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di Michele Paris
Con una vergognosa sentenza, qualche giorno fa un tribunale federale americano ha bocciato una causa intentata da cinque vittime delle cosiddette “deportazioni straordinarie” contro il governo americano e una compagnia aerea privata. Il verdetto rappresenta una chiara vittoria per il presidente Obama, il quale, nonostante i proclami durante la campagna elettorale del 2008, aveva da subito seguito le orme del suo predecessore nell’ambito della sicurezza nazionale. A prevalere è stato il “privilegio” del segreto di Stato, invocato per bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa legale nei confronti dei metodi illegali adottati nella lotta al terrorismo a partire dall’11 settembre 2001.
La controversia legata alle “extraordinary renditions” dirette dalla CIA era iniziata nel maggio del 2007, quando l’American Civil Liberties Union (ACLU) aveva presentato un esposto per conto del cittadino etiope legalmente residente in Gran Bretagna, Binyam Mohamed, e di altri quattro presunti terroristi, tra cui il marocchino naturalizzato italiano Abou Elkassim Britel. Tutti e cinque, tra il 2001 e il 2003, erano finiti nella rete dei servizi segreti americani e condotti illegalmente in carceri di paesi come Marocco, Egitto e Afghanistan, dove avrebbero subito ripetute torture durante gli interrogatori.
La denuncia era rivolta in particolare alla compagnia privata di trasporto Jeppesen Dataplan, appaltatrice del Pentagono e consociata della corporation Boeing, accusata di aver fornito supporto logistico al personale della CIA occupandosi dei voli intercontinentali che trasportavano i sospettati di terrorismo. Che i vertici della Jeppesen fossero a conoscenza dello scopo dei “voli della tortura” era stato rivelato, tra l’altro, da un articolo del New Yorker, dove si rendeva conto di una riunione interna alla società durante la quale un dirigente sosteneva candidamente: “Noi ci occupiamo di tutte le deportazioni straordinarie, sapete, i voli della tortura. Perché, ammettiamolo, alcuni dei voli hanno questo scopo”.
Pur non essendo chiamata in causa dall’azione legale dell’ACLU, l’amministrazione Bush nel 2007 era immediatamente intervenuta, sostenendo che il processo doveva essere impedito per non mettere in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nel febbraio del 2008 la richiesta dell’allora presidente americano venne accolta. L’ACLU presentò tuttavia ricorso e in attesa della nuova sentenza un nuovo inquilino si era insediato alla Casa Bianca.
Suscitando la sorpresa di quanti si attendevano uno stop alle aberrazioni del post-11 settembre, il nuovo Ministro della Giustizia (Attorney General) nominato da Obama, Eric H. Holder, assunse la medesima posizione dell’amministrazione Bush nel caso “Mohamed contro Jeppesen Dataplan, Inc.”. Il caso, cioè, andava liquidato sulla base del segreto di Stato. Nell’aprile del 2009 i tre giudici della Corte federale d’Appello del Nono Circuito di San Francisco si espressero però contro il governo americano. Secondo il giudice Michael D. Hawkins la dottrina del segreto di Stato in questo procedimento non aveva “alcun fondamento logico”.
Sotto le pressioni dell’establishment militare e dei servizi di sicurezza, preoccupati per la possibile rivelazione dei legami tra agenzie governative, intelligence di paesi stranieri e vertici di alcune corporations legate al Dipartimento della Difesa, che hanno fatto affari partecipando a programmi illegali di tortura, l’amministrazione Obama chiese un nuovo parere di tutti gli undici giudici (“en banc”) che compongono il Tribunale d’Appello di San Francisco. Il risultato è stato alla fine il recentissimo verdetto, ottenuto con una risicata maggioranza di sei a cinque, che ha annullato la sentenza precedente del giudice Hawkins.
