Le prime volte era un colpo di scena, ormai è una tradizione. Come ogni anno, la Commissione europea ha qualcosa da ridire sul progetto di legge di Bilancio presentato dall’Italia. In particolare, Bruxelles ci rimprovera di non rispettare gli impegni sulla riduzione del debito e del deficit strutturale, ma rimanda la valutazione decisiva alla primavera del 2018, cioè a dopo le elezioni. Solo allora conosceremo la pagella finale sul debito, che secondo le autorità europee rimane “fonte di preoccupazione”.



Per il momento il Tesoro ha ricevuto dalla Commissione soltanto una lettera, l’ennesima. Nel testo – spiega il commissario Ue agli Affari economici, Pierre Moscovici – si ravvisa che per l’anno prossimo l’Italia prevede una correzione del deficit strutturale pari allo 0,1%, mentre servirebbe “uno sforzo dello 0,3%”. Questo significa che il prossimo governo, se mai ci sarà, rischia di iniziare il proprio mandato con una manovrina correttiva da circa 3,5 miliardi di euro.

Schermaglie simili fra Roma e Bruxelles fanno parte ormai di un rituale ciclico, che si ripete eternamente come il volgere delle stagioni. Non serve nemmeno uno sforzo di memoria eccessivo per ricordare l’ultimo episodio della saga. Lo scorso 27 ottobre la Commissione aveva già inviato al ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, una lettera in cui lamentava che la correzione strutturale era inferiore allo 0,3% dichiarato, peraltro già frutto di uno sconto rispetto allo 0,6% richiesto dalle regole europee. Il Tesoro aveva risposto contestando il metodo di calcolo dell'output gap, ovvero la differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale, che porterebbe a stime non plausibili per l'Italia.

Stavolta però, visto l’approssimarsi del clima natalizio, la letterina di Bruxelles contiene anche un altro regalo: l’ammonimento a non vanificare “le importanti riforme strutturali” varate fin qui, a cominciare da quella delle pensioni, “che supporta la sostenibilità a lungo termine del debito italiano”.

La Commissione fa riferimento alle polemiche delle ultime settimane, con i sindacati che chiedevano al governo di cancellare l’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, meccanismo che dal 2019 alzerà per tutti l’asticella a 67 anni. L’esecutivo ha portato Cisl e Uil ad accettare come compromesso un nuovo pacchetto di misure previdenziali da inserire nella legge di Bilancio, mentre la Cgil ha continuato a protestare.

Poi però il governo si è rimangiato, almeno per ora, una parte delle promesse. Nell’emendamento alla manovra presentato la settimana scorsa non c’è traccia del fondo per estendere l’Ape social né dello sconto contributivo per le donne da sei mesi “fino ad un anno per ogni figlio”, sempre e solo per le lavoratrici che rientrano nell’Ape social. Si tratta di “punti presenti nel documento di impegno del governo ai quali teniamo molto e che dovranno essere oggetto dell’esame alla Camera”, si è difesa la presidente della commissione Lavoro a Montecitorio, la democratica Annamaria Parente.

Intanto, i partiti hanno iniziato l’assalto alla diligenza. La legge di Bilancio conterrà anche il decreto milleproroghe, il minestrone di fine anno con cui si approva di tutto un po’ mentre il Paese è distratto dalle feste. Perciò la manovra sarà l’ultimo provvedimento utile per far passare misure da spendere poi in chiave elettorale. Negli ultimi giorni, ad esempio, gli alfaniani hanno imposto al governo di rifinanziare per tre anni il bonus bebè, mentre Campo progressista e parte del Pd si sono scagliati contro il superticket sanitario.

Ciascuno di questi interventi sposta risorse significative e non è ancora chiaro dove saranno pescate. Di sicuro c’è che il rimbrotto di Bruxelles faceva riferimento al testo originario della manovra, varato dal governo prima delle trattative con sindacati e partiti. Di conseguenza, alla fine i saldi rischiano di essere addirittura peggiori di quelli valutati dalla Commissione europea. Non resta che aspettare la prossima lettera.

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