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di Fabrizio Casari
Il colpo di Stato in Ecuador è fallito. L’esercito, fedele alla Costituzione e al Presidente Correa, è intervenuto con la forza per liberare il presidente dall’ospedale dove era stato preso in ostaggio dai rivoltosi ed ha anche liberato i commissariati dove i poliziotti traditori si erano sollevati e lo stesso aereoporto della capitale. Il saldo dell’operazione di pulizia è di due morti e diversi feriti, alcuni di questi ultimi tra le fila dell’esercito e della popolazione che è scesa in strada con l’intento di appoggiare il suo Presidente contro i golpisti. La vicenda, gravissima, ha un suo aspetto di cronaca e un altro tutto politico, interno ed internazionale. Partiamo dal primo.
La cronaca riferisce di una ribellione di alcuni reparti della polizia di Quito che rifiutavano il pacchetto legislativo proposto dal Governo e approvato dal Parlamento sulla riforma dei servizi pubblici, presidenza compresa, e che prevede, tra l’altro, la riduzione dei benefici di vario genere dei quali hanno goduto in passato le forze di polizia come altri settori della Pubblica amministrazione.
Il Presidente Correa, avvertito delle proteste dei poliziotti e su richiesta degli ufficiali di polizia, aveva deciso di recarsi alla sede del Reggimento 1 di Quito per spiegare, personalmente, la necessità delle misure, anche nell’intento di trovare soluzioni di compromesso. Ma il tentativo di dialogo è stato frustrato dai poliziotti, a dovere sobillati: addosso al Presidente sono piovuti insulti, lanci di oggetti e di gas lacrimogeni; questi ultimi hanno prodotto una lieve intossicazione al presidente che è stato prelevato dalla sua scorta e accompagnato in ospedale.
I poliziotti si sono riversati in strada, bruciando copertoni e lanciando pietre, quindi hanno occupato l’aereoporto di Quito e, in seguito, hanno circondato l’ospedale dove il Presidente era stato soccorso. A poco erano servite le assicurazioni del Ministro di Sicurezza Pubblica, che si era detto certo della breve e non cruenta durata della protesta degli agenti. Il blocco dell’ospedale, la presa dell’aereoporto, il saccheggio dei supermercati, gli assalti ai negozi, ai distributori di benzina e a quattro sportelli bancari, hanno offerto un quadro golpista difficile da negare. In aggiunta, a dimostrazione di un piano orchestrato, mentre in altri due centri - Cuenca e Guayaqui - si assisteva ad altre proteste di strada della polizia, nella capitale, come d’incanto, gruppi di studenti di destra cercavano di occupare le strade in appoggio alla polizia ribelle. Stesso copione anche in altre province.
Scatta la reazione popolare a sostegno di Correa, che in un quadro rovesciato rispetto alla consuetudine, vedeva gli studenti e lavoratori leali alla Costituzione scendere in piazza ed ingaggiare scontri con la polizia golpista. I manifestanti si dirigevano all’ospedale per tentare di difendere il presidente, ma venivano accolti da gas lacrimogeni e colpi d’arma da fuoco dalla polizia golpista che circondava il nosocomio.
Nel frattempo, le proteste internazionali rendevano chiaro il ripudio al golpe. Dal Segretario Generale dell’Onu ai governi latinoamericani, si sono susseguite le prese di posizione al fianco di Correa e del legittimo governo ecuadoriano. In primo luogo i membri dell’Unasur (Unione delle nazioni sudamericane). I presidenti di Cile, Uruguay, Argentina, Bolivia, Colombia, Venezuela e Perù si sono riuniti immediatamente a Buenos Aires per sostenere Correa. Il Ministro degli Esteri brasiliano, Celso Amorim, ha espresso “il totale appoggio e solidarietà al Presidente Correa”.
