di Eugenio Roscini Vitali

«La soluzione della crisi in Kashmir riguarda solo India e Pakistan che hanno interesse alla stabilità nella regione. Gli Stati Uniti non possono imporre una loro soluzione ma intendono facilitare il raggiungimento di un intesa»: è questo in pratica il risultato finale della visita in India del presidente americano Barak Obama, di quel leader democratico che prima delle elezioni del 2008 aveva detto al mondo che l’autodeterminazione di una delle zone più militarizzate del pianeta sarebbe stato uno degli obbiettivi principali della sua amministrazione.

A Nuova Delhi il capo della Casa Bianca ha invece parlato di lotta al terrorismo e di relazioni fra Usa e India e davanti al Parlamento ha annunciato il pieno sostegno Usa all’ingresso dell’India nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu come membro permanente. Non una parola sulla violazione dei diritti umani nel Kashmir, sulla sorte delle donne nei villaggi sperduti dove ci sono più soldati che civili, sui soprusi, gli interrogatori, gli arresti illegali e le torture, sulle migliaia di persone “scomparse”, sul coprifuoco permanente, la censura e le pallottole contro i manifestanti, sul futuro di una regione abitata per il 75% da musulmani e di una Vallata avvelenata dalla presenza di mezzo milione di soldati.

Negli ultimi anni in Kashmir il dominio militare indiano ha prodotto due facce della stessa medaglia: da un lato ha fiaccato la lotta armata portata avanti dai guerriglieri separatisti con il sostegno del Pakistan e ha ridotto, secondo il ministero degli Interni indiano, i militanti a meno di 500; dall’altro ha rafforzato la frangia più dura del movimento All Parties Hurriyat Conference (Aphc), l’organizzazione fedele al vecchio patriarca della resistenza kashmira, l’ottantatreenne Syed Ali Shah Geelani, e ha dato coraggio ai giovani che da tre anni a questa parte manifestano in piazza contro quella che considerano una “occupazione violenta”.

La rabbia della generazione cresciuta nella guerra sta però facendo i conti con una repressione diventata sempre più dura e sanguinosa: solo negli ultimi mesi sono state uccise 111 persone e si sono registrati più di tremila feriti e quasi mille arresti, soprattutto giovani non organizzati che rappresentano se stessi e che, impugnando pietre, affrontano i reparti antisommossa dell’esercito indiano.

La nuova intifada kashmira è iniziata l’11 giugno scorso, con la morte di un ragazzo che tornava da scuola, colpito da un candelotto sparato a distanza ravvicinata dai militari impegnati nel fronteggiare la manifestazione anti-indiana che si stava tenendo nei pressi dello stadio di Rajouri Kadal. La rabbia per l’omicidio dello studente si è andata a sommare a quella per i trasportatori uccisi a maggio dai reparti antiterrorismo lungo il confine pachistano.

Da allora il coprifuoco è stato esteso a quasi tutta la Valle e gli arresti e le uccisioni di civili disarmati non si sono più fermate; Nuova Delhi sospetta che tra i registi della protesta ci sia il Lashkar-e-Taiba (LeT), l’Esercito dei puri, il gruppo terroristico legato ad Al Qaeda e al Movimento della Jihad Islamica, accusato dall’India di aver organizzato gli attentati di Mumbai, ma secondo gli esperti la rivolta kashmira è solo una forma di protesta spontanea ed indipendente.

Sui fatti di Mumbai ci sono poi non poche zone d’ombra. E’ noto, infatti, che tra gennaio e giugno del 2008 i funzionari dell’intelligence statunitense avrebbero avvertito la controparte indiana circa una possibile azione terroristica contro obbiettivi occidentali in India e che, nel mese di settembre, un altro monito degli Stati Uniti avrebbe obbligato gli agenti dell’antiterrorismo indiano a rinforzare  le misure di sicurezza dell’Hotel Taj Mahal.

La fondatezza delle ipotesi americane sarebbe stata poi confermata dall’MI5 britannico, che alcuni mesi dopo l’attentato del 26 novembre 2008 avrebbe segnato alla CIA il nome di un presunto terrorista in contatto con una cellula di Al Qaeda in Europa: David Headley, al secolo Daood Gilani, un uomo d’affari statunitense poi rivelatosi militante di Lashkar-e-Taiba. Una volta arrestato, David Headley avrebbe confermato di essersi incontrato più volte con il referente di Lashkar-e-Taiba a Karachi; con lui avrebbe organizzato la squadra responsabile dell’operazione costata la vita a 175 persone. Un massacro che, nonostante gli avvertimenti americani, ha colto impreparate le forze di sicurezza indiane.

