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di Mario Braconi
Il Papa non è il benvenuto in Gran Bretagna: la sua visita di quattro giorni nel Regno, iniziata ad Edimburgo (Scozia), è talmente imbarazzante per i politici britannici che il Washington Post racconta di un memo riservato che girava al Foreign Office nel quale anonimi funzionari burloni suggerivano di invitare ufficialmente il Pontefice ad una cerimonia di benedizione di una coppia gay e in una clinica dove si praticano aborti.
Il documento è, in tutta evidenza, una goliardata e i buontemponi hanno subìto una lavata di capo: eppure il suo contenuto rappresenta efficacemente lo stato d’animo della maggioranza dei Sudditi nei confronti della visita papale. Secondo un sondaggio pubblicato dal Guardian, solo il 14% della popolazione è favorevole al viaggio papale, mentre al 54% non va giù il conto di 30 milioni di sterline (!) che il Papa lascerà da pagare ai contribuenti britannici.
A far infuriare gli abitanti del Regno Unito sono motivazioni politiche oltre che finanziarie. Tanto per dirne una, Benedetto XVI rappresenta un’organizzazione che si oppone fieramente alla diffusione dei preservativi in Africa, un atteggiamento che è la concausa della morte per AIDS di circa due milioni di persone ogni anno. Ben Goldacre, medico e columnist del Guardian espone un’antologia di dichiarazioni di Benedetto XVI e dei suoi cardinali in materia, una più imbarazzante dell’altra. Si va dal disinvolto nonsense delle parole pronunciate dal Papa in Camerun a maggio del 2009, (“questa tragedia non può essere fermata con i preservativi, che anzi rischiano di peggiorare la situazione”) alle idiozie mistificanti con cui a più riprese diversi cardinali hanno cercato di negare una semplice verità scientifica: l’impiego del condom riduce dell’80% la possibilità di contrarre l’infezione.
Piaccia o no, la lotta contro questa malattia si conduce con l’astinenza, la monogamia e i rapporti protetti; se Ratzinger (come anche Woytila) decide deliberatamente di abbattere una delle tre colonne su cui si basa lo stop al contagio, questo significa, né più né meno, che la chiesa romana costituisce “un grave problema di sanità pubblica”. Sostenere poi che la Chiesa è l’organizzazione che gestisce il più alto numero di ospedali per la cura dell’AIDS, nota sarcasticamente Polly Toynbee, Presidente della Associazione Umanista Britannica, equivale a dire che la chiesa gestiva le migliori unità di riabilitazione dalla tortura durante il periodo dell’Inquisizione...
Grazie alle reticenze e all’inerzia puntellate dai concordati bilaterali con i vari Paesi (Italia inclusa), la chiesa di Roma, inoltre, si è resa responsabile (e continua a rendersi responsabile) di quella che Goldacre definisce una “cospirazione internazionale finalizzata alla copertura di stupri di massa ai danni di bambini”. Oltre allo scandalo degli innumerevoli casi di pedofilia riscontrati negli USA e in Europa, ad irritare i sudditi del Regno è un report recentemente pubblicato in Gran Bretagna secondo cui oltre la metà dei preti pedofili finiti in carcere continuano a mantenere il loro stato di religiosi e una gran parte di loro riceve sostegno economico da parte della Chiesa.
Peter Saunders, rappresentante di un’associazione di vittime di abusi in età infantile (la NAPAC), nella conferenza stampa di mercoledì 15 settembre, si è detto scandalizzato dalla condotta della chiesa cattolica: “Le scuse non servono a niente: quello che desideriamo è verità, giustizia e magari anche una dimostrazione di senso di responsabiltà. [...] Vogliamo che il Papa dica: “Passerò tutti i documenti in nostro possesso alle autorità competenti dei Paesi nei quali i preti pedofili si stanno attualmente nascondendo”. Inoltre, la chiesa di Benedetto XVI porta avanti un’agenda politica innegabilmente retrograda nonché fieramente avversa ai diritti civili, in particolare in materia di interruzione di gravidanza e di discriminazione nei confronti degli appartenenti alla comunità GLBT, spesso contrastando nei fatti le disposizioni di legge dei Paesi che ospitano i suoi rappresentanti.