Il Perù, confinante, ha disposto la chiusura delle frontiere, così come la Colombia, che ha espresso immediata solidarietà al Presidente ostaggio dei golpisti, mentre Hugo Chavez invitava alla mobilitazione contro “le forze oscurantiste, la destra, i servi dell’impero che cercano ogni scusa per tornare al potere”. Stessi toni dalla Bolivia, dove Evo Morales ha definito la sollevazione poliziesca “una cospirazione vergognosa stimolata da politicanti privi dell’appoggio popolare, destinata a evitare l’avanzata del processo rivoluzionario in Ecuador”.
Ancora più dura la posizione espressa da Nicaragua e Cuba. Ed è qui, nella presa di posizione di Cuba, che gli eventi cessano d’indossare le vesti della cronaca e assumono sostanza politica. “Cuba attende che il comando delle forze armate ecuadoregne obbedisca all’obbligo di rispettare e far rispettare la Costituzione e di garantire l’inviolabilità del Presidente della Repubblica legittimamente eletto e assicurino lo stato di diritto”. Il comunicato del Ministero degli Esteri cubano afferma poi di “ritenere il Capo delle Forze Armate responsabile dell’integrità fisica e della vita del Presidente Correa” avvertendo che “dev’essere assicurata la sua piena mobilità di movimento e l’esercizio delle sue funzioni”. L’Avana si spinge poi oltre, al cuore del problema: “Invitiamo il governo statunitense a pronunciarsi contro il golpe. Il suo portavoce ha solo detto che segue da vicino la situazione. Un’omissione in questo senso vi renderebbe complici del colpo di Stato”.
La presa di posizione Usa, infatti, somigliava molto a quella presa in occasione del golpe in Honduras contro il legittimo presidente Zelaya. Con parole moderate e fintamente solidali, si trasmetteva invece una sorta di “via libera” ai golpisti, come venne ampiamente dimostrato nel successivo corso degli eventi. Solo un po’ meno sfacciata di quella di giubilo espressa nel poi fallito golpe in Venezuela.
Subito dopo la pubblicazione della posizione cubana, senza voler con questo stabilire una relazione temporale di causa-effetto, lo scenario è cambiato. Sollecitato dall’estero o internamente, o da ambedue gli scenari, pur con diverse ore di ritardo l’esercito ecuadoregno ha rotto gli indugi ed ha scelto d’intervenire. Sette camion di soldati si sono recati verso l’ospedale per rompere il blocco organizzato dai rivoltosi e, mentre una sparatoria durata venti minuti tra militari e poliziotti riconduceva alla normalità la situazione, un reparto delle forze speciali dell’esercito liberava il Presidente, assistito dalla sua scorta, mettendo così fine ad un sequestro durato otto ore. Due morti e 88 feriti il bilancio sanguinoso dell’intervento.
Correa, pochi minuti dopo la sua liberazione, si è recato al palazzo di Governo. In un breve discorso, nel quale ha chiesto alla popolazione “unità contro i traditori della patria”, ha assicurato che non ci saranno “né perdono, né dimenticanze”, annunciando misure immediate contro i fagocita tori del tentato golpe, che ha indicato nell’ex Presidente Lucio Gutierrez (cacciato a suo tempo dalla rivolta popolare). “Non era una rivendicazione salariale. E’ stato un tentativo di colpo di Stato organizzato da Gutierrez - ha proseguito Correa - ma non ho fatto e non farò un passo indietro. “Il mio obiettivo era questo, ha proseguito Correa: o uscire come un Presidente di una nazione degna, o uscire cadavere”. E ancora: “I cospiratori di sempre hanno sequestrato il Presidente e, per liberarlo, sono caduti fratelli ecuadoriani. E’ un giorno di profonda tristezza che non avrei mai creduto di dover vivere”.