Secondo il giudice Raymond C. Fisher, autore della sentenza, il procedimento ha posto un “doloroso conflitto tra i diritti umani e la sicurezza nazionale”. La decisione della maggioranza dei giudici ha stabilito che il caso in questione presenta una rara circostanza nella quale la “necessità del governo di proteggere segreti di Stato va al di là del diritto degli attori di ottenere udienza in un’aula di tribunale”.
Se il ricorso al segreto di Stato non rappresenta certo una novità per i governi americani, in passato esso era stato invocato per lo più al fine di impedire nel corso di un processo di accedere a singoli documenti o prove specifiche che potevano teoricamente mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. Con le ultime due amministrazioni, invece, il segreto di Stato è diventato il pretesto per sopprimere interi procedimenti legali, con il risultato che il potere esecutivo rende impossibile a quello giudiziario di esprimersi sulle proprie responsabilità e i propri crimini.
Il colpo di spugna sulle responsabilità per le “extraordinary renditions” volute dall’amministrazione Obama e concesso da una corte considerata tra le più progressiste degli Stati Uniti - il giudice Fisher è un ex dipendente del Dipartimento di Giustizia, nominato da Bill Clinton nel 1999 - rivela chiaramente il più o meno aperto consenso di tutto il sistema americano alla virata profondamente anti-democratica che ha segnato l’ultimo decennio dall’altra parte dell’oceano.
Sparite in fretta le illusioni del cambiamento, Obama e il suo staff hanno presto fatto capire che i responsabili degli eccessi della lotta al terrorismo non avrebbero dovuto rispondere alla giustizia, né i metodi autoritari di chi li ha preceduti alla Casa Bianca sarebbero stati messi in discussione, se non tramite trascurabili provvedimenti di facciata. Sotto l’autorità del presidente democratico le deportazioni illegali sono proseguite, così come gli assassini mirati in paesi esteri di sospettati di terrorismo senza alcun fondamento legale e, di contro, sono stati impediti i ricorsi dei detenuti in Afghanistan senza processo.
Di fronte alla sentenza, l’ACLU ha dichiarato di volersi appellare ora alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale potrebbe così tornare ad esprimersi sui limiti del segreto di Stato dopo oltre mezzo secolo. La composizione della Corte, guidata dall’ultraconservatore John G. Roberts, non permette tuttavia di sperare in un rovesciamento del verdetto della Corte federale californiana.
I precedenti del tribunale costituzionale americano negli ultimi anni minacciano piuttosto un ulteriore consolidamento dei poteri dell’esecutivo in materia di sicurezza nazionale ed una nuova stretta autoritaria che già rappresentano l’eredità più pesante degli attacchi dell’11 settembre.
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di mazzetta
Il 12 settembre la Turchia andrà ad un referendum relativo a una serie di modifiche costituzionali che avvicineranno lo stato turco alle democrazie europee. Il fatto che a promuovere le riforme ci sia il partito “islamico” al governo, ha offerto ai partiti dell'opposizione il pretesto per gridare all'islamizzazione dello Stato. Ma si tratta di riforme a lungo attese, perché destinate a rimuovere alcune anomalie nella Costituzione scritta nel 1982 dai militari che, con un golpe, avevano preso il potere nel 1980.
La storia moderna della Turchia è fatta di ripetuti interventi dei militari nella politica del paese. I militari si considerano custodi della laicità dello Stato e dell'impronta kemalista sulla Turchia moderna; ma è più che evidente che negli anni il collante ideologico che ha tenuto insieme lo “stato profondo” turco si è indebolito molto e che superiori interessi economici hanno spinto la Turchia verso la rimozione di queste vistose anomalie.
In realtà lo stato profondo in Turchia è tutt'altro che sconfitto, l'emergere dello scandalo di Ergenekon (una rete clandestina simile alla Gladio italiana, ma molto più attiva ed efficiente) ha messo in luce l'esistenza di progetti golpisti ben oltre il 2000 e l'esistenza di nocciolo duro che non si rassegna all'idea di una democrazia turca che non sia tenuta sotto scacco da quella che negli anni è diventata una specie di mafia.