Nonostante i numeri ufficiali, negli ultimi vent’anni in Kashmir la causa separatista ha fatto quasi 30 mila desaparesidos e 70 mila vittime: uomini, donne e ragazzi morti nei combattimenti o nelle rivolte che hanno infiammato le strada di Srinagar o vittime delle torture subite in carcere o scomparse nel nulla. La fase di radicalizzazione dei musulmani indiani non è però solo una questione kashmira; nel 2002 i pogrom anti-islamici avvenuti nello Stato indiano del  Gujarat causarono 2.000 vittime e quasi 200 mila profughi.

Una strage partita da lontano, dalla spirale di violenza iniziata nel 1992 con la distruzione della moschea  Babri Masjid di Ayodhya, dove l’anno precedente i  kar sevak, espressione dell’ala extraparlamentare del movimento fondamentalista indù, avevano ucciso non meno di 600 musulmani.

Oggi l’intifada kashmira è nelle mani dalle generazioni nate e cresciute dopo i massacri degli anni ‘90, migliaia di ragazzi delle scuole medie e superiori e bambini delle elementari che al grido di “Quit India movement” sfilano per le strade di Srinagar con le madri e le sorelle. I nuovi martiri dell’indipendenza sfidano le pattuglie e gli odiati bunker disseminati lungo gli incroci della capitale sapendo che i tempi della rivolta saranno ancora lunghi e che ad ogni manifestazione seguirà una morte, un funerale e poi una nuova manifestazione, una nuova vittima e un nuovo funerale.

Ma sanno anche che il destino del Kashmir dipende da loro e che, come ha scritto sul New York Times la scrittrice paladina dell’autodeterminazione kashmira, Arundhati Roy, “né il silenzio di Obama né un suo intervento indurranno il popolo del Kashmir a mollare le pietre che serrano in pugno”.

 

 

di Carlo Musilli

Un piano quadriennale per andar via dall'Afghanistan. Secondo fonti del New York Times, è questo il documento che sarà presentato al termine del prossimo vertice Nato in programma a Lisbona da oggi al 21 novembre. Negli ultimi giorni, la nuova strategia di "lungo termine" è stata confermata negli Stati Uniti dal segretario alla Difesa Robert Gates, dal segretario di Stato Hilary Cinton e dal capo di Stato Maggiore Mike Mullen.

Si tratterà di trasferire i compiti di sicurezza alle forze afgane regione per regione, un processo che durerà dai 18 ai 24 mesi. L'obiettivo è di rafforzare l'esercito di Kabul portandolo da 264mila a 350mila uomini entro il 2013. In ogni caso, il ritiro delle truppe di combattimento Isaf non sarebbe praticabile prima della fine del 2014. E anche dopo quella data alcuni contingenti rimarrebbero nel Paese con missioni tecniche e di addestramento.

Nel frattempo continua l'escalation, o "surge", come si dice. Sotto la presidenza Obama le truppe americane in Afghanistan sono triplicate e arriveranno al massimo dello schieramento soltanto nelle prossime settimane. Questo significa che la guerra si farà molto più dura nei prossimi mesi, nella speranza che la situazione migliori abbastanza da poter iniziare il lungo cammino di "phase out" a partire dal luglio 2011.

Quest'ultima data, ormai più di un anno fa, era stata indicata da Obama come termine per l'inizio effettivo del ritiro. Oggi il governo Usa si arrampica sugli specchi, sostenendo che le parole del Presidente erano state "forzate", "mal interpretate". In realtà, da molto più di un anno è chiaro a tutti che il 2011 non è una data realistica per tornare a casa. All'epoca Obama aveva bisogno di tranquillizzare alleati e base elettorale.

Oggi invece, si tratta di rassicurare gli afgani, spaventati all'idea di essere abbandonati l'estate prossima, e al contempo avvertire i Talebani che la guerra contro di loro non è destinata a finire entro breve. Nel complesso, la strategia che si immagina di seguire in Afghanistan è molto simile a quella già sperimentata in Iraq: "surge", (formale) trasferimento di consegne alle truppe locali, (finto) ritiro. Ricordiamo che, a guerra finita, sul suolo iracheno sono ancora presenti 50mila soldati americani.