Si stringe quindi il cerchio sui mandanti del golpe. Correa, pur essendo uomo di dialogo, per nulla venato da tentazioni militariste, pare deciso a ripulire la scena golpista una volta per tutte. Quanto avvenuto a Quito, però, riporta alla ribalta non solo i periodici tentativi delle oligarchie nazionali latinoamericane di azzerare i risultati elettorali e, con essi, le politiche d’inclusione sociale e di riassetto politico interno dell’indipendentismo latinoamericano. Sullo sfondo, inutile far finta di nulla, c’è la gestione della terra e delle risorse energetiche continentali, che non sono più a disposizione delle multinazionali statunitensi e delle oligarchie locali a loro alleate.
Hanno rappresentato, storicamente, la fortuna e la croce dei paesi latinoamericani, oggetto delle criminali attenzioni di Washington proprio in ragione del consolidamento del comando militare, del controllo politico e dell’accumulo di ricchezze che ha permesso agli Stati Uniti di calmierare il mercato interno da un lato e di far scorazzare le sue major alimentari ed energetiche nell’immensa praterie dei profitti tramite saccheggio. Proprio l’inversione di questo quadro ha destabilizzato il quadro del dominio statunitense. Dall’America Latina, o meglio, dal suo saccheggio, è nato l’impero; dalla stessa area ha subìto e subisce il primo livello della sua decrescita.
Le democrazie latinoamericane hanno ripreso il controllo sulle loro risorse, attivato politiche economiche di equità redistributiva tese a ridurre la sperequazione enorme tra masse infinite di diseredati e piccole oligarchie nazionali, e si sono associate tra loro costruendo un mercato interno continentale basato sulle reciproche necessità e possibilità. E nello schieramento internazionale, l’abbandono del Washington consensus ha ulteriormente stabilito la nuova stagione latinoamericana, che vede e trova nuovi sbocchi internazionali ai suoi prodotti. Un programma che, non a caso, vede le economie locali in crescita robusta, in assoluta controtendenza rispetto al resto della scena globale.
Per questo la calma che è tornata a Quito non significa che tutto sia finito. Gli USA non hanno intenzione di restare a guardare: cospirazione, finanziamenti e campagne mediatiche vengono organizzate con questo fine. Sia perché Venezuela, Brasile, Ecuador e Bolivia, dispongono una quota molto importante delle riserve energetiche mondiali che fanno gola alla Casa Bianca, sia perché l’altra faccia della medaglia è anche militare. Basi militari statunitensi restituite ai governi locali, accordi commerciali per acquisto e vendita di materiale bellico con Russia, Cina, Iran, accelerazione verso un modello di difesa continentale, restituzione piena delle proprie Forze Armate alla sovranità nazionale, sono tutti aspetti direttamente intrecciati con il nuovo quadro politico indipendentista latinoamericano. Da qui nascono i golpe sponsorizzati da Washington, da qui la resistenza latinoamericana, un tempo inimmaginabile.
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di mazzetta
Il dibattito sulla legalizzazione delle droghe soffre una fase di stanca, anche se la guerra alla droga è già stata dichiarata un fallimento d qualche anno proprio dai suoi proponenti. La debolezza della posizione dei fautori della guerra alla droga è il motivo principale per il quale qualsiasi tentativo di avviare un dibattito è soffocato nella culla, non esistono più ragioni da opporre alla legalizzazione, le proposte alternative si sono rivelate costose e fallimentari.
In California invece se ne discute moltissimo, perché prossimamente si voterà un referendum che propone la legalizzazione della marijuana, le caratteristiche dello stato americano e il suo assetto legislativo offrono una rara occasione per sbirciare cosa potrebbe succedere se si coagulassero forti movimenti per la legalizzazione in altri paesi.
In California si discute solamente della legalizzazione della marijuana,che è già legale per “usi medici” tanto poco definiti da prestarsi a un'interpretazione molto estensiva di quanti siano i malati bisognosi dell'erba miracolosa. Posto che i conservatori sono allo sbando e che la legalizzazione è stata presentata come un'ottima occasione per incassare tasse e per risparmiare le follie che si spendono per la detenzione dei pothead beccati con gli spinelli.
