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di mazzetta
In attesa della prossima bordata di documenti di Wikileaks, si possono già trarre o confermare alcune osservazioni offerte dal dipanarsi del confronto tra il sito e gli Stati Uniti. Questa volta si tratterebbe delle comunicazioni più o meno diplomatiche di funzionari americani all'estero verso la casa madre. Che si tratti di materiale scottante è fuor di dubbio, non fosse che gli americani coinvolti stavano comunicando ad altri americani le loro impressioni su questioni e persone di altri paesi e che, quindi, ci saranno parecchie dichiarazioni di una sincerità troppo brutale per non risultare offensiva.
Poi ovviamente c'è il contenuto politico delle comunicazioni, in grado di rivelare attività imbarazzanti, doppi e tripli giochi degli statunitensi come degli alleati e responsabilità di vario grado nel sostenere questo o combattere quello, nell'ingerire qua o là, nel corrompere o distruggere i nemici, nel premiare gli amici e chissà che altro. Basta fare due conti sulla quantità di persone coinvolte e sulla mole di documenti in arrivo, per rendersi conto che sarà un metaforico bagno di sangue per gli Stati Uniti e i partner internazionali.
A prescindere dal dettaglio delle rivelazioni che emergeranno, per quanto esplosive, c'è da dire che quasi sicuramente susciteranno molti meno disastri di quanti sarebbe lecito attendersi. Si è già visto in precedenza che nemmeno l'autocertificazione di crimini di guerra ha mosso gli Stati Uniti di Obama a mettersi in discussione o gli altri paesi a chiamarli di fronte alle evidenti responsabilità. Per questo non si andrà al di là di qualche scaramuccia retorica internazionale, anche se le informazioni pubblicate passeranno comunque alla storia e nell'esperienza degli addetti ai lavori, lasciando nuda la propaganda e fornendo armi formidabili contro i feroci cantori delle superiori civiltà.
Sul tema della guerra e di eventuali responsabilità, Obama ha detto che “l'amministrazione vuole guardare avanti e non indietro”, che significa l'indisponibilità a contestare o discutere la legittimità delle politiche dell'amministrazione Bush. Un atteggiamento francamente insostenibile che ha contribuito, insieme a decisioni simili, a far perdere al suo partito democratico il supporto di quanti si erano mobilitati per mettere fine al delirio repubblicano. Lo slogan di Obama non ha senso, applicato ad altre istanze di giustizia significherebbe l'impossibilità di discutere qualsiasi crimine passato e di punire qualsiasi criminale.
Applicato al diritto costituzionale americano, significa per lo meno una dichiarazione d'impunità per le amministrazioni, anche quando diano fondo a una lista di crimini impressionanti. In proposito l'amministrazione Bush non si è fatta mancare niente, dal temibile spergiuro (caso Clinton-Lewinsky) fino al tradimento, tutte accuse che fior di giuristi americani ammettono avere una sufficiente consistenza per dare vita a commissioni d'inchiesta e alla messa in stato d'accusa di parecchi ufficiali. Ma l'assetto costituzionale statunitense non è messo in pericolo da Wikileaks; da tempo è stato minato e l'amministrazione Bush è stata sicuramente quella che lo ha sovvertito più di altre.
Il problema più concreto e sensibile provocato dall'incessante pubblicazione all'ingrosso di una massa di comunicazioni riservate statunitensi, è la dimostrazione che la prima potenza al mondo non è in grado di garantire la sicurezza delle sue comunicazioni più sensibili e che tutti, dal presidente all'ultimo dei fantaccini, in futuro faranno bene a pensare a quello che dicono e a dirlo sapendo che nel giro di qualche mese al massimo potrebbe finire su Internet.
L'attacco a Wikileaks da parte dell'amministrazione americana è una reazione scontata e anche i media continuano a mettere la faccenda come un confronto tra il sito e Washington, ma i problemi sono tutti di Washington, anche se Wikileaks dovesse sparire stanotte. Quello che fa Wikileaks lo potrebbero fare in molti; lo potrebbe fare qualsiasi paese, ostile o meno, per acquisire dati d'importanza strategica e giocare con gli Stati Uniti sapendo già che carte si hanno in mano.