Ce ne è abbastanza per far arrabbiare una cinquantina di intellettuali, i quali hanno scritto una lettera aperta sul Guardian chiedendo la Governo di non concedere a Benedetto XVI l’onore di una visita ufficiale nel Paese: Ratzinger è libero, ovviamente, di recarsi in Gran Bretagna, ma in qualità di Capo di Stato non dovrebbe essere onorato per ciò che ha fatto e ciò che intende fare in futuro; un principio sano, certamente, ma che si spera possa essere in futuro applicato anche a capi di stato ugualmente vergognosi e criminali.
Anche agli Anglicani il Papa cattolico non fa mancare ragioni di disappunto: prima di tutto, corteggiando, in una sorta di grottesco “chiesa-mercato”, quei vescovi anglicani scandalizzati dalla recente apertura della loro chiesa all’ordinamento di sacerdoti omosessuali: pur di condurli nel suo “ovile”, Benedetto XVI ha messo a punto una piattaforma ad hoc, che consentirebbe loro di passare sotto le bandiere della chiesa cattolica, mantenendo però liturgia e tradizione di origine. In questo modo, la Chiesa di Roma, che non ammette il matrimonio per i suoi preti, avrebbe dei cardinali regolarmente (e legittimamente) ammogliati. Quando si dice la coerenza...
Come se non bastasse, il 19 settembre a Birmingham Ratzinger beatificherà il cardinale John Henry Newman, teologo e filosofo, oppositore del liberalismo e del relativismo (perché stupirsene?), ma soprattutto, divenuto cattolico dopo essere stato prete anglicano: più schiaffo morale di così! Vale la pena annotare che di Newman si racconta che fosse gay, particolare che rende particolarmente spassoso il riconoscimento tributatogli da uno dei papi più omofobi.
In questo scenario molto delicato si inscrive la gaffe del Cardinal Kasper, che, in un’intervista a Focus ha sostenuto che la Gran Bretagna somiglia ad un Paese del Terzo Mondo, parrebbe di capire, a causa della gran varietà etniche che vi sono rappresentate. Ovviamente, sulla scia dell’ulteriore irritazione provocata nel paese ospite dall’improvvida uscita del porporato, quest’ultimo è stato costretto a rinunciare alla visita, accampando l’improvvisa quanto provvidenziale insorgenza di una forma di artrite. Eppure si tratta del cardinale che, a valle della demenziale riabilitazione del lefevbriano negazionista Richard Williamson da parte di Ratzinger, fece parlare di sé (nei corridoi del Vaticano) rilasciando un’intervista insolitamente critica verso la decisione papale.
In effetti, l’uscita di scena di Kasper - certo non una colomba, ma riconosciuto come valido negoziatore con gli Anglicani - sembra funzionale alla strategia muscolare del muro contro muro tanto gradita al Pastore tedesco ma il cui successo è tutto da verificare; poiché il diavolo è nei dettagli, è interessante notare che il religioso che prenderà il posto di Kasper non ha un inglese particolarmente fluente, il che costituisce un ostacolo non proprio da sottovalutare in un contesto di grande tensione tra le due chiese. Forse l’obiettivo vero, viene da pensare, è proprio esacerbare a dovere gli animi.
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di Rosa Ana de Santis
L’Europa bacchetta pesantemente l’Eliseo sull’espulsione indiscriminata dei rom e apre ufficialmente una procedura di infrazione. La Francia, madre del diritto europeo, si dice esterrefatta delle sterili polemiche, infastidita del fatto che la decisione politica del governo francese passi per una spietata caccia all’uomo o un’oculata epurazione etnica, simil nazista.