Curiosamente, il piano arriva proprio in uno dei momenti di massima tensione fra gli Stati Uniti e il governo afgano. In una recente intervista al Washington Post, infatti, il presidente Hamid Karzai ha chiesto "una riduzione delle operazioni militari e del numero di soldati americani" in Afghanistan, perché "non è desiderabile avere 100mila o più soldati stranieri che vanno in giro senza fine nel Paese, deve esserci un piano interno secondo cui aumenti la presenza afgana e diminuisca quella Nato". Sennonché, proprio Karzai, esattamente un anno fa, durante il discorso di insediamento, aveva indicato il 2014 come il termine più adeguato per il definitivo trasferimento di responsabilità alle truppe di Kabul.

Considerato quanto sta per essere annunciato a Lisbona, le parole del presidente afgano hanno infastidito non poco la Casa Bianca. Al punto che il generale Petraeus, comandante delle truppe Isaf, ha minacciato di dimettersi nel caso in cui non fossero garantite alle truppe Usa e Nato le condizioni migliori per proseguire con le operazioni militari. Mai bluff fu più scoperto. Ma che Superman-Petraeus abbia bisogno di bluffare è piuttosto significativo.

Per quanto riguarda l'Italia, di fronte alle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha detto che la zona di Herat potrà essere riconsegnata alla responsabilità degli afgani a partire dal 2011, ma ci vorrà più tempo per le altre aree occidentali poste sotto la responsabilità italiana. "Tutto è relativo alla misurazione dei risultati che conseguiremo sul campo", ha spiegato La Russa. Secondo il ministro degli Esteri Franco Frattini, invece, bisognerà evitare di fornire dettagli sul ritiro delle forze Nato in Afghanistan per non fornire informazioni che possano aiutare i Talebani a organizzare nuovi attentati.

Già, i talebani. Cosa pensano di tutto questo? Il Mullah Omar ha diffuso un messaggio in cui fa sapere di non essere granché spaventato. Non ci sarà mai alcun negoziato di pace perché "stiamo vincendo - dice - e presto estenderemo la lotta a tutto il Paese". In effetti, anche se oggi si sente il bisogno di parlare di ritiro, il 2010 è stato l'anno più nero per le truppe Nato dall'inizio della guerra. Sono morti 663 soldati, mentre le vittime civili sono aumentate del 30%. "Il momento della sconfitta degli invasori si è avvicinato - continua Omar - il nemico si sta ritirando ed è assediato".

 

di Carlo Musilli

Aung Sang Suu Kyi non è stata liberata in quanto prigioniera politica illegalmente detenuta. Ha semplicemente finito di scontare una pena assurda, la cui durata era stata calcolata dal regime militare birmano con una precisione chirurgica. I generali avrebbero potuto inventare qualche pretesto per tenerla ai domiciliari chissà per quanti anni ancora. Se non l'hanno fatto, significa che non lo ritenevano conveniente. A loro serviva liberare Suu Kyi proprio in questi giorni.

L'eroina dell'opposizione birmana, icona nel mondo della lotta per la democrazia, ha rimesso piede fuori dalla sua casa-prigione appena in tempo per non disturbare le elezioni della settimana scorsa, che hanno consegnato all'Usdp (il partito della giunta) una quantità di seggi fra l'80 e il 90%.

Un plebiscito ridicolo, figlio dell'illegalità più assoluta, che sarebbe stato ostacolato dai discorsi universalistici e pieni di speranza di Sang Suu Kyi. Quelle stesse parole, invece, appena qualche giorno dopo diventano uno strumento fondamentale per i militari.

Non solo la liberazione della Signora (com'è chiamata dai suoi connazionali) distoglie l'attenzione del mondo dalle famose elezioni che, almeno per i prossimi cinque anni, consentiranno al regime di tenere stretta la morsa sulla Paese. C'è di più. La giunta ha acquisito nelle ultime due settimane un credito mai avuto prima d'ora.

In tutto il mondo si scrivono titoli accostando le parole "libertà", "Birmania", "democrazia", "Myanmar". Nel frattempo i grandi canali mediatici si scordano di andare a vedere come siano andate a finire le elezioni. La notizia ormai è superata.

Intendiamoci, nessuno al mondo crede davvero che in Birmania esista uno stato liberale. Chiunque si rende conto che il voto dello scorso 7 novembre è stato una farsa. Ma il regime è riuscito comunque a indicare all’opinione pubblica internazionale la via dell'illusione.

