L’obiettivo è giusto: ridurre il precariato. I mezzi scelti per perseguirlo, tuttavia, si riveleranno certamente inefficaci. Dopo lo tsunami di numeri che ha certificato il fallimento del governo Renzi sul tema del lavoro, finalmente il governo Gentiloni decide di fare qualcosa per mettere una toppa sul buco che da 10 anni disperde le energie del nostro Paese.

 

 

Purtroppo si tratta di un rimedio assai timido, poco più di un palliativo. Con un emendamento alla legge di Bilancio, l’Esecutivo intende correggere il decreto Poletti del 2014. Si tratta del provvedimento che ha liberalizzato i contratti a termine, tornati a impennarsi dopo la fine del bonus assunzioni renziano. Qualcuno ancora crede che il Jobs Act abbia fatto gli interessi dei lavoratori, ma la verità è che nel 2017 circa il 70% delle nuove assunzioni è a tempo determinato.

 

Per correggere questa tendenza, l’emendamento riduce la durata massima dei contratti a tempo determinato da tre anni a due e il numero delle proroghe possibili da cinque a tre. La segretaria della Cgil, Susanna Camusso, accoglie queste novità come un “segnale positivo”. Confindustria invece protesta, ma viene accontentata su due fronti.

 

Primo, l’entrata in vigore sarà graduale, perché le nuove norme si applicheranno solo ai nuovi contratti stipulati dal primo gennaio 2018 in poi. Per i rapporti di lavoro già in essere, invece, continueranno a valere le vecchie regole: durata di 36 mesi e cinque rinnovi.

 

Secondo, rimane l’acausalità dei contratti. Significa che quando le aziende assumono un dipendente precario non devono indicare la mansione che intendono assegnarli. Sembra un dettaglio, ma non lo è, perché di fatto discrimina i precari permettendone il demansionamento, che invece è proibito dal Codice Civile per i lavoratori di Serie A. Insomma, le aziende sono al riparo da cause di lavoro che altrimenti perderebbero.

 

Domanda: tutto questo basterà a invertire la tendenza che vede il lavoro precario continuare a salire e quello stabile diventare sempre più raro? Risposta: no. Nella migliore delle ipotesi queste misure saranno largamente insufficienti. Nella peggiore potrebbero perfino causare un paradossale aumento della precarietà.

 

Partiamo dallo scenario più nero e guardiamo la questione dal punto di vista dell’azienda. Se i contratti a termine (economicamente più convenienti) possono durare meno di prima, ha due opzioni: stabilizzare i lavoratori precari offrendo loro un contratto per l’azienda più caro, oppure salutare i vecchi dipendenti e assumerne di nuovi per ricominciare il ciclo di 24 mesi e tre rinnovi. Nel caso di personale altamente specializzato la valutazione è influenzata anche da altre variabili, altrimenti non c’è dubbio: conti alla mano, gli conviene la seconda opzione. È così che il numero assoluto dei precari rischia di aumentare: riducendo la durata dei contratti, il lavoro a termine potrebbe essere ripartito tra un maggior numero di persone.

 

D’altra parte, già oggi i contratti a tempo che durano più di due anni non superano il 10% del totale, mentre quelli che vanno oltre le tre proroghe sono appena il 5%. Il vero nemico non è perciò la durata dei rapporti di lavoro a termine, ma il loro costo.

 

Secondo uno studio della Uil, il contratto a tempo dovrebbe costare il 10% più dell’indeterminato (e non solo il 6% come oggi), perché in questo modo le aziende risparmierebbero 2.300 euro l’anno su uno stipendio medio e ciò le indurrebbe ad aumentare il numero delle assunzioni stabili. È la convenienza economica a fare la differenza, non altro.

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