L'attività di Wikileaks dice agli statunitensi che tutti i loro sistemi di comunicazione, da quelli del Pentagono a quelli usati dalle ambasciate, sono praticamente trasparenti. Gli archivi che conservano queste comunicazioni possono essere violati da personale infedele o attraverso espedienti tecnici e gli autori degli attacchi possono rubare dati sensibili all'ingrosso. Considerazioni che dovrebbero rimbombare anche nella testa del comune cittadino della modernità elettronica: un archivio magnetico, collegato o meno online, è molto più facile da rubare di un archivio cartaceo composti di faldoni custoditi negli archivi di un tempo.
Il problema per gli Stati Uniti, come per tutti i paesi e tutti gli utenti, è che se contractor governativi e consulenti hanno promesso al governo la sicurezza dei sistemi informatici d'archiviazione, questi mentivano sapendo di mentire e il seguito della storia lo dimostra con abbondanza di prove. Il segreto va poco d'accordo con le barriere elettroniche e ancora meno con la fedeltà di chi ha i requisiti per accedere ai dati sensibili, tanto più che negli Stati Uniti si parla di più di un milione di persone abilitate all'accesso a informazioni riservate, che possono prelevare e duplicare senza nessuna fatica una mole enorme di dati.
Impossibile considerare sicuro un sistema del genere e, figuracce a parte, è chiaro che a ogni exploit di Wikileaks gli incaricati della sicurezza dei sistemi di comunicazione e gli alti papaveri del Pentagono si trovano nudi di fronte a questa ovvietà. Un problema, quello della sicurezza degli archivi informatici, che nel caso dell'unica superpotenza mondiale assume un'importanza strategica e politica ancora più rilevante di quella che potrebbe avere per paesi meno esposti nell'arena internazionale.
Non è colpa di Wikileaks se gli americani hanno commesso crimini di guerra o se i loro leader hanno mentito e tramato per scatenare guerre o ingerire in altri paesi. Così come non è colpa di Wikileaks se l'elefantiaco apparato militare americano, quello che ha meritato la definizione di imperiale alla politica statunitense, fornisce con le sue mani munizioni a chi lo accusa di usare la democrazia e i diritti umani come pretesti, al riparo dei quali operare nella totale impunità. E non è nemmeno colpa di Wikileaks se tutta la nostra comunicazione, dalle lettere d'amore alle transazioni finanziarie, è conservata su supporti e viaggia su sistemi concepiti per rendere più facile e veloce la circolazione e la condivisione dei dati.
Si tratta di un dato di fatto con il quale è bene fare i conti, gli Stati Uniti e i loro alleati faranno e pagheranno i loro, mentre chi non ha ancora sofferto questo genere di fastidiosi incidenti ha l'occasione di riflettere su come prevenirli.
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di Eugenio Roscini Vitali
«Esprimiamo le nostre condoglianze ai parenti delle vittime e siamo profondamente turbati per le violenze avvenute a El Aaioun e nel campo di Gdaim Izyk»: questa è la nota con cui l’ambasciatore britannico e presidente di turno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Mark Lyann Grant, ha licenziato l’irruzione armata dei militari marocchini avvenuta l’8 ottobre scorso contro il sit-in di protesta organizzato dalle autorità sahrawi a quindici chilometri circa dalla capitale.
L’Onu non si è quindi espressa sulle tre istanze invocate dai vertici del movimento indipendentista e dalle maggiori organizzazioni umanitarie: una commissione d’inchiesta indipendente che indaghi sui fatti avvenuti nell’ex colonia spagnola, richiesta bloccata dal rappresentante francese nel corso della riunione del Consiglio promossa dal Messico; l’invio di una delegazione dell’Onu nei territori occupati dal 1975 con la Marcia verde voluta dal re Hassan II del Marocco, una presenza che praticamente manca da 16 anni; l’ampliamento del mandato dei Caschi blu dell’Onu (missione Minurso) alle questioni umanitarie.
Ma la poca attenzione dimostrata in questi giorni per la questione sahrawi non è solo un fatto legato alle decisione prese all’interno del Palazzo di vetro. Mentre in Spagna una mozione che chiedeva una forte presa di posizione contro Rabat è stata votata a favore da quasi tutti i partiti tranne che dai socialisti al governo, a Bruxelles i ministri degli Esteri europei hanno deciso infatti di rinviare l’esame della sanguinosa repressione marocchina alla prossima riunione del Consiglio di associazione Unione Europea - Marocco in programma per il 13 dicembre.