La liberazione di Suu Kyi ha suscitato il sentimento di un lieto fine possibile, se non già scritto. Si sente parlare di "inizio di un percorso", di "una data che verrà ricordata", di "transizioni realizzabili". Intanto gli uomini della giunta mettono in soffitta le divise militari e indossano democratici completi di taglio occidentale. Doppiopetti. Ecco l'unica vera novità in Birmania.

Il segretario generale di Amnesty International Salil Shetty ha fatto notare che nel Paese "ci sono ancora più di 2.200 prigionieri politici, condannati sulla base di norme vaghe, utilizzate sovente per criminalizzare il dissenso politico e detenuti in condizioni agghiaccianti, con cibo e servizi inadeguati e senza cure mediche.

Molti di essi sono stati torturati durante gli interrogatori e subiscono ancora torture da parte del personale penitenziario". L'organizzazione Human Rights Watch ha invece definito la liberazione di Sung Kyi "uno stratagemma cinico del governo militare. Se vogliono realmente allargare lo spazio politico dopo le elezioni, allora liberino tutti i prigionieri politici".

Il regime ha perfino cercato di disinnescare la Signora, suggerendole di tenere un profilo basso dopo la liberazione. Va bene il clamore dei sostenitori, la commozione, la retorica mediatica. Ma la politica, quella no. Naturalmente Suu Kyi, che ha passato in reclusione 15 degli ultimi 21 anni, non ha accettato nessuna condizione. Parlerà eccome, cercando di dare alla sua gente una speranza, qualcosa di più concreto di un'illusione.

Per farlo avrà bisogno di riportare in politica la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito che lei stessa fondò più di 20 anni fa.

Oggi l'Nld è una formazione illegale, perché i suoi rappresentati hanno boicottato le ultime elezioni per non presentarsi con un leader diverso da Suu Kyi. Secondo la recente legge elettorale birmana, infatti, i partiti non possono essere guidati da persone con precedenti penali.

Nonostante tutto, le forze di sicurezza della giunta militare sono state abbastanza intelligenti da non intervenire quando, davanti a una folla di 40mila persone, la Signora ha tenuto il suo primo comizio da donna libera. "La mia voce, da sola, non è democrazia - ha spiegato Suu Kyi - niente può essere raggiunto senza la partecipazione della gente: dobbiamo camminare insieme, senza perdere la speranza, senza farci scoraggiare".

"Non credo che l'influenza e l'autorità di una sola persona possano far progredire un Paese. Una persona da sola non può fare qualcosa di così importante come portare la democrazia in un paese". E soprattutto, "se il mio popolo non è libero, come potete dire che io sono libera? Nessuno di noi è libero".

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. All’indomani dell’approvazione dell’impopolare riforma sanitaria, la Germania si trova ad affrontare un'altra vicenda poco rassicurante in materia. Un gruppo farmaceutico, specializzato nella produzione di medicamenti contro la schizofrenia, collaborerà dal prossimo anno con la cassa mutua della Bassa Sassonia (Nord della Germania) per il trattamento di pazienti schizofrenici. Un progetto che farà sicuramente risparmiare denaro allo Stato federale, ma che potrebbe costituire l’inizio di un’insana liberalizzazione del sistema sanitario.

L’apparato sanitario tedesco è finanziato da un sistema di casse mutue semipubbliche, o Krankenkasse, cui lavoratori e datori di lavoro versano i propri contributi tramite busta paga. I fondi a disposizione delle casse sono poi ridistribuiti per garantire che le risorse siano stanziate in modo equo: le singole casse mutue rimborsano i medici e gli ospedali secondo l’attività effettivamente svolta. E quando le casse facciano fatica a sostenere i costi, è lo Stato, assieme ai singoli Laender, a dover intervenire. In questo senso, nel 2010 la Germania si è trovata ad affrontare un deficit della sanità pubblica di ben 11 miliardi di euro.

Per risanare la voragine, il Governo di Angela Merkel (CDU) ha varato in questi giorni la tanto controversa riforma sanitaria. Dopo mesi di accese polemiche, i liberali e i cristiano democratici si sono accordati per un aumento del contributo obbligatorio. Dall'attuale 14.9% del salario si passerà al 15.5%: ai lavoratori dipendenti spetterà l’8.2% della quota, mentre sui datori graverà il 7.3% dell’assicurazione sanitaria. Una soluzione che non ha mancato di destare l’imbarazzo di sindacati e opposizione.