Ma non é cosi, assicura Sarkozy. E siccome non è così chiude la polemica con un brutale “Se li prenda a casa sua i rom”, rivolgendosi al Commissario alla Giustizia Viviane Reding. Svelando, proprio quando penserebbe di averlo smentito, la più viscerale intolleranza e soprattutto la motivazione principale della cacciata.
C’è tutto Sarkozy in questa risposta: l’arroganza e la boria di un miracolato dalla fine della politica e della “grandeur” della Francia, che ha prodotto una degenerazione senza freni in quella che fu la capitale europea del diritto. E, se da una parte c’è un ometto tronfio, marito di una più celebre donna, dal’altro c’è la difficoltà e le fierezza di essere rom.
E proprio mentre l’Europa si accorge da subito che questo atteggiamento francese apre pericolosi precedenti, proprio mentre il Vecchio Continente ricorda (per quanto ipocritamente) le clausole sociali proprie della sua unità, l’Italia in tutta fretta si schiera a difesa di Sarkozy. Berlusconi non usa mezzi termini. E come potrebbe se questo è il paese in cui il Ministro dell’Interno può giustificarsi dell’erroneo agguato alla motovedetta libica, argomentando che si pensava si trattasse di immigrati?
Come se fosse accettabile, e un po’ da mettere nel conto, che se sei naufrago o clandestino qualcuno ti sparerà. Si può fare il tiro a bersaglio con i clandestini in mezzo al mare perché c’è un accordo con la Libia di contrasto all’immigrazione illegale? Si possono caricare in massa, su treni o aerei, gli zingari? Non viene niente alla memoria?
Non a caso la Germania, che con la sua storia ha imparato a fare i conti senza reticenze, pur prendendo le distanze dai modi e dai toni del Commissario Reding, si allinea completamente con la posizione UE e con il presidente Barroso. La sola lontana ipotesi della discriminazione etnica è un male talmente grande che ogni misura preventiva deve sembrare lecita al paese che ha originato l’orrore più grande della storia. Solo a loro, a quanto pare. All’Italia meno, che pure qualche schizzo di memoria dovrebbe ancora averlo, anche solo per ricordare di essere stato il primo paese al mondo a proclamare leggi razziali.
Ma cosa si può chiedere al governo guidato da un signorotto brianzolo che definiva il confino come villeggiatura? L’Europa, però, ritiene che la guardia non vada abbassata, né sulla forma, né sulla sostanza. E non a caso l’attenzione europea sul caso nasce soprattutto dal giallo - ma poi nemmeno troppo - delle due circolari che si sono repentinamente succedute al Ministero dell’Interno francese. Sembra che la prima fosse molto meno politically correct di quella poi divenuta ufficiale. Ed è qui che l’Europa vuole vederci chiaro, come ha fatto su diverse scelte del nostro governo.
In Italia, in diverse occasioni, si è fatta sentire anche la voce della Chiesa contro alcune derive poliziesche del governo, ma per il Cavaliere ormai i voti padani sono molti di più del bottino di consensi che un tempo gli assicurava la Chiesa. E la campagna elettorale, come un’autentica campagna pubblicitaria, deve andare avanti ad ogni costo. Quello che non si possiede lo si può sempre comprare.
I rom cacciati dalla Francia, quasi tutti tornati a Bucarest, risultano partiti volontariamente, con qualche spicciolo in tasca. Stando alle dichiarazioni francesi, i casi di espulsione sarebbero stati valutati singolarmente, non c’entrerebbe nulla il dato etnico. Strano che fossero famiglie intere, donne e bambini, e che fossero tutti rom. Una finta coincidenza come quella per cui abbiamo sparato su una barca che credevamo piena d’immigrati o abbiamo chiesto ai medici di denunciare gli ammalati clandestini. Quando chiederemo di farlo con proclama governativo per un camorrista o un mafioso o un politico corrotto potremo pensare che non ci siano forme di discriminazione xenofoba. Fino a quel giorno, uno spettro si aggirerà di nuovo per l’Europa. E non è il comunismo, purtroppo.