La Casa Bianca continua non sbilanciarsi e, auspicando un “un maggiore impulso politico”, si dice pronta a sostenere le Nazioni Unite per trovare una soluzione pacifica al conflitto; da Roma il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini si è invece detto estremamente preoccupato per i morti e per i numerosi feriti registrati nei giorni scorsi e chiede di «mantenere la necessaria calma e moderazione per evitare scontri che causerebbero ulteriori vittime civili e spargimenti di sangue».
In effetti, ad eccezione dell’Algeria, alleato storico del Fronte popolare di liberazione di Saguía el Hamra e del Río de Oro (Polisario), e della Nigeria, che nel dicembre 1984 ha riconosciuto il Sahara Occidentale come Stato sovrano, soltanto l’Unione Africana ha fatto passi concreti. L’organismo intergovernativo con sede ad Adis Abeba, dal quale Rabat si ritirò nel 1984 quando venne riconosciuta l’indipendenza della Repubblica Araba Sahrawi Democratica, ha chiesto apertamente al Marocco di «astenersi da atti di forza, privilegiando la via del dialogo come solo mezzo efficace per risolvere la crisi e creare condizioni propizie alla ricerca di una soluzione durevole alla questione del Sahara Occidentale».
Negli altri casi ha prevalso il pragmatismo politico e gli interessi economici hanno premiato ancora una volta la posizione marocchina, una posizione espressa dallo stesso re Mohammed VI che nei suoi discorsi parla ancora dei sahrawi come «nostri fedeli sudditi dei campi di Tindouf», le zone autonome in territorio algerino dove sorgono i quattro campi profughi che ospitano circa 50.000 rifugiati: Auserd, Dakhla, El Aaiun e Semarah.
Nella capitale El Aaioun e nel campo di Gdaim Izyk, montato da più di un mese per chiedere il rispetto dei diritti del popolo sahrawi, i militari sono entrati in azione proprio nel giorno in cui a New York era in programma la ripresa dei colloqui mediati dall’Onu tra Rabat e il Polisario. Nonostante il bilancio delle violenze sia contrastante si contano diverse decine di morti: per i media marocchini i disordini sarebbero opera di criminali che usano metodi simili a quelli impiegati da note organizzazioni terroristiche e gli scontri avrebbero causato la morte di 12 persone, 10 delle quali militari marocchini.
Di tutt’altra opinione il portavoce del Polisario che parla di almeno 36 civili sahrawi uccisi e 4.000 feriti, oltre a più di 2.000 arresti e centinaia di persone scomparse. Le operazioni non avrebbero interessato la sola capitale ma si sarebbero estese ad altre località, comprese El Aaiun, dove si è verificata una feroce caccia all’uomo, e Samarah, città dell’entroterra considerata la “capitale religiosa” del Sahara occidentale.
Di fronte alla possibilità che la presenza degli stranieri potesse portare alla luce dell’opinione pubblica le violenze e la repressione messa in atto nel Sahara Occidentale, le autorità marocchine hanno deciso di isolare la regione. Oltre a negare il visto d’ingresso ai media e agli attivisti delle associazioni internazionali le forze di sicurezza hanno infatti “invitato” i non residenti a lasciare l’ex colonia spagnola e in alcuni casi le persone fermate sono state costrette a firmare una dichiarazione con la quale ammettevano di essersi introdotti nel Sahara Occidentale senza gli appositi permessi.
Durante l’irruzione dell’8 ottobre i pochi attivisti stranieri rimasti all’interno del campo di Gdaim Izyk sono comunque riusciti a diffondere un video nel quale venivano denunciate le atrocità perpetrate ai danni dei civili: maltrattamenti, torture ed uccisioni commesse dalla polizia e dai militari marocchini che, dopo aver soffocato la protesta nel sangue, hanno rastrellato i quartieri sahrawi della capitale a caccia degli oppositori.
Anche se la vita sembra essere tornata alla normalità, fonti vicine alla resistenza descrivono El Aaioun come una città praticamente militarizzata: il coprifuoco è stato ufficialmente tolto e sono stati riaperti i negozi, i mercati e gli uffici, ma gli elicotteri sorvolano le aree di Matallah, Haimatar e Colombina, quartieri ad alta presenza sahrawi, e l’esercito spegne con la forza anche il minimo focolaio di resistenza. Le strade sono controllate dalle truppe marocchine e dal tramonto all’alba qualunque sahrawi venga fermato rischia di essere arrestato e portato via.