Finora a puntare soldi contro il referendum sono stati principalmente le associazioni di polizia e quella dei birrai, anche se tra questi si sono registrate numerose prese di distanza. In controtendenza con il resto del mondo la polizia è contro la legalizzazione, perché la legge californiana dice che i proventi dei sequestri per droga diventano finanziamenti alla polizia e al sistema giudiziario e, in questo modo, la legalizzazione della marijuana rappresenta un possibile calo degli introiti. Se i poliziotti del resto del mondo si sentono inutili a rincorrere gli spinellanti, quelli californiani li vedono come bancomat ambulanti da mungere per migliorare il budget.
È già andata bene che le guardie carcerarie, lobby potentissima, per ora si siano astenute ed è una novità, perché in altre occasioni si erano schierate contro leggi che riducevano il ricorso al carcere. A favore invece ci sono i sindacati, compreso quello potente degli autotrasportatori, associazioni progressiste e molti esponenti dello star system.
La concorrenza tra alcool e marijuana è evidente dallo schieramento dei birrai e fa un po' impressione trovare polizia e produttori di alcool dalla stessa parte, visto che in California, come un po' ovunque, oltre il 30% dei crimini violenti sono perpetrati da ubriachi. A queste considerazioni molto materiali si aggiungono poi gli schieramenti in nome della morale e se le chiese sono in maggior parte schierate contro, non si può dire che le grandi corporation della rete siano a favore.
Facebook ha prima rifiutato una pubblicità dei promotori del referendum perché aveva una foglia di marijuana come immagine, poi l'ha rifiutata anche con altre immagini, facendo arrabbiare qualche milione di utenti che hanno messo la foglia come immagine nel loro profilo (sic). Reddit invece ha rifiutato la pubblicità dicendo che di non guadagnare sulla questione e allora è successo qualcosa di inusuale.
Reddit è una internet company acquisita dal gigante Condè Nast, alla direzione del quale si deve il divieto, e i suoi dipendenti e manager hanno deciso di ribellarsi al divieto pubblicando gratis gli annunci, così da non procurare alcun arricchimento a Condè Nast che ci teneva tanto. Facile immaginare che la cosa avrà un seguito all'interno della corporation, ma intanto l'annuncio è passato e la ribellione ha fatto notizia.
Per la prima volta da molto tempo il referendum sembra avere buone possibilità di passare, già molti stati hanno raggiunto la California dotandosi di una legislazione per l'uso terapeutico della marijuana e già da tempo le forze di polizia, anche quelle federali, hanno direttive precise di concentrarsi sui traffici all'ingrosso, ma è soprattutto un lento cambiamento culturale che sembra essersi finalmente compiuto, la legalizzazione ha sfondato anche a destra, privando il confronto di quel sapore da guerra di religione che fino ad ora aveva sempre contribuito a far fallire tentativi simili.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. “Vogliamo mostrare al mondo che non tutti gli ebrei sono d'accordo con le politiche del governo israeliano.” Così Richard Kuper, uno degli organizzatori inglesi della nave in rotta verso Gaza. Tra le numerose flotillas in procinto di sfondare l'embargo israeliano su Gaza, una simbolica novità: Irene, undici persone a bordo, tutti attivisti ebrei. Arrivata martedì mattina nei pressi di Gaza, la nave è stata abbordata senza scontri dall'esercito israeliano e dirottata al porto di Ashdod.
A quattro mesi dal massacro a bordo della Gaza Flotilla, quando l'esercito israeliano aprì il fuoco sugli attivisti turchi uccidendone nove, un nuovo round di navi europee e americane tentano di sfondare l'embargo sulla Striscia di Gaza. Per evitare di essere bloccati prima ancora di togliere l'ancora, gli organizzatori di Irene, una nave di dieci metri, hanno tenuto segreta fino all'ultimo la località di partenza.