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di Michele Paris
Dietro indicazione del già potente presidente Mahinda Rajapaksa, il Parlamento dello Sri Lanka ha approvato a larga maggioranza una serie di modifiche costituzionali che aumentano considerevolmente l’autorità del governo, e permetteranno al Capo dello Stato di farsi eleggere per un numero indefinito di mandati. L’evoluzione del quadro politico singalese in senso autoritario fa seguito alla conclusione violenta della guerra civile con la sconfitta delle Tigri Tamil nel maggio 2009 e la successiva netta affermazione elettorale dello stesso Rajapaksa lo scorso mese di gennaio.
L’iter parlamentare con cui è stato adottato il 18esimo emendamento alla Carta Costituzionale rivela già di per sé la svolta autocratica in corso nel paese asiatico. Ben poco dei contenuti del provvedimento era stato rivelato pubblicamente prima del dibattito in aula. Un dibattito che è durato un solo giorno dopo che il governo, una volta ottenuto il via libera dalla Corte Suprema, aveva presentato la legge costituzionale come provvedimento urgente da approvare in tempi rapidi.
Secondo l’ordinamento dello Sri Lanka, per approvare modifiche alla Costituzione è necessaria una maggioranza formata dai dei due terzi dei parlamentari. Nonostante il partito del presidente (Alleanza per la Libertà e l’Unità del Popolo, UPFA) disponga di 144 seggi su 225 dell’intera assemblea, la proposta di modifica ha ottenuto ben 161 voti a favore grazie ad alcune defezioni dai partiti di opposizione dopo settimane di trattative più o meno segrete.
L’attuale Costituzione singalese era stata introdotta nel 1978 ed è già caratterizzata da una forte connotazione presidenzialista. Il sistema di contrappesi del sistema politico è stato poi regolarmente indebolito dai vari presidenti che si sono succeduti negli ultimi tre decenni. Da più parti, dunque, si chiedeva addirittura l’abolizione dello stesso presidenzialismo, promessa fatta anche da più di un presidente e puntualmente disattesa una volta che il candidato otteneva la carica, poiché spesso le maggioranze parlamentari non consentivano di raggiungere i due terzi dei seggi in Parlamento.
Grazie ad una costante occupazione di tutte le sfere del potere in Sri Lanka, a Rajapaksa è riuscita invece ora l’operazione opposta, garantendo ancora maggiori poteri ad un presidente che gode già di ampie facoltà, come quelle di dissolvere il Parlamento dopo solo un anno dalle elezioni, assumere il controllo di qualsiasi ministero e dichiarare lo stato di emergenza.
Due sono stati i più importanti cambiamenti costituzionali voluti da Rajapaksa. Il primo prevede l’abolizione della sezione 31, vale a dire la soppressione del limite dei due mandati presidenziali di sei anni ciascuno. Il tetto al numero di mandati è un accorgimento diffuso nelle democrazie presidenziali per evitare che la mancanza di avvicendamento in una carica così potente possa condurre a derive autoritarie.
Il problema è particolarmente grave nello Sri Lanka, in quanto a partire dall’introduzione del presidenzialismo nessun Capo di Stato in carica alla ricerca del secondo mandato è stato sconfitto in un’elezione. Ciò perché la carica, tra l’altro, permette il controllo della macchina dello Stato per pilotare l’esito del voto. Grazie alla nuova Costituzione, così, Mahinda Rajapaksa potrà correre indefinitamente per la presidenza una volta terminato il suo secondo mandato nel 2016.
La seconda importante modifica rappresenta ancora più chiaramente un attacco a ciò che rimaneva del sistema di controllo dell’Esecutivo. Con un emendamento introdotto nel 2001, ad un Consiglio Costituzionale era stata affidata la facoltà di approvare la nomina di giudici, procuratori, membri di commissioni indipendenti e anti-corruzione, con lo scopo di limitare l’autorità presidenziale. Il 18esimo emendamento sostituisce ora il Consiglio Costituzionale con un Consiglio Parlamentare, guidato dal Presidente del Parlamento, il nuovo organismo non avrà però potere vincolante per le importanti nomine, a totale discrezione del Presidente.