Una mafia partecipata da parti della burocrazia statale e dell'esercito, che agiscono insieme alla criminalità organizzata e politica per manipolare il livello di tensione nella società, al fine di promuovere disegni che con la democrazia hanno ben poco a che fare. Attività che si coronano con il controllo del sistema giudiziario, platealmente intimorito e reticente quando si tratta di giudicare i militari o gli scandali più eclatanti.
Le riforme costituzionali mirano principalmente a trasferire il potere di nomina di alcuni giudici al Parlamento, all'introdurre il diritto allo sciopero e ai contratti collettivi per i dipendenti pubblici e, elemento non irrilevante, revocano l'immunità garantita agli autori del sanguinoso golpe del 1980 Golpe che oltre a fare una strage traghettò la Turchia nel mare aperto del mercato globale, di fatto allineando il paese alla visione economica di Reagan. Molti anni più tardi i partiti vicini ai golpisti perderanno il potere, sprecando un grande vantaggio di consensi in inconcludenti inciuci mafiosi e spianando così la strada agli “islamici” dell'AKP. Oggi alle opposizioni non resta molto altro da fare che gridare al pericolo islamico, visto che i sondaggi sembrano sostenere la speranza di una vittoria robusta per i referendum voluti dal governo.
Il potere in questo caso non sembra logorare Erdogan e il suo partito, le opposizioni sono divise e troppo lontane tra loro per sperare di diventare maggioranza. Oltre ai partiti che si richiamano alla “turchità” si oppongono ai referendum i due partiti curdi: quello legale e quello dichiarato fuorilegge, che ha il proprio leader imprigionato in una fortezza su un'isola da quando il governo italiano non decise unirsi a quello turco nel ritenerlo un “terrorista”. Per i curdi le riforme costituzionali non prevedono spazi per le loro richieste d'autonomia e quindi la nuova costituzione é da respingere.
Non che non traspaia un certo autolesionismo da una posizione del genere, soprattutto considerando che la Costituzione, così com'è, rende molto più dure le ipotesi di reazione dello Stato turco alle intemperanze dei curdi e che a difendere lo status quo sono in prima fila proprio quei militari che hanno usato i curdi per decenni, massacrandoli a piacimento. I curdi sembrano al momento intenzionati a sfruttare la frattura tra Turchia e Israele e sembrano godere d'improvvisa popolarità sui media occidentali.
Della “questione curda” non si sentiva parlare da quando i curdi furono “liberati” da Saddam, anche se ai turchi e agli iraniani fu concesso di bombardare l'Iraq per combatterli meglio (ma questo non lo ha detto nessuno). Oggi invece emergono accuse di “crimini di guerra” contro l'esercito turco; il timing somiglia alla storia dei curdi gassati da Saddam in grazia d'Occidente, che poi diventano un capo d'accusa quando Saddam piace di meno.
A giudicare sono sempre quei paesi che hanno armato sia la Turchia che l'Iraq ed è facile prevedere che i curdi rischieranno per l'ennesima volta di fare la fine dei vasi di coccio tra quelli di ferro. Il governo Erdogan è sembrato più dialogante con loro, ma non è riuscito a frenare i militari e nemmeno a darsi la forza di supportare l'introduzione dell'autonomia curda nella Costituzione. Il problema di Erdogan è tutto nel riuscire a conservare il consenso che ha guadagnato e per farlo sembra disposto a più di un compromesso; l'agenda del suo governo ha poco per l'Islam, molto per i grandi capitali e per l'aspirazione all'ingresso nella UE dalla porta principale.
In questa chiave, più nazionalista che prettamente “islamica”, è forse opportuno leggere l'attivismo diplomatico della Turchia, anche se le iniziative prese per porsi come mediatore nella questione iraniana e risolutore dell'assedio di Gaza non hanno fruttato grandi applausi all'estero, e in patria sono stati letti come manifestazioni d'orgoglio e di rilevanza da parte del paese. Azioni volte a tranquillizzare chi pensa alla difesa della “turchità” e a sottrarre ossigeno e militanti all'estrema destra nazionalista, quella capace di far uccidere il sacerdote italiano don Santoro solo per creare scompiglio e permettere ad altri estremisti della destra europea di gridare al pericolo islamico.