Tra i pochi organismi ad aver ottenuto il permesso di raccogliere informazioni c’è Human rights watch (Hrw), l’organizzazione non governativa americana che sin dai primi rapporti ha parlato di molti sahrawi picchiati fino a perdere conoscenza e di detenuti privati del sonno, del cibo e dell’acqua. Ai cittadini marocchini sarebbero state distribuite delle fasce bianche per distinguerli dai sahrawi e negli ospedali della capitale non si sa quante persone siano ricoverate, ne si conosce il la sorte di quelle dimesse. Anche le strutture di detenzione e il commissariato di polizia della capitale sarebbero ancora pieni di detenuti, così come l’istituto scolastico utilizzato come carcere, e i prigionieri considerati più pericolosi o quelli il cui nome compare sulla lista delle persone ricercate sarebbero estradati in Marocco.
«Il Marocco e il Polisario si sono impegnati in ampie discussioni sul Sahara Occidentale in un’atmosfera di mutuo rispetto, nonostante ognuna delle due parti abbia respinto le proposte dell’altra come base per futuri negoziati»: queste le parole l’inviato speciale delle Nazioni Unite nella regione alla fine dell’incontro tenutosi nei pressi di New York. Christopher Ross ha riferito alla Reuters che i partecipanti si sono accordati per rincontrarsi a dicembre e nei primi mesi del 2011, ma in realtà il terzo round di colloqui informali tra il Polisario e il governo marocchino si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto.
Dopo vent’anni di rinvio del referendum per l’indipendenza dal Marocco il governo di Rabat ha ormai blindato la regione e tra gli attivisti sahrawi c’è la convinzione che questa sia una tattica per scatenare una guerra civile, lasciando ai coloni il compito di risolvere una questione politicamente irrisolvibile.
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di Carlo Musilli
Due morti e diciassette feriti, circa settanta edifici distrutti, sono il bilancio di uno scambio di artiglieria tra Corea del Nord e Corea del Sud che ha avuto luogo ieri mattina. Teatro dello scontro l’isola Yeonpyeong, situata in acque la cui nazionalità è oggetto di disputa tra i due paesi. Stando alla ricostruzione di Pyongyang, diramata attraverso un dispaccio dell’agenzia di stampa KCNA, sarebbero stati i soldati di Seul ad aprire il fuoco per primi, lanciando “decine di proiettili” contro i soldati nordcoreani. “Nonostante i nostri ripetuti avvertimenti, la Corea del Sud ha esploso decine di proiettili contro le nostre truppe a partire dall’una del pomeriggio e immediatamente abbiamo deciso di rispondere al fuoco”.
Versione opposta da parte del governo di Seul, la cui presidenza ha reso pubblico un comunicato nel quale - secondo l’agenzia Yonhap - definisce quanto successo “una chiara provocazione militare di Pyonyang” e avverte che, nel caso si ripeta, ci sarà “una dura rappresaglia”. La Corea del Sud ha dispiegato nella zona aerei da combattimento ed ha elevato al massimo lo stato d’allerta. Loscambio d’artiglieria si è concluso quando una telefonata tra le due coree, attraverso una linea speciale istituita per fronteggiare situazioni d’emergenza come quella occorsa ieri, ha determinato il “cessate il fuoco” tra i due eserciti.
La tensione tra i due paesi ha subìto negli ultimi giorni un’escalation, dovuta principalmente a due fattori: l’inizio di manovre militari sudcoreane al limite delle proprie acque internazionali - che Pyongyang considera una minaccia - e le dichiarazioni sullo stato dell’arte nel nucleare nordcoreano da parte di Siegfried S. Hecker, per il quale "rapidamente e in segreto" i nordcoreani hanno costruito un nuovo impianto per l'arricchimento dell'uranio. Si trova nel sito nucleare di Yongbyon ed è di altissimo livello tecnico. Le affermazioni sono state fatte al New York Times proprio da Siegfried S. Hecker, professore a Stanford e ex direttore del Laboratorio Nazionale di Los Alamos, che il 12 novembre scorso è stato portato per mano a fare un tour nel nuovo impianto. E ne è rimasto "sbalordito".
I nordcoreani hanno invitato il professore per far capire al mondo quello che sono in grado di fare. Ma senza dare troppi dettagli: Hecker non ha potuto scattare fotografie, né gli è stato concesso di verificare se nella struttura fosse già iniziata la produzione di uranio. Il professore americano ha pubblicato su internet il suo rapporto, secondo cui sarebbero "centinaia e centinaia" le centrifughe utilizzate nel nuovo impianto per arricchire l'uranio ("duemila", dicono da Pyongyang), tutte gestite da un centro di controllo "ultramoderno".