Grazie a quest’ultima modifica, Rajapaksa potrà scegliere liberamente propri uomini da piazzare nella magistratura e ai vertici di delicate istituzioni, praticamente garantendosi la possibilità di politicizzare ogni istituzione democratica del paese e influendo pesantemente sull’esito delle prossime tornate elettorali.
Per il Presidente e il partito di governo i cambiamenti introdotti si sono resi necessari per garantire stabilità al sistema e sviluppo economico al paese dopo il lungo conflitto con la minoranza Tamil nel nord del paese. Una necessità particolarmente sentita in vista del crescente malcontento popolare che si annuncia con la prossima adozione di misure di austerity, come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale che ha erogato quest’estate un prestito allo Sri Lanka di 2,6 miliardi di dollari.
Per i pochi oppositori rimasti, al contrario, i provvedimenti costituzionali non servono ad altro che ad assicurare la perpetuazione del potere di Mahinda Rajapaksa e di quella che sta diventando una vera e propria dittatura familiare. Se il presidente è già direttamente responsabile di 78 istituzioni nel paese, non è infatti l’unico Rajapaksa ad occupare posizioni di potere in Sri Lanka. I fratelli Gotabhaya e Basil sono rispettivamente ministro della Difesa e dello Sviluppo Economico. Un altro fratello, Chamal, è l’attuale presidente del Parlamento, mentre il figlio di quest’ultimo, Shashindra, è il Presidente della popolosa provincia di Uva nel sud del paese.
Il consolidamento del potere di Mahinda Rajapaksa è dovuto in parte anche ad un’opposizione sempre più debole e frequentemente ben disposta verso le lusinghe del partito di governo. Metodi repressivi per spegnere ogni segnale di resistenza hanno fatto il resto, come si è reso conto il principale contendente del presidente nelle più recenti elezioni, l’ex generale e membro del Parlamento Sarath Fonseka.
Esecutore principale dell’annientamento della resistenza Tamil lo scorso anno, Fonseka si era a poco a poco allontanato da Rajapaksa fino a correre per la presidenza nelle file dell’opposizione singalese. Uscito sconfitto dal confronto elettorale, Fonseka venne arrestato, privato di tutte le sue cariche militari e sottoposto alla corte marziale con la minaccia di essere condannato alla pena capitale. Una sorte che verosimilmente verrà riservata a quanti si opporranno all’uomo forte destinato a dominare per molto tempo la scena politica dello Sri Lanka.
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di Mario Braconi
Andy Coulson, giornalista di tabloid divenuto, appena quarantenne, spin doctor del Primo Ministro britannico, sta creando qualche imbarazzo a David Cameron: secondo il quotidiano britannico Guardian, poco più la metà delle 2.000 persone interpellate per un sondaggio su YouGov tra il 6 e il 7 settembre, ritiene che Coulson dovrebbe dimettersi dall’incarico. Il caso Coulson, nel mirino per una vicenda d’intercettazioni illegali, svela l’esistenza di una fitta rete di relazioni patologiche tra industria dell’informazione, mondo politico e polizia in Gran Bretagna.
La nostra storia inizia l’8 agosto del 2006, quando gli investigatori di Scotland Yard si presentano negli uffici del settimanale News Of the World con due mandati di arresto a carico di Clive Goodman (giornalista esperto in questioni relative alla Corona britannica) e di Glenn Mulcaire (un investigatore della testata): i due sono accusati di essersi procurati illegalmente un accesso alla casella vocale dei cellulari in uso alla Casa Reale.
Secondo la dettagliata ricostruzione dei fatti del New York Times della scorsa domenica, a casa di Mulcaire la polizia trovò, registrati su bloc notes e sulle memorie di due computer, quasi tremila numeri di cellulari di persone celebri e 91 PIN delle relative segreterie telefoniche. Al capo dell’Antiterrorismo di Scotland Yard venne recapitata una lista di celebrità intercettate da Goodman e Mulcaire lunga dieci pagine, assieme alle prove che il metodo di lavoro dei due costituiva non tanto un’eccezione quanto una pratica consolidata nella redazione di News of the World.