Le brutte sorprese, tuttavia, non sono ancora finite. A offuscare il panorama del sistema sanitario tedesco c’é anche lo spettro dell’assistenza integrata, un modello di previdenza sanitaria che verrà applicato nella Bassa Sassonia a partire dal 2011. Presentato come semplice esperimento, qualcuno teme già che si possa trattare di un progetto pilota. E il risultato dell’applicazione su scala nazionale sarebbe una sanità liberalizzata subordinata alle grosse case farmaceutiche.

Il programma di assistenza integrata prevede la collaborazione tra una srl a gestione imprenditoriale (I3G) e la AOK, una tra le più importanti casse mutue della Germania federale, per il trattamento di 13mila pazienti affetti da schizofrenia. I3G gestirà un’associazione di medici, cliniche e centri di riabilitazione che coopereranno fra loro in maniera sistematica per occuparsi in tutto e per tutto dei malati in questione. Oltre alla responsabilità qualitativa dell’assistenza medica, I3G si assumerà anche le spese totali delle cure dei suoi affiliati.

Grazie alla serrata collaborazione tra specialisti si eviteranno visite non necessarie, sostengono i promotori dell’iniziativa, così da rendere l’apparato sanitario più snello ed efficiente e ridurne i costi. Con gli accertamenti non necessari, tuttavia, va perso anche il confronto tra pareri medici. E ai più viene ancora difficile immaginarsi che I3G possa agire nel puro interesse del cittadino: il progetto assomiglia a una privatizzazione che trasforma il sistema sanitario in un monopolio di mercato per le case farmaceutiche.

I3G è una società totalmente affiliata al gruppo farmaceutico Janssen- Cilag GmbH, che ha sede nel Nord Reno - Vestfalia (Germania dell’Ovest). Le due aziende hanno la stessa sede legale e il chief executive officer di I3G, Klaus Suwelack, ha lavorato fino allo scorso agosto per Janssen- Cilag come -guarda caso- responsabile alla cooperazione. Janssen- Cilag, a sua volta, è il corrispettivo teutonico della Johnson + Johnson, uno dei maggiori gruppi farmaceutici statunitensi. Inutile aggiungere che Janssen- Cilag produce e smercia anche farmaci per il trattamento della schizofrenia: I3G è iscritta al registro del commercio tedesco solo da quest’anno e non ha nessuna referenza nell’ambito del trattamento di malattie psichiche, se non la ‘raccomandazione’ della Janssen- Cilag stessa.

Nonostante I3G si sia sforzata di assicurare la futura indipendenza dei medici impegnati nell’assistenza integrata dalla casa madre Janssen- Cilag, pochi riescono ad avere fiducia nelle belle parole dei dirigenti. L’associazione di ambulatori e ospedali dipende direttamente dalle decisioni amministrative di I3G: sarà difficile che lo staff medico possa mettere in discussione il profitto economico della Janssen- Cilag con scelte individuali completamente libere.

AOK ha presentato il progetto con grande entusiasmo, definendolo “il modello sanitario del futuro”.  Per ora, tuttavia, l’unico vantaggio atteso sembra essere il sollievo economico che I3G procurerà alla cassa mutua AOK e, con lei, allo Stato. Per non parlare dei lauti compensi che arriveranno alla casa farmaceutiche. Tranne i malati, ci guadagneranno tutti.

 

 

di Mario Braconi

L’ex primo Ministro australiano Howard lo aveva detto chiaro e tondo nel 2001: “decideremo noi chi verrà a vivere nel nostro Paese e le circostanze in cui lo fa”. La traduzione politica di questa affermazione è stata la cosiddetta “Pacific Solution” (amabile gioco di parole, Soluzione Pacifica, ma anche Soluzione del Pacifico): sette anni di repressione dell’immigrazione “clandestina”, basata sulla geniale soluzione di spostare i richiedenti asilo in paesi vicini, il cui unico obiettivo era assicurarsi che le loro richieste venissero “processate” fuori dal Paese (Nauru o Papua Nuova Guinea). Soluzione che ovviamente ha messo in allarme le associazioni che si occupano di diritti umani (Amnesty International e Human Rights Watch, tra le altre).

