suoi colossi finanziari, JP Morgan, la banca che ha il compito di gestire i pagamenti dei titoli di Stato russi emessi in dollari. La questione è tecnica, per cui occorrono alcune precisazioni.

Nell’ambito delle sanzioni varate per punire l’invasione dell’Ucraina, gli oltre 600 miliardi di dollari in asset esteri detenuti dalla Banca centrale russa sono già stati congelati, almeno nella parte su cui hanno giurisdizione le banche centrali occidentali.


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