Strategia della tensione, provocazioni fin troppo evidenti ed elementari che però non mancano di sortire effetti a largo raggio, ben oltre il Bosforo. Se il referendum passerà, la Turchia sarà un po' più vicina all'Europa e alla democrazia, anche se qualcuno dirà che è un passo verso la sua islamizzazione. Quella che in Turchia dicono che è inevitabile se si toglie il potere ai militari, e quella che in Europa dicono di temere, senza mai citare il problema posto dall'esistenza e dalle pessime azioni dei nazionalisti turchi e dell'inquietante “stato profondo”.
Una strana asimmetria, perché l'Europa delle cancellerie parla dei problemi di democrazia posti dal potere dell'esercito turco, mentre le opinioni pubbliche sono invece orientate a vedere la questione dal punto di vista del temibile ingresso in Europa di milioni di musulmani turchi. Che però in Europa (e nella Nato e in tutto il resto) ci sono già, anche se non hanno il bollino blu.
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di Carlo Musilli
“Parlano di me come se fossi un cane”. Con queste parole, pronunciate nel Milwaukee, davanti a una platea di sindacalisti riuniti per celebrare il Labour Day, si è sfogato Barack Obama. Ha davvero di che lamentarsi. Quella appena trascorsa è stata per lui un’estate da incubo. Per capire la portata dei guai in cui si è cacciato il Presidente americano, è sufficiente un’occhiata ai sondaggi. Il loro andamento ricorda una delle rovinose cadute nel burrone di Willy il Coyote: stando ai dati dell’Istituto Rasmussen, ad oggi Obama è appoggiato dal 42% degli americani. Mai caduto così in basso prima d’ora. Rispetto al gennaio 2009, quando iniziò il suo lavoro alla Casa Bianca, ha perso qualcosa come il 21% dei consensi.
Sembrano lontanissimi i tempi del “Yes, we can”. Obama ripete ancora lo slogan, forse il più azzeccato nella storia delle campagne elettorali Usa, ma non appare più convincente come allora. Sempre più magro, con i capelli sempre più grigi, lo stesso Presidente che era riuscito a mettere d’accordo schiere d’elettori fra loro tecnicamente incompatibili, oggi si dimostra sorprendentemente incapace di gestire quello che mai avremmo pensato gli sfuggisse di mano, l’opinione pubblica.
A darne la misura è il suo rapporto con l’11 settembre. Più che la data di un attentato terroristico, la sequenza di numeri 9/11 esprime un coagulo di significati simbolici. Sembrerebbe facile sfruttare un così potente strumento di coesione e di definizione dell’identità collettiva a proprio vantaggio. Almeno per un certo periodo, a Bush Jr è riuscito alla grande. Invece a Obama non riesce. Rimane come un diaframma, uno spazio indefinito fra lui e ciò che l’attentato a Ground Zero ancora rappresenta per gli americani. E il passare degli anni non c’entra.
“Così come la percezione della nostra vulnerabilità e della nostra politica estera è stata profondamente modificata dall’11 settembre, questo disastro cambierà il nostro modo di pensare all’ambiente e alle politiche energetiche negli anni a venire”. Nel giugno scorso Obama commentava con queste parole il diffondersi della marea nera nel Golfo del Messico, la più grave catastrofe ambientale nella storia degli Stati Uniti. La maggior parte del Paese non l’ha presa bene. Molti hanno capito ciò che il Presidente intendeva dire, ma a prevalere è stato un senso di fastidio, se non di autentico sdegno. Si sono offesi. Nemmeno se domattina l’Atlantico intero evaporasse in un quarto d’ora, per gli americani sarebbe paragonabile all’11 settembre. Ogni confronto, per quanto sensato, equivale a un insulto.