Nonostante le cautele degli scienziati asiatici, alcuni sospetti ad Hecker sono venuti lo stesso. La Corea del Nord, infatti, si era impegnata a utilizzare l'uranio prodotto in un "reattore ad acqua leggera", vale a dire in una centrale energetica. Ma, secondo il professore di Stanford, "ci sono ragioni per dubitare che sia vero".
Eppure, una settimana prima di Hecker, a Yongbyon era arrivato l'ex inviato speciale Usa per la Corea del Nord e attuale presidente del Korean Economic Institute, Charles Pritchard. Secondo lui il famoso "reattore ad acqua leggera" sarebbe in costruzione. E probabilmente il nastro inaugurale sarà tagliato nel 2012, visto lo stato "non ancora avanzato" dei lavori.
Una lentezza sorprendente, soprattutto se paragonata alla velocità fulminea a cui invece è stato costruito il nuovo, futuristico centro per l'arricchimento dell'uranio. Poche informazioni trapelano dal governo di Pyongyang, ma di una cosa gli Stati Unisti sono sicuri: quell'impianto non esisteva ancora nell'aprile 2009, quando si consumò lo strappo con la comunità internazionale. All'epoca, infatti, furono espulsi dal Paese tutti gli ispettori internazionali e la Corea del Nord abbandonò i negoziati sul programma nucleare.
Com'è riuscito in un'impresa del genere un paese povero e isolato, i cui primi test nucleari risalgono a soli quattro anni fa? Secondo i sospetti più diffusi, Pyongyang sarebbe riuscita ad aggirare le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu (come punizione contro il rifiuto di ispezioni internazionali) grazie a qualche aiutino proveniente dall'estero. In ogni caso, dagli Stati Uniti non si sbilanciano.
Con gli occhi fissano i monitor su cui scorrono immagini satellitari del territorio nordcoreano, ma a parole si tengono sul vago: "La Corea del Nord continua a percorrere una strada di destabilizzazione della regione", ha detto senza particolare ispirazione Mike Mullen, capo di stato maggiore Usa.
Un atteggiamento più che diplomatico. In questi giorni, infatti, é arrivato a Pyongyang Stephen Bosworth, emissario speciale Usa per la Corea del Nord. La sua missione è far riprendere i negoziati: la Corea del Nord (che da parte sua vorrebbe un incontro faccia a faccia con Washington) sarà fortemente esortata a riaprire i colloqui con i magnifici cinque del nucleare mondiale: Cina, Giappone, Russia, Stati Uniti e Corea del Sud.
Nonostante la pesantezza dell'incarico, Bosworth si sforza di minimizzare. Del nuovo impianto nordcoreano "eravamo a conoscenza da qualche tempo", ha dichiarato. Secondo lui l'episodio sarebbe certamente "molto spiacevole", tuttavia non costituirebbe "motivo di crisi".
Molto più schiette le valutazioni che arrivano dal Pentagono. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, ha detto chiaro e tondo di non credere alla storiella del programma nucleare pacifico. La nuova struttura consentirà ai nordcoreani di produrre "un certo numero" di armi nucleari, che andranno ad aggiungersi a quelli che con ogni probabilità il regime di Pyongyang ha già messo da parte.
Gates ha poi ricordato che la Corea del Nord, nel frattempo, sta costruendo anche nuovi missili a lungo raggio e forse perfino un dispositivo balistico intercontinentale. "Tutti questi programmi - ha concluso il capo del Pentagono - suscitano grande preoccupazione in ogni paese".
Una preoccupazione forte soprattutto in Giappone, il primo dei big asiatici ad uscire allo scoperto sulla vicenda. Secondo il portavoce del governo nipponico, infatti, "lo sviluppo del nucleare nordcoreano è totalmente inaccettabile dal punto di vista della pace e della stabilità nella regione".
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di Michele Paris
Il summit della NATO andato in scena nel fine settimana a Lisbona ha decretato ufficialmente la presenza illimitata delle truppe occidentali in Afghanistan. Oltre a cancellare la scadenza del luglio 2011 fissata da Obama lo scorso anno per l’inizio del ritiro delle forze alleate da Kabul, i 28 membri del Patto Atlantico e i loro ospiti hanno provveduto a delineare il ruolo futuro dell’Alleanza per il ventunesimo secolo, le cui minacce - più o meno reali - verranno fronteggiate anche grazie ad un nuovo costosissimo sistema di difesa missilistico in Europa e ad una partnership con la Russia ancora tutta da costruire.
