Per chi conoscesse poco il nostro Paese, la manovra varata la settimana scorsa dal Parlamento potrebbe funzionare da corso accelerato di italianità. Per come è andata a finire, verrebbe da pensare che il relatore del provvedimento sia Brancaleone da Norcia, disposto a imbarcare chiunque nella sua armata per affrontare le crociate.

 

 

Partiamo dai numeri. La versione della legge di Bilancio proposta dal Governo lo scorso 17 ottobre era composta da 120 articoli e valeva poco più di 20 miliardi. Al Senato i commi sono diventati 700, mentre nel passaggio alla Camera sono lievitati addirittura a 1.247. E il valore complessivo ha raggiunto quota 27,8 miliardi.

Bene – viene da pensare – avranno aumentato gli investimenti per la crescita. Nemmeno per sogno. A far ingrassare la manovra come un bue è stata un’alluvione di misurine elettorali dalla rilevanza infima. Ci sono perfino stanziamenti da 100mila euro. Come a dire che abbiamo infilato nella legge di Bilancio gli spicci per la merenda. Solo che le merende da pagare erano tante.

 

Ma in verità questa non è una semplice manovra. Visto che a breve il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scioglierà le Camere, non c’era tempo per farcire il Milleproroghe, l’imbarazzante decretone in cui alla fine di ogni anno s’infila un po’ di tutto mentre l’Italia è distratta dal panettone. Non era nemmeno possibile varare altri provvedimenti elettorali e così si è scelto di accatastare tutto nella manovra. Un po’ come Babbo Natale, che fa entrare tutti i regali del mondo in un sacco solo. 

 

Si va da proroghe e stanziamenti per realtà ultra-locali, utili a chi deve ingraziarsi il collegio dove intende ricandidarsi, fino alla riedizione dei vari bonus a pioggia, vera stella polare della politica economica al tempo di Matteo Renzi. Che tu sia un centralinista o un notaio, non fa differenza: il tuo voto vale sempre uno, quindi a te come a tutti gli altri va la stessa cifra, senza distinzione di reddito. E poco importa che il bonus per i 18enni sia stato un flop: ci sono le elezioni, perciò vale la pena di rinnovarlo comunque.  

 

Gli interventi per la crescita, invece, sono rimesti a quota 5,5 miliardi. In questo capitolo la maggior parte delle risorse (1,6 miliardi) è destinata al rinnovo del contratto degli statali. Poi ci sono vari mini-interventi per scuola, famiglie e poveri. Infine le due uniche misure per lo sviluppo: la decontribuzione per le assunzioni dei giovani (l’unico modo che la Renzinomics contempla per far salire l’occupazione stabile) e i superammortamenti per le aziende che investono in tecnologia.

 

Il grosso della manovra (15,7 miliardi) serve a disinnescare le clausole di salvaguardia che dal primo gennaio avrebbero fatto scattare il rialzo dell’Iva al 25%. Ma in realtà non abbiamo disinnescato un bel niente. Come al solito, il problema è solo rinviato e si ripresenterà tale e quale a fine 2018, imponendo al prossimo governo di trovare altri 12,5 miliardi. Soldi che si sommeranno alla nuova manovrina di primavera, visto che da Bruxelles hanno già avvertito che entro marzo-aprile dovremo varare un ulteriore correttivo da circa 3,4 miliardi, lo 0,2% del Pil.

 

Insomma, a conti fatti ci ritroviamo con una manovra monstre che non risolve nessuno dei problemi contabili del nostro Paese e che dà un impulso minimo alla crescita. In compenso risolve problemi, problemini e problemucci delle varie consorterie preoccupate solo di rastrellare voti in vista delle elezioni. Poi domani si vedrà. In fondo, alla fine, Brancaleone un modo per cavarsela lo trova sempre.

 

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