Purtroppo per i sondaggi, Obama ha continuato a dar prova della sua goffaggine con la psicologia di massa per tutta l’estate. La triste vicenda della moschea a Ground Zero ha segnato il tracollo della popolarità del Presidente, che di fronte alle irrazionali proteste dei cittadini ha risposto nel modo meno efficace. Ancora una volta, con la ragione. Ha indugiato in dissertazioni accademiche sulla libertà di religione garantita dalla Costituzione, sull’America come terra d’accoglienza e di tolleranza. E ha mancato clamorosamente il bersaglio. Di nuovo, il Paese gli chiedeva un diverso livello di comunicazione e lui non ha saputo rispondere. A questo punto, la distanza fra Obama e il significato dell’11 settembre è diventata incolmabile. La gente non ha più sentito il Presidente vicino come ai tempi di “Yes, we can”. Soprattutto, non l’ha più sentito americano.
Molti addirittura sono seriamente convinti che non lo sia. In un clima del genere, infatti, perfino quella scombinata accozzaglia del Partito Repubblicano ha capito su quale tasto conveniva battere. E ha sparato a zero sul Presidente usando il solito bazooka: Fox News, il canale volgarmente schierato che qualche anno fa ha convinto tutti che l’Iraq fosse stracolmo di armi di distruzione di massa. Risultato? Oggi diversi americani credono che Obama non sia nato negli Stati Uniti e che segretamente professi la religione islamica. Come dire, se non capisci cosa vuol dire l’11 settembre, è evidente, non sei uno di noi.
Fra meno di due mesi ci sono le elezioni di medio termine e nessuno punterebbe mezzo dollaro sui Democratici. È praticamente scontato il trionfo dei Repubblicani, che non hanno una guida, né un programma politico vero e proprio. In realtà, com’è ovvio, questa situazione non è direttamente legata a ciò che abbiamo detto sull’11 settembre, ma a una complessa serie di fili intrecciati. Soprattutto, è dovuta all’economia. Obama viene accusato di aver sprecato tutto il 2010 occupandosi di questioni tutto sommato marginali (le riforme della sanità e di Wall street, le guerre in Afghanistan e in Iraq, i negoziati di pace in Medio Oriente, la vicenda Bp), trascurando la cosa più importante per gli americani, la ripresa economica.
Per questo sabato scorso, sempre da Milwaukee, il Presidente ha annunciato un piano di opere pubbliche da 50 miliardi di dollari e la proroga del piano da 100 miliardi di dollari in 10 anni per le aziende che investono in ricerca. Molti credono si tratti di una trovata elettorale, perché il Congresso non approverà mai il provvedimento. Anche se lo fosse, probabilmente non funzionerà, le elezioni sono troppo vicine ormai. In ogni caso, nel frattempo, resta da affrontare l’11 settembre. O meglio, la memoria e le paure collettive che questa data evoca negli americani.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Il Presidente della Repubblica tedesca, Christian Wulff, non si é ancora pronunciato in merito alla decisione del board della Bundesbank che, giovedì scorso, ha deciso all'unanimità l'espulsione di Thilo Sarrazin, l'alto dirigente della Bundesbank che ha sconvolto di recente con i suoi commenti sulla presunta limitatezza intellettuale degli immigrati poveri e sulla peculiarità genetica degli ebrei. La Banca federale tedesca ha appunto chiesto la revoca della sua carica dal consiglio direttivo, lasciando la decisione ultima - come da prassi - al Presidente della Rebubblica tedesca. E anche l'SPD, il "Partito del popolo" al quale Sarrazin é iscritto, sta valutando la possibilità di espellerlo per ragioni "umane" dalle sue fila.