Accolti dalle consuete manifestazioni di protesta, i leader riuniti nella capitale portoghese hanno cercato di partorire una strategia presentabile per giustificare il prolungamento indefinito dell’occupazione afgana. Di fronte ad un’opinione pubblica da entrambe le sponde dell’Atlantico sempre più contraria ad un conflitto ormai quasi decennale, i vertici NATO, sotto la guida del presidente Obama, hanno fissato ora l’anno 2014 come il termine ultimo per le operazioni di combattimento. Entro quella data dovrebbe terminare una fase di transizione durante la quale il controllo delle operazioni sul campo passeranno progressivamente al governo afgano.
Se le forze di sicurezza di Kabul, come ampiamente prevedibile, non saranno però in grado di cavarsela da sole, Washington e i suoi alleati continueranno a stazionare in Afghanistan con svariate decine di migliaia di uomini. L’accordo per la permanenza dei militari occidentali nel paese centro-asiatico è stato siglato dal segretario generale della NATO, l’ex primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen, e dal presidente Hamid Karzai.
Quest’ultimo, invitato speciale al summit di Lisbona, ha dovuto subire i rimproveri non troppo velati dello stesso Obama e del comandante delle forze NATO nel suo paese, generale David Petraeus. Entrambi si erano infatti risentiti per una recente intervista al Washington Post nella quale Karzai si lamentava con i propri padroni per le conseguenze devastanti sulla popolazione civile dei raid notturni che regolarmente vengono effettuati per catturare o uccidere leader ribelli.
A Karzai non solo è stato imposto di sottoporre preventivamente alla delegazione americana il suo discorso ufficiale di fronte ai membri dell’Alleanza per evitare spiacevoli sorprese, ma gli è stato in sostanza anche ricordato che è Washington a condurre i giochi in Afghanistan e che non saranno certo qualche centinaia di vittime innocenti a far cambiare la strategia di guerra, comunque la pensi il suo governo fantoccio.
Con un artificio retorico si è così spostato l’accento dalle operazioni di guerra a quelle di addestramento delle inconsistenti forze di sicurezza afgane, nella speranza di placare la rabbia crescente dei cittadini europei, americani e canadesi. Allo stesso tempo, con un tale espediente si cercherà di ottenere l’invio di una manciata di soldati/addestratori - come ha fatto il governo italiano - da aggiungere ai quasi 150 mila uomini già di stanza nel paese occupato.
Ben poco impensieriti dalle implicazioni che tale prolungata presenza avrà sulla popolazione civile in termini di morti e distruzione, i capi di stato e di governo riuniti in Portogallo hanno così fornito tutto il loro sostegno alla strategia statunitense. Una strategia dettata essenzialmente dal Pentagono e che ha prevalso sul piano inizialmente offerto da Obama agli americani, quando sul finire del 2009 decise di aumentare sensibilmente il proprio contingente militare in Afghanistan.
Questo paese d’altra parte continua a rappresentare un punto nevralgico per gli interessi degli Stati Uniti, al di là della presunta minaccia terroristica che incombe sul territorio americano. Washington semplicemente non può abbandonare quest’area dell’Asia centrale - come non può abbandonare i Medio Oriente lasciando l’Iraq - dove l’influenza su paesi che dispongono di vaste riserve minerarie, e da dove transitano rotte energetiche di importanza vitale, è duramente contesa con le altre potenze planetarie, Cina in primis. A conferma di ciò, l’amministrazione Obama sta da tempo negoziando con il governo afgano un accordo bilaterale - separato da quello firmato a Lisbona - che prevede un “supporto” indefinito da parte statunitense in ambito economico, culturale e della sicurezza.
Oltre all’Afghanistan, l’altro obiettivo principale degli USA e della NATO a Lisbona era la riproposizione del sistema di difesa missilistico da installare in Europa, già voluto a suo tempo da George W. Bush e poi abbandonato in seguito all’opposizione della Russia. Il nuovo progetto ha incassato invece ora l’ok del presidente Medvedev, anch’egli presente al summit per inaugurare un nuovo corso cooperativo con la NATO, il quale pur tra qualche dubbio ha assicurato che Mosca fornirà la propria collaborazione alla rete di difesa europea, dal momento che quest’ultima non viene più percepita come una minaccia nei confronti della Russia.