Eppure la polizia decise di incriminare solo Goodman e Mulcaire, che vennero condannati a diversi mesi di reclusione per intercettazione illegale oltre ad essere allontantanati dal giornale. Se vi fosse qualche dubbio sull’atteggiamento non particolarmente aggressivo della polizia in questa inchiesta, un importante ufficiale della Metropolitan Police (MET) ha dichiarato al New York Times, che non vi era “alcuna intenzione di fare pulizia una volta per tutte nel settore dei media britannici”.
Ai tempi dello scandalo delle intercettazioni illegali sulla famiglia reale, Andy Coulson è il rampante direttore di News of the World di Rupert Murdoch, dove è approdato dopo essersi fatto le ossa qualche anno sulla colonna dello spettacolo di The Sun un altro tabloid popolare, sempre di Rupert Murdoch. La condanna di Goodman e Mulcaire lo obbliga a rassegnare le dimissioni: del resto, un redattore di News Of the World ha raccontanto al New York Times che Coulson parlava apertamente del ricorso alle cosiddette “arti oscure” al fine di reperire materiale utile a confezionare scoop (intercettazioni sulle segreterie telefoniche, ricorso a talpe nella polizia, presso le compagnie telefoniche, dentro gli ospedali eccetera...). Di fatto il suo stile di gestione della redazione, incline a fornire ai lettori quello che desideravano e disinvolto quanto al rispetto della legge e della deontologia, più che un limite costituiva un incoraggiamento a ricorrere a mezzi illegali.
Il primo round finisce con un happy ending: Goodman e Mulcaire fanno causa a News of the World, ottenendo un congruo rimborso monetario; il giornale è salvo, dato che le pratiche disinvolte delle sue redazioni rimangono nascoste da una cortina fumogena innalzata dalla polizia, apparentemente decisa a non andare troppo a fondo con l’inchiesta. Quanto ad Andy Coulson, dopo le dimissioni dal NoW viene assunto come capo delle comunicazioni del Partito Conservatore: la nomina di un uomo di Murdoch nella sancta sanctorum dei Conservatori è il suggello della nuova alleanza tra il partito e il magnate australiano, che alle recenti elezioni britanniche ha deciso di appoggiare i Conservatori mettendo in campo la sua artiglieria mediatica.
Ma una volta resi noti i nomi delle vittime delle intercettazioni illegali di Mulcaire, si apre il capitolo delle cause milionarie: il Guardian, testata progressista e visceralmente avversa a Murdoch, rivela a luglio del 2009 che il solo accordo extragiudiziale di NoW con Gordon Taylor (capo della Professional Footballer’s Association, vittima di un’intercettazione che avrebbe rivelato una sua presunta relazione con un’assistente) è costato al giornale circa un milione di sterline.
Con l’occasione, il Guardian propone ai suoi lettori alcune domande scomode: 1) è giusto che una persona come Coulson, nella migliore delle ipotesi moralmente responsabile di reati contro la privacy (sono stati intercettati anche parlamentari, cosa illegale in Gran Bretagna dal 1689), occupi un posto così importante? 2) è ammissibile che i manager di una delle società di Murdoch abbiano mentito alle sedute delle varie commissioni d’inchiesta che hanno indagato sullo scandalo? 3) per quale ragione la MET non ha fatto indagini approfondite sui telefoni oggetto d’intercettazione pur essendo in possesso di tutte le informazioni rilevanti dopo aver smascherato Goodman e Mulcaire?
Scrive Robert Reiner sul Guardian, che vi sono almeno un paio di insegnamenti da trarre da questa vicenda: prima di tutto emerge un rapporto tra stampa e polizia dominato dalla paura quando non da vero e proprio servilismo (specie nei confronti delle testate di Murdoch). Sembra inoltre che il potere non riesca ad apprezzare i vantaggi della trasparenza, specie se confrontati con gli effetti boomerang che si producono quando una vicenda insabbiata viene riportata alla luce come in questo caso. Infine, il fatto che il direttore di settimanale scandalistico dai modi “disinibiti” diventi responsabile comunicazione di un partito che poi vince le elezioni è eloquente del tipo di politica che “paga” ai giorni nostri - anche dall’altro lato della Manica.