I membri del consiglio direttivo della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si erano riuniti giovedì scorso per decidere di Thilo Sarrazin in sua assenza. Il board si era pronunciato all'unanimità: Sarrazin non può continuare a rappresentare la Banca centrale di Germania, poiché il suo libro “La Germania si distrugge da sola” ha superato i limiti della convenienza. E ancora: il razzismo di Sarrazin rovina l'immagine della Bundesbank, un'istituzione economica che ha bisogno della totale fiducia pubblica per poter sopravvivere e che non può essere assolutamente sospettata, visto anche il meno recente passato della Repubblica federale, di covare fuochi xenofobi.
Da un punto di vista giuridico, tuttavia, la motivazione della Bundesbank appare debole: le opinioni di un membro del consiglio direttivo della Banca federale, per quanto vergognosamente razziste, non mettono in pericolo la riserva monetaria dei tedeschi. Raramente si è visto prendere decisioni economiche in base a codici d'etica e, di sicuro, la figura di Sarrazin non rischia di andare a intaccare gli interessi dell'istituzione bancaria tedesca solo per avere violato dei valori umani. La richiesta di espulsione di Sarrazin ha quindi ben altri radici, tutte di natura esclusivamente politica.
La Cancelliera Angela Merkel (CDU) ha espresso più volte la sua indignazione per il libro di Sarrazin, augurandosi una risoluzione decisa e "indipendente" da parte della Bundesbank. Inutile sottolineare che i desideri della "fanciulla venuta dall'est" non sono capricci di poco conto da poter ignorare a piacimento. Anche il Presidente della Banca centrale europea (BCE), Jean-Claude Trichet, ha commentato le posizioni di Sarrazin in risposta ad alcuni giornalisti e non ha nascosto il suo disappunto. "Come cittadino", Trichet si è detto "scioccato" dalle affermazioni di Sarrazin; in veste di Presidente della BCE, invece, ha rinnovato la sua totale "fiducia nella Bundesbank" per quel che riguarda le decisioni del caso. Trarre conclusioni dal suo discorso è tanto logico quanto inevitabile.
L'ultima parola in proposito è stata pronunciata ieri sera da Christian Wulff, il Presidente della Repubblica federale: la burocrazia tedesca prevede che sia proprio lui a decidere ufficialmente dell'espulsione degli alti dirigenti della Bundesbank, dopo la richiesta del consiglio direttivo. Eletto lo scorso giugno in successione al dimissionario Horst Koehler, Wulff si è trovato a prendere la prima decisione importante del suo mandato. Una decisione che qualcuno dava quasi per scontata, ma per cui l'uomo della Merkel ha voluto interpellare anche la Cancelliera e il suo Governo, chiedendo a sorpresa il loro parere ufficiale. Le leggi sono molto complesse e si deve provare giuridicamente la possibilità di allontanare Sarrazin. Ma l'ora di Sarrazin alla Bundesbank è scoccata.
L'attenzione pubblica si sposta ora però sul Partito socialdemocratico tedesco, che Sarrazin ha rappresentato attivamente per molti anni nel panorama politico berlinese in qualità di ministro alle Finanze. Anche qui si sente l'esigenza di misure contro il politico e le sue idee anti-immigrazione. Michael Mueller, Presidente della frazione SPD di Berlino, sostiene di avere buone carte per ottenere l'espulsione di Sarrazin dal partito.
In un precedente tentativo, la commissione dei probiviri aveva rifiutato la stessa richiesta, poiché un partito deve essere capace di "accettare anche le voci critiche al suo interno". Ma per Mueller le tesi di Sarrazin non sono una semplice critica fuori dal coro: le sue affermazioni vanno contro i principi basilari del partito e sono per questo inaccettabili. "Non escludiamo Sarrazin per le sue idee sull'immigrazione, ma per la sua opinione sull'essere umano nella società".
A quanto pare, quindi, la politica tedesca ha già preso le sue risoluzioni. E i cittadini tedeschi, invece, cosa ne pensano? Il settimanale tedesco Focus si è preoccupato di condurre un sondaggio popolare al riguardo: il 63% degli intervistati non crede che l'immigrazione incontrollata abbassi il quoziente intellettivo della Germania. Ciò significa che i due terzi dei tedeschi non sono d'accordo con le teorie pseudo-antropologiche espresse in “La Germania si distrugge da sola”.