Secondo la versione ufficiale, lo scudo anti-missilistico serve a difendere i paesi europei dal lancio di ordigni balistici dall’Iran, anche se la Repubblica Islamica non è stata ufficialmente nominata come possibile minaccia in seguito alle pressioni della Turchia, che continua ad intrattenere rapporti molto cordiali con Teheran. A rompere il silenzio ci ha pensato però il presidente francese Sarkozy che ha apertamente indicato l’Iran come la minaccia, peraltro del tutto inesistente, che incomberebbe sull’intera Europa.
Il segretario Rasmussen ha infine presentato i nuovi compiti dell’Alleanza che presiede, così da giustificarne la sopravvivenza a sessantuno anni dalla sua creazione. La NATO dovrebbe cioè rappresentare un baluardo contro le minacce globali di terrorismo e guerra informatica ma anche un sistema collettivo di difesa per prevenire crisi, gestire conflitti e stabilizzare aree interessate da guerre (possibilmente innescate dalla stessa NATO).
Nella realtà dei fatti, ciò che si intravede è ancora una volta la fabbricazione di sempre nuove minacce che permettano di continuare a vendere armi e che, soprattutto, rendano possibile il dispiegamento di forze destinate a servire gli interessi strategici occidentali, in primo luogo quelli di Washington. Un espansionismo che, oltre all’Afghanistan, riguarda già anche l’Asia meridionale e il Pacifico, l’America Latina e l’Africa. Il tutto con il “consenso” di una NATO che, per dirla con le parole di Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazione di Jimmy Carter, continuerà anche nel nuovo secolo a rappresentare un vero e proprio strumento per la “perpetuazione della strategia egemonica americana” su scala planetaria.
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di Michele Paris
Il primo atteso rapporto della speciale commissione nominata da Barack Obama sul contenimento del deficit negli Stati Uniti ha fatto intravedere settimana scorsa tutte le minacce che a breve potrebbero materializzarsi per gli americani a basso reddito. Completamente disinteressati alla sorte di quelle decine di milioni di cittadini per i quali le conseguenze della crisi economica sono tutt’altro che superate, i politici democratici e repubblicani facenti parte della cosiddetta Commissione Nazionale per la Riforma e la Responsabilità Fiscale si sono in sostanza aggregati al coro dei falchi del deficit, che di questi tempi infestano le stanze del potere di mezzo mondo chiedendo una raffica di tagli alla spesa pubblica e un sistema tributario ancora più vantaggioso per le imprese e i redditi più alti.
Le proposte della commissione sono significativamente giunte subito dopo il voto di medio termine che ha segnato una pesantissima sconfitta per il partito del presidente. Come previsto alla vigilia, il trionfo repubblicano ha infatti preparato il campo per nuovi progetti mirati ad affrontare il principale pericolo che gli USA devono fronteggiare già a breve scadenza secondo la classe politica e i media istituzionali: un deficit dalle proporzioni enormi.
A guidare il gruppo di lavoro voluto da Obama, dietro suggerimento di alcuni elementi della propria amministrazione, preoccupati per le ripercussioni pubbliche delle pur modeste misure di spesa adottate nei primi mesi del suo mandato, sono l’ex senatore repubblicano del Wyoming Alan K. Simpson e l’ex capo di gabinetto di Bill Clinton, Erskine Bowles, il cui punto di vista obiettivo sul percorso di ripresa dell’economia americana è garantito dai suoi attuali incarichi nei consigli di amministrazione di Morgan Stanley e General Motors.
Tra i provvedimenti consigliati al prossimo congresso dal duo Simpson-Bowles è sufficiente citarne alcuni per comprendere subito la natura dell’operazione di assalto ad un welfare già esile in corso a Washington. Tra questi ci sono: tagli agli adeguamenti secondo l’inflazione per i benefici garantiti dalla Sicurezza Sociale ai pensionati e progressivo innalzamento dell’età pensionabile fino a 69 anni entro il 2075; contenimento delle spese sanitarie, con particolare attenzione ai popolari programmi Medicare e Medicaid; licenziamento di oltre duecento mila dipendenti pubblici e congelamento degli stipendi, militari esclusi; abolizione di alcune deduzioni fiscali, ad esempio quelle sui mutui, e riforma del sistema fiscale per ridurre l’aliquota dei redditi più alti dal 35 al 23 per cento e quella delle imprese dal 35 al 26 per cento.