È già capitato che analoghe iniziative siano abortite sul nascere, ogni volta che le autorità locali, piegando la testa ai diktat israeliani, negano l'autorizzazione a lasciare i propri porti e sequestrano le navi in partenza, rimpatriando gli attivisti. Che hanno capito l'antifona e ora mantengono lo stretto riserbo sui preparativi.
A bordo di Irene, finanziata da donatori privati e dal Link Partei tedesco, gli attivisti trasportano un carico di giocattoli per bambini, strumenti musicali, libri, reti da pesca per i pescatori e protesi ortopediche per i pazienti degli ospedali di Gaza, in disperato bisogno di materiale medico dopo anni di embargo. Una bandiera arcobaleno della pace sventolerà in cima al pennone, con su scritti i nomi di decine di ebrei che hanno finanziato l'iniziativa da tutto il mondo.
“Questa nave ebraica per Gaza è un atto simbolico di protesta contro l'occupazione israeliana dei Territori palestinesi e contro l'assedio di Gaza,” dice Richard Kuper, intervistato da Al Jazeera. La composizione dell'equipaggio è infatti emblematica. Secondo Yonatan Shapira, pilota militare israeliano e membro della spedizione, nessuno a bordo cerca lo scontro con l'IDF. “Siamo non-violenti, ma se l'esercito israeliano fermerà la nave, non li aiuteremo a portarci al porto di Ashdod [città portuale israeliana a ridosso della Striscia di Gaza, ndr].”
Reuven Moskovitz ha ottantadue anni ed è un sopravvissuto dell'Olocausto: “È un dovere sacro per me, come sopravvissuto, protestare contro la persecuzione, l'oppressione e l'imprigionamento di così tante persone a Gaza, tra cui più di 800.000 bambini.” Secondo Moskovitz, lo Stato d'Israele era un grande sogno che è diventato realtà. “Ma dobbiamo fare in modo che non diventi un incubo. Sono sionista,” prosegue l'ottuagenario attivista a bordo della nave, “e credo che noi ebrei abbiamo il diritto di vivere qui, ma non di rubare ai palestinesi la loro terra e cancellare i diritti di un milione e mezzo di persone. Siamo due popoli ma il nostro futuro è uno.”
Anche secondo Rami Elhanan aiutare i palestinesi di Gaza è un dovere morale e il percorso più sicuro verso la pace. La figlia di Rami venne assassinata in un attacco suicida ad un centro commerciale a Gerusalemme nel 1997. “Il milione e mezzo di persone a Gaza sono vittime tanto quanto lo sono io,” conclude Rami.
La notizia della nave, riportata sul sito del quotidiano di sinistra Ha'aretz, ha dato il La ad una violenta polemica. La maggior parte dei commenti dei lettori sono spietati nei confronti degli attivisti, chiamati “traditori” e “agenti di Hamas,” mentre alcuni si augurano persino che la nave venga affondata dall'esercito: “Solo perché sono etnicamente ebrei non vuol dire che le loro opinioni abbiano alcun valore,” dice un lettore.
La nave “Ebrei per la Giustizia” ha lasciato il porto di Famagosta, nella parte turca di Cipro, nella giornata di domenica. È arrivata in vista della costa di Gaza martedì mattina. È stata subito intercettata da una flotta della marina militare israeliana. Poiché gli attivisti si sono rifiutati di eseguire gli ordini dell'IDF, che intimava loro di cambiare rotta verso il porto israeliano di Ashdod, una nave militare ha accostato la Irene e i soldati hanno preso il controllo della nave pacifista.
Secondo il portavoce dell'esercito, “la loro intenzione era di generare attenzione mediatica e mettere in scena una provocazione. Una situazione particolarmente deplorevole, in quanto stiamo parlando di un gruppo di ebrei e cittadini israeliani e persino qualcuno che ha vestito i panni dell'ufficiale dell'IDF.”