Certo, considerata la gravità della posizione di Sarrazin, ci si aspettava una maggioranza più schiacciante contro di lui. È anche vero che l'Europa di questi ultimi tempi non ha mostrato un carattere particolarmente aperto nei confronti dello straniero: non resta che accontentarsi della sentenza del popolo e, anzi, gioire per lo spirito critico mostrato dai due terzi di questo. Quello che sembra verificarsi, per ora, é che in attesa delle decisioni presidenziali, Sarrazin diventa un test per capire quanto il passato del Paese pesi ancora sul suo presente.
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di Michele Paris
A partire dagli attentati dell’11 settembre, il governo americano ha dato il via ad un controverso programma di “esecuzioni extragiudiziali” che permette alle proprie forze speciali di colpire qualsiasi individuo sospettato di terrorismo in qualunque parte del globo senza passare attraverso i normali canali legali. Questa pratica è stata ora per la prima volta messa in discussione da una denuncia presentata da due associazioni newyorchesi a difesa dei diritti civili in rappresentanza del padre di Anwar Al-Awlaki, il primo cittadino statunitense finito sulla lista dei condannati a morte della CIA.
Ex Imam nato nel Nuovo Messico durante un soggiorno di studio negli USA del padre yemenita, Al-Awlaki si è trasferito da tempo nel paese di origine, dal quale - secondo le autorità americane - dirige una campagna di reclutamento per Al-Qaeda e contribuisce a diffondere un messaggio integralista e accesamente anti-occidentale. Nascosto da qualche parte in Yemen, Al-Awlaki rischia in qualsiasi momento di finire vittima di un’incursione aerea o di un’operazione anti-terrorismo condotta da soldati o agenti segreti che posseggono il suo stesso passaporto statunitense.
Già nel dicembre dello scorso anno Al-Awlaki era stato il bersaglio di un bombardamento in territorio yemenita, quando riuscì a sopravvivere a malapena a 17 missili cruise dotati di “cluster bombs” lanciati sulla località in cui soggiornava. Mancato l’obiettivo, l’attacco americano autorizzato dal governo dello Yemen causò la morte di 41 civili, tra cui 21 bambini e 14 donne.
Per bloccare l’esecuzione del figlio, Nasser Al-Awlaki si è rivolto al Center for Constitutional Rights (CCR) e all’American Civil Liberties Union (ACLU), le quali prima di poter presentare la propria denuncia di fronte ad un tribunale federale di Washington sono state costrette ad ottenere una speciale licenza dal governo americano. Qualche mese fa, infatti, il Dipartimento del Tesoro aveva designato Anwar Al-Awlaki come un “terrorista globale”, la cui difesa in aula sarebbe automaticamente diventata un crimine federale.
La causa appena avviata - “Al-Awlaki contro Obama” - si basa sul fatto che le cosiddette “esecuzioni mirate”, al di fuori di un conflitto armato vero e proprio, sono proibite sia dalla Costituzione americana che dal diritto internazionale, a meno che esse non rappresentino una soluzione estrema resa necessaria per fronteggiare una “concreta, specifica e imminente minaccia di morte o di serio danno fisico”. Il programma del governo americano, inaugurato dall’amministrazione Bush e ribadito da Obama, aggiunge invece dei nomi ad una sorta di lista nera dopo una serie di procedure condotte in segreto, sulla quale i condannati a morte rimangono anche per parecchio tempo, escludendo perciò la circostanza della “minaccia imminente”.