Mentre uno dei due presidenti della commissione a Washington celebrava divertito l’impopolarità delle misure proposte, prevedendo per se stesso un imminente ingresso nel programma di protezioni testimoni per sfuggire all’ira della gente comune, da Seoul Obama lodava i primi risultati snocciolati dal gruppo di esperti da lui scelti. Il presidente, anzi, ha addirittura criticato quei pochi compagni di partito democratici che timidamente hanno giudicato eccessivi i tagli proposti.
Dalla Casa Bianca insomma ci si prepara ad una fruttuosa collaborazione con la neo-maggioranza repubblicana alla Camera sul fronte del deficit, così da preservare intatta la certezza del profitto per corporation e grandi banche e far pagare gli effetti della crisi a lavoratori e classe media.
A conferma di ciò vi è anche la recente uscita del principale consigliere del presidente, David Axelrod, il quale ha reso pubblica la disponibilità di Obama al compromesso sulla questione dell’estensione dei benefici fiscali per i redditi più alti voluti dal suo predecessore. Mentre in campagna elettorale e fino a pochi giorni fa il presidente si era dichiarato totalmente contrario al prolungamento dei tagli alle tasse oltre il 31 dicembre di quest’anno per le entrate superiori ai 250 mila dollari, ora sembra essersi adeguato alle richieste dei repubblicani che da un lato mettono in guardia da un debito pubblico insostenibile e dall’altro si adoperano per estendere un provvedimento che causerà un buco di bilancio di svariate centinaia di miliardi di dollari nei prossimi anni.
La totale incomprensione del problema economico da parte dei leader della commissione Obama, così come di una schiera di capi di governo, presidenti e ministri in Occidente, è stata messa in risalto da più di un autorevole economista. Nel caso degli Stati Uniti, l’esplosione della bolla speculativa alimentata dal mercato edile due anni fa ha trascinato verso l’abisso l’intera economia, producendo un collasso della domanda interna. In una tale situazione, al gap venutosi a creare può supplire unicamente il pubblico con un allargamento dei cordoni della spesa federale. Se, al contrario, in questo frangente la spesa viene compressa per un ingiustificato timore del deficit sul breve e medio periodo il risultato è un ulteriore crollo della domanda, un rallentamento dell’economia e la perdita di nuovi posti di lavoro.
Le idee partorite dalla commissione per il deficit negli Stati Uniti risultano d’altra parte ideologiche, come lo sono i provvedimenti adottati un po’ ovunque negli ultimi mesi da governi che rispondono unicamente ai diktat dei mercati e dei grandi interessi economici e finanziari. Se così non fosse, nel rapporto della commissione il problema dell’esplosiva spesa sanitaria verrebbe ad esempio affrontato da un’altra angolazione.
Il fatto che il sistema assistenziale in America sia in gran parte basato sulle compagnie di assicurazione private è in realtà la causa dell’aumento vertiginoso dei costi. La bancarotta di colossi come General Motors e Chrysler è stata infatti causata in parte anche dalla necessità di pagare ai loro dipendenti onerosi piani sanitari privati che avrebbero potuto essere offerti da un sistema pubblico, come avviene in gran parte del mondo occidentale.
Allo stesso modo, il bersaglio preferito dei tagli è l’insieme dei programmi federali di Sicurezza Sociale, anche se essi non contribuiscono alla crescita del deficit. Nella confusione della crociata contro tutto ciò che è pubblico, sfugge sempre il fatto che per tali programmi negli USA non è possibile spendere più di quanto entra nelle casse federali attraverso l’apposita tassazione che li finanzia. Nel propagandare l’innalzamento dell’età pensionabile, poi, si cita immancabilmente la crescita dell’aspettativa media di vita degli ultimi decenni. Gli studi tuttavia continuano a dimostrare come i cittadini con i redditi più bassi, che sarebbero costretti a lavorare più a lungo, beneficiano solo in minima parte dell’allungamento della vita.
Per finire, è stato vergognosamente tralasciato dalla relazione della commissione un qualsiasi riferimento ad una tassa sulle speculazioni finanziarie dei veri responsabili della crisi economica, un contributo consigliato persino dal Fondo Monetario Internazionale. Un provvedimento di questo genere avrebbe garantirebbe al governo federale entrate consistenti - nell’ordine dei 100 miliardi di dollari all’anno secondo uno studio degli economisti Dean Baker e Robert Pollin - senza oltretutto incidere negativamente sulle attività produttive.