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di Michele Paris
In seguito alle crescenti pressioni esercitate da Pechino, il governo giapponese ha alla fine rilasciato il capitano del peschereccio cinese arrestato dopo uno scontro tra imbarcazioni avvenuto nelle acque di un arcipelago conteso tra i due paesi. La rapida escalation del confronto, provocato da un episodio apparentemente di scarso rilievo, ha però improvvisamente fatto emergere tutte le tensioni latenti tra i due vicini, nonostante la loro sempre più stretta interdipendenza economica.
L’episodio scatenante la diatriba risale al 7 settembre scorso, quando il peschereccio del capitano cinese, Zhan Qixiong, sarebbe entrato in collisione con due pattuglie nipponiche nelle acque delle isole Diaoyu (Senkaku per i giapponesi), situate a poco meno di duecento chilometri a est di Taiwan, controllate da Tokyo e rivendicate dalla Cina. In seguito all’incidente, le autorità giapponesi avevano arrestato lo stesso capitano e i membri dell’equipaggio. Mentre questi ultimi sarebbero stati rilasciati poco più tardi, il primo è rimasto agli arresti, provocano sdegnate reazioni cinesi.
Secondo Pechino, i giapponesi non potevano trattenere né processare un cittadino cinese arrestato in acque che la Cina ritiene rientrino nella propria sovranità. Da qui la richiesta di immediata scarcerazione. Per tutta risposta, una corte giapponese aveva emesso un ordine di custodia che prolungava la detenzione del capitano Zhan Qixiong di altri dieci giorni. I cinesi hanno allora alzato il livello dello scontro, affidando ad alcuni alti ufficiali una serie di dichiarazioni minacciose che preannunciavano possibili “serie contromisure” all’inflessibilità di Tokyo.
A conferma della gravità del confronto, la Cina ha successivamente sospeso ogni contatto a livello governativo con il vicino, mentre il premier Wen Jiabao si è esplicitamente rifiutato di incontrare il primo ministro giapponese, Naoto Kan, nel corso dell’Assemblea dell’ONU della scorsa settimana. In ritorsione alla detenzione del capitano cinese, Pechino ha poi anche arrestato quattro cittadini giapponesi, accusati di aver filmato un’installazione militare nella provincia settentrionale di Hebei. Ancora più grave è stato infine, anche se negato da Pechino, il blocco delle esportazioni verso il Giappone delle cosiddette terre rare, minerali impiegati nella fabbricazione di sistemi elettronici fondamentali per l’industria aeronautica e bellica.
Alle minacce cinesi, il governo nipponico ha risposto con dichiarazioni volte a gettare acqua sul fuoco, invitando il potente vicino a seguire la strada del dialogo per la risoluzione della crisi diplomatica. Pochi giorni più tardi è giunta così la liberazione del capitano cinese che ha potuto fare ritorno in patria. Quest’ultimo provvedimento, tuttavia, non ha posto fine al confronto, dal momento che la Cina ha rilanciato chiedendo le scuse ufficiali da parte del governo giapponese che si è però rifiutato di fare ulteriori concessioni a Pechino.
L’intera vicenda esemplifica a sufficienza il dilemma nel quale si dibattono i vertici politici giapponesi nel fronteggiare il crescente peso cinese sulla scena asiatica e planetaria. La recente sfida interna al Partito Democratico giapponese tra il primo ministro Naoto Kan e l’ex segretario Ichiro Ozawa, ad esempio, si è giocata in gran parte proprio sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina e sull’eventuale revisione dei rapporti con l’alleato storico, gli Stati Uniti.
Il Giappone da qualche settimana ha perso ufficialmente il secondo posto nella graduatoria delle potenze economiche mondiali a beneficio della Cina, con la quale mantiene ormai intensissimi legami economici. Questa nuova realtà spinge dunque ampi strati dell’élite politica ed economica giapponese a chiedere un avvicinamento diplomatico a Pechino, a discapito delle relazioni con Washington.