Il Governo conservatore ha sostenuto che per anni, grazie alla sua politica rigorosa (impietosa?) nei confronti dei boat people, il numero dei richiedenti asilo provenienti via mare si è sostanzialmente azzerato; niente affatto, ribatte Elaine Pearson, di Human Rights Watch, secondo cui i dati sbandierati dall’esecutivo non tengono conto delle imbarcazioni “dissuase” prima di liberarsi del loro carico umano, né del fatto che la gran parte dei “clandestini” sbattuti a Nauru hanno finito per ottenere comunque l’asilo politico in Australia - insomma, questa è la politica “dura” della destra australiana: vellicare il lato peggiore degli Australiani e complicare sadicamente l’iter per ottenere asilo politico.

Putroppo l’ossessione di una immaginaria invasione di immigrati, agitata anche da alcuni quotidiani scandalistici, trova un terreno fertile nell’opinione pubblica australiana: infatti perfino l’attuale premier laburista Julia Gillard, che quando era all’opposizione non aveva esitato a definire la “Soluzione Pacifica” una “farsa costosa ed insostenibile”, una volta al potere ha finito per proporre la seguente “alternativa”: un nuovo centro di “processamento” delle richieste di asilo dei clandestini diretti in Australia, opportunamente sistemato a Timor Est.

Tuttavia nessuno poteva immaginare che il governo inciampasse sul caso di due immigrati clandestini, noti ai media come con due orribili sigle, M61 e M69, i quali, grazie ai loro legali, sono riusciti a demolire un intero edificio di ipocrisia e di ingiustizia. Nell’ottobre del 2009, i due, cingalesi che sostengono di rischiare la vita a causa della persecuzione dell’esercito dello Sri Lanka in quanto presunti sostenitori delle Tigri Tamil, sbarcano su Christmas Island, un Territorio Non Autonomo australiano.

Grazie al Programma Soluzione Pacifica, dal settembre 2001 (e fino al 2008), Christmas Island è stata estromessa dalla cosiddetta Australia Immigration Zone, ovvero dalla zona in cui una persona che vi arrivi senza autorizzazione ha comunque diritto di chiedere un visto: insomma M61 e M69, assieme agli 89 richiedenti asilo che sono con loro, cadono nel trappolone ordito dal governo Howard ai danni dei disperati come loro.

A quel punto, il destino dei due è nelle mani di “contractor” privati assoldati dal Governo australiano per condurre il processo di Valutazione dello Status di Rifugiato - si immagini con quale livello di indipendenza. Sfortunatamente, il modo in cui i due dipingono le loro tribolazioni in Sri Lanka non è coerente con le informazioni ufficiali che il governo di Canberra ha deciso di credere su quel paese, per cui la loro richiesta viene respinta.

Potrebbe anche finire qui se non fosse per l’intervento di alcuni legali esperti che decidono di prendere di petto il governo e far scoppiare il caso: prima di tutto, sostengono, è discutibile che a decidere su una questione di vita o di morte sia un soggetto diverso da una Corte australiana. Inoltre, mentre a chi arriva in Australia in aereo e con un visto turistico è consentito chiedere asilo ed eventualmente ricorrere in appello contro un eventuale responso negativo, simili possibilità sono escluse per chi arriva, altrettanto illegalmente, via mare.

Un’altra circostanza, infine, contestano gli avvocati dei due richiedenti asilo (un collegio di professionisti di altissimo livello, che hanno prestato la loro opera gratis): le persone che attendono una decisione sul loro status di rifugiati politici lo fanno da detenuti. Poiché  la detenzione è possibile solo nei casi prescritti dalla legge e poiché l’intera procedura è disegnata proprio per liberarsi del fastidioso obbligo di rispettarla, la detenzione nel caso di specie è da considerarsi illegittima ed arbitraria.

L’11 novembre il verdetto dell’Alta Corte australiana ha dato ragione ai due richiedenti asilo politico: i suoi sette giudici, all’unanimità, hanno concluso all’unanimità che ai due è stata “negata una procedura equa”. Raggiante David Manne, uno dei loro avvocati: “E’ fallito il tentativo di mantenere queste persone al di fuori della legge australiana e delle garanzie previste dai nostri tribunali”. Un verdetto che rinfranca quelli che credono che anche agli ultimi sia concesso, almeno ogni tanto, di vivere un happy ending. Meno entustiasta il governo, che adesso dovrà affrontare la “grana” di migliaia di ricorsi da parte di persone detenute arbitrariamente dopo viaggi della speranza in mezzo ad indicibili sofferenze.


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