Secondo CCR e ACLU la corte federale della capitale americana dovrebbe deliberare che il programma delle esecuzioni mirate viola il Quarto e il Quinto Emendamento della Costituzione americana, in quanto non permette la protezione dall’abuso dell’autorità governativa né garantisce un giusto processo. Inoltre, ogni cittadino americano deve avere il diritto di conoscere i motivi per cui il proprio governo agisce nei suoi confronti, in particolar modo se si tratta di una condanna a morte. L’amministrazione Obama, al contrario, non ha reso note le procedure attraverso le quali Al-Awlaki è finito tra i candidati ad essere assassinati senza alcun procedimento legale.
Perciò, in una causa separata, i legali di Al-Awlaki hanno chiesto alla corte federale di Washington di emettere un’ingiunzione nei confronti del governo americano per bloccare il programma di uccisioni extra-giudiziali finché il processo in questione non sarà giunto al termine. “Gli Stati Uniti non possono semplicemente eseguire condanne a morte di propri cittadini in qualsiasi parte del pianeta basandosi elusivamente sulla propria autorità”, ha spiegato Vince Warren del Center for Constitutional Rights. “La legge proibisce al governo di uccidere chiunque senza un processo o senza aver formulato un’accusa se non in presenza di una grave minaccia”.
“Un programma che autorizza l’assassinio di cittadini americani senza passare attraverso le vie legali è incostituzionale, illegale e anti-americano”, ha aggiunto Anthony Romero, direttore esecutivo dell’American Civil Liberties Union. “Gli Stati Uniti non emettono condanne sulla base di giudizi segreti, a maggior ragione se si tratta di condanne a morte”.
Nonostante la palese violazione della legalità, un percorso piuttosto complicato attende il processo relativo alla sorte di Anwar Al-Awlaki. Prima ancora di decidere nel merito della questione delle esecuzioni extragiudiziali, la corte federale incaricata del caso potrebbe squalificare il padre del leader spirituale islamico e rendere quindi nullo il procedimento. Questa conclusione è, infatti, già toccata nel recente passato a molte denunce contro i metodi dell’antiterrorismo a stelle e strisce.
Nel caso invece la causa dovesse superare questo primo scoglio ad essere messa in discussione potrebbe essere finalmente la stessa condotta dell’esecutivo americano nella lotta al terrorismo su scala planetaria nel post-11 settembre. Il nodo centrale della questione riposa nella legittimità della pretesa statunitense di essere impegnata in un conflitto armato con i militanti di Al-Qaeda. Tale definizione comporta un conseguente rilassamento delle regole che disciplinano le attività dei militari e delle forze speciali, fino a consentire l’uccisione di presunti terroristi al di fuori di ogni vincolo legale.
Su questa pretesa sono in molti ad aver espresso forti perplessità. Da ultimo, lo scorso mese di agosto, il relatore speciale dell’ONU per le esecuzioni extragiudiziali, Philip Alston, in un documento ufficiale ha dichiarato che “la pretesa degli USA di concedersi la libertà di eseguire assassini mirati contro individui in qualsiasi angolo del globo senza dover rispondere a nessuno arreca un grave danno al diritto internazionale che intende proteggere il diritto alla vita”.
Sempre secondo Alston, il governo di Washington, anziché stabilire dei criteri legali universalmente riconosciuti sui quali basare la propria condotta in questo ambito, “ha fatto appello ad una teoria tutta nuova fondata su una sorta di ‘legge dell’11 settembre’ che consente l’uso della forza in un paese straniero nel quadro del proprio diritto di auto-difesa nel conflitto armato con Al-Qaeda, i Talebani e altre ‘forze associate’ non meglio definite”. Se questo comportamento dovesse essere fatto proprio da altri paesi, il risultato sarebbe il caos più totale.
Ciò che il governo americano ha stabilito in questi anni, dunque, non è altro che il diritto di portare a termine assassini sommari in paesi che nulla hanno fatto per colpire i cittadini statunitensi o i loro interessi. E frequentemente l’unica colpa degli obiettivi accusati di aver compiuto atti di terrorismo è solo quella di opporsi legittimamente ad un’occupazione militare che continua ad imporre un prezzo pesantissimo alla popolazione civile.