Parallelamente, rimangono fortissime le resistenze di quanti puntano a consolidare la tradizionale alleanza con gli Stati Uniti, senza cedere terreno all’allargamento dell’influenza cinese nel continente. D’altra parte, è estremamente probabile che l’irrigidimento giapponese sulla detenzione del capitano del peschereccio cinese sia stato in qualche modo appoggiato, se non suggerito, da Washington. Un’ingerenza quella americana che rientrerebbe in un disegno teso a esercitare pressioni sulla Cina su più fronti, all’interno di un’altra crescente rivalità che mette di fronte le prime due potenze economiche del pianeta.
Se ufficialmente l’amministrazione Obama dichiara di voler mantenere ottimi rapporti sia con Tokyo che con Pechino, nei confronti cinesi sono state sollevate recentemente numerose questioni che hanno causato non pochi attriti. In primo luogo c’è la polemica attorno alla manipolazione della moneta cinese da parte delle autorità di Pechino per mantenere competitive le proprie esportazioni. A ciò va aggiunto il polverone diplomatico sollevato da alcune esercitazioni militari condotte dagli USA assieme alla marina sudcoreana nelle acque al largo della costa cinese e l’appoggio fornito dal Dipartimento di Stato americano ai paesi del sud-est asiatico nella contesa con Pechino di alcune isole nel Mar Cinese meridionale.
Così, mentre nell’incontro all’ONU tra Obama e il premier cinese Wen Jiabao è stata sollevata con toni più o meno minacciosi la questione valutaria, che danneggia le esportazioni americane, il cordiale faccia a faccia con il capo del governo giapponese non ha nemmeno preso in considerazione l’intervento delle autorità monetarie di Tokyo che avevano appena provocato la svalutazione dello yen nei confronti del dollaro USA.
Come ha ricordato lo stesso presidente Obama, l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone rappresenta d’altronde “uno dei fondamenti della pace e della sicurezza mondiale”. In altre parole, Tokyo rimane un alleato fondamentale per gli obiettivi egemonici di Washington in Asia. Ciò, nonostante la saldezza dei rapporti fosse stata messa temporaneamente in discussione lo scorso anno, dopo la sconfitta elettorale del Partito Liberal-Democratico che aveva governato il Giappone praticamente in maniera ininterrotta per oltre mezzo secolo, assicurando la costante presenza americana in estremo oriente.
Da parte sua, la Cina non sembra in ogni caso disposta a cedere sulle questioni relative ai propri interessi strategici, della sicurezza nazionale o dell’integrità territoriale. Una situazione che rischia così di alimentare ulteriori tensioni tra le prime tre potenze economiche mondiali in un’area tanto delicata per gli equilibri di potere dell’intero pianeta.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Continuano le defezioni nell'Amministrazione Obama: dopo Christina Romer, ora Larry Summers e Rahm Emanuel si preparano a lasciare il governo. Romer e Summers sono stati i due consiglieri chiave dei due team economici presidenziali, mentre Emanuel è il Capo di Gabinetto, ovvero il factotum di Obama a Washington. Potrebbe essere una mossa disperata di Obama, a picco nei sondaggi in vista delle elezioni parlamentari di Novembre, per dare l'impressione di una discontinuità nel governo.
Secondo Bloomberg News, notizia poi confermata dalla Casa Bianca, Larry Summers avrebbe voluto lasciare già alla fine del 2009, ma su insistenza del Presidente avrebbe accettato di restare un altro anno per gestire gli effetti delle misure economiche prese all'inizio del 2009, ovvero il salvataggio bancario (tre trilioni di dollari) e il piano di stimolo all'economia (787 miliardi di dollari).
In aspettativa dalla sua cattedra di Economia ad Harvard (che perderebbe se posticipasse il suo ritorno oltre gennaio 2011), afferma in una nota che “non vede l'ora di tornare a insegnare e scrivere sui fondamentali della creazione di posti di lavoro e di stabilizzazione della finanza, come anche sull'integrazione dei paesi emergenti nel sistema globale.”
Il consigliere economico è nel mirino dell'ala più liberale del partito democratico sin dal primo giorno, per via delle sue ricette eccessivamente liberiste e dei suoi trascorsi come manager dell'hedge fund D.E.Shaw. Per la sua personalità aggressiva e le frequenti uscite fuori luogo, Summers è sicuramente un personaggio controverso. Segretario di Stato negli ultimi anni della presidenza di Bill Clinton, Summers è stato l'artefice della micidiale deregulation che abolì lo "Glass-Steagall Act", permettendo la creazione delle megabanche, che nel 2008 colarono a picco insieme all'intera economia globale.
Diventato in seguito Presidente dell'Università di Harvard, Summers fu costretto a dimettersi dopo aver dichiarato che “differenze innate tra i sessi spiegherebbero perché poche donne hanno successo nella ricerca scientifica”, attirandosi una pioggia di critiche. Imperdonabile gaffe, che probabilmente gli è costata il posto di Segretario del Tesoro nell'attuale amministrazione.
Solo due settimane fa era andata via anche Christina Romer, primo consigliere economico di Obama. Per motivi familiari. Anche se non è mistero che la Romer era ai ferri corti proprio con Summers. Nonostante la Romer fosse il capo del team economico, pare che il Presidente ascoltasse esclusivamente i consigli del suo rivale, che a volte cercava persino di escludere la Romer dai briefing.
Le dimissioni dei due consiglieri economici (ai ferri corti con l'ala progressista del partito) sono un chiaro segnale di discontinuità nella politica economica americana, che Obama si appresta a ridisegnare in prossimità delle elezioni. Ma in direzione di una svolta ancora più liberista. Secondo fonti di Politico.com il presidente vorrebbe nominare al posto di Summers una donna proveniente dal mondo degli affari, possibilmente un amministratore delegato di una grossa corporation.
Questa scelta toglierebbe mordente alle strampalate accuse repubblicane di essere un presidente socialista, ma sposterebbe ancora più a destra la barra economica. In un momento in cui è chiaro a tutti che l'unico modo per invertire il disastro in cui sta sprofondando l'economia americana è un nuovo e ingente piano di stimolo federale, chiesto quotidianamente da Paul Krugman sulle colonne del New York Times.
Un terzo pezzo grosso sta per lasciare la scacchiera: l'ultima indiscrezione parla delle dimissioni della longa manus di Obama sulla capitale, il Capo di Gabinetto Rahm Emanuel. L'esuberante tuttofare si appresterebbe a lasciare la Casa Bianca per candidarsi alle primarie per il sindaco di Chicago, sua città natale. Per evitare l'accusa di conflitto d’interessi e di usare la sua carica per influenzare le primarie, Rahm potrebbe andarsene già all'inizio di Ottobre. Facendo felici molti democratici dell'ala sinistra del partito, che mal sopportano i modi sgarbati e irruenti di Emanuel.
Durante la battaglia per la riforma sanitaria, infatti, il Capo di Gabinetto arrivò a bollare come “fottutamente ritardati” i membri del gruppo progressista del Congresso. Prendendosi parole persino da Sarah Palin, che pretese delle scuse per il suo figlio ultimogenito affetto da sindrome di Down. L'uscita di scena di Emanuel rappresenta una grossa gatta da pelare per Obama, che si è affidato ai suoi modi bruschi per torcere le braccia dei senatori e raccattare i voti necessari per approvare la rifoma sanitaria.
Anche se le tre defezioni sono tra le persone meno gradite ai progressisti, sembra assai improbabile che la situazione possa migliorare. Obama sta cercando, infatti, di dare l'impressione di un cambiamento di strategia, per non prestare il fianco alle accuse di socialismo provenienti dalla destra repubblicana in vista delle elezioni. Le nuove nomine dunque saranno pesate sul piatto del gradimento da parte delle grandi banche e delle multinazionali, in una rincorsa a destra che preannuncia un ulteriore aumento della disoccupazione e un protrarsi della crisi verso uno scenario di deflazione.