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di Carlo Musilli
Diversamente dalla maggior parte dei crociati del millennio scorso, questo triste ladruncolo voleva solo tirar su qualche soldo. Ha dedicato tutta la vita a turlupinare il prossimo e, dopo decenni di gavetta, ce l’ha fatta. Alla fine ha sfondato. Niente scudo crociato né cotta di maglia, solo un paio di baffoni alla Hulk Hogan e un bel cannone infilato nella fondina sotto il doppiopetto dozzinale. Il motto però è quello originale del medioevo: “Dio lo vuole!”. Visto così sembrerebbe soltanto un idiota. In realtà, è un idiota che ha messo in allarme Pentagono, Interpol e diplomazie di mezzo mondo.
L’arzillo vecchietto dal nome anonimo, Terry Jones, a metà estate ha finalmente avuto l’idea che cercava da anni. Seguendo la moda di battezzare con un nome altisonante anche le giornate più squallide, il suo cervello ormai avvezzo al marketing religioso ha partorito il “Coran burning day”. Gli sporchi infedeli saraceni vogliono costruire una moschea a Ground Zero? E Terry gli brucia il Corano in piazza. Anzi, per l’occasione convoca pure in pompa magna i cinquanta fedeli del suo benemerito “Centro Mondiale (addirittura) della Colomba”. Una setta di gente per bene che ha deciso di combattere il fanatismo con un bel rogo vecchia maniera. Inutile star qui a sottilizzare.
Per cercare di capire come un essere umano possa arrivare a questo punto, evitiamo di ricorrere alla sociologia da supermercato, anche se ci starebbe benissimo. Concentriamoci sulla biografia. In origine Terry commercia macchine usate in Florida. Poi capisce che per fare i soldi veri é il caso di trovare un business più sicuro. Così abbandona i rottami e comincia a vendere la parola di Dio. Si trasferisce in Germania, vicino Colonia, dove mette su un bel tempietto. Un centinaio di anime presta orecchio al Predicatore, che dal pulpito si scaglia implacabile contro gli immigrati turchi.
Terry convince perfino i fedeli più ingenui a cedere tutti i loro beni alla “Ts Enterprise”, la sua azienda. Alla fine però, il gregge si accorge che il suo Pastore si intasca le elemosine. Addio sogni di gloria, per ora. Abbandonato da moglie e figlia, Terry torna in Florida. Tutt’altro che scoraggiato, si lancia sul nuovo progetto “della Colomba”. Sfogliando il “manuale del buon bigotto”, dà fondo a tutto il repertorio: gay, aborto, ispanici. Per diversi anni la sua parola fustigatrice cambia bersaglio, ma i proseliti continuano a scarseggiare. Poi viene fuori la vicenda del centro islamico a Ground Zero, e Terry si sfrega le mani.
Probabilmente nemmeno lui immaginava di fare un botto così grande. È il caos internazionale. Capi di stato e ministri degli esteri si mettono in contatto con Obama, sospesi fra la sincera indignazione e il serio timore che l’alzata d’ingegno di uno sparuto imbecille della Florida possa causare una nuova pioggia di attentati e rivolte. Arrivano messaggi da Pakistan, Iraq, India, Indonesia. Ahmadinejad, che per un po’ si è visto rubare la scena, dà il suo contributo alla pantomima accusando Israele di aver architettato tutto. In Afghanistan muore perfino un uomo durante una violenta protesta davanti a una base Nato.
Ci mancava solo questa per il Presidente Obama, che in questo periodo di pensieri ne avrebbe già a sufficienza. Il bello è che, in concreto, non può fare nulla. Terry è tutelato dal granitico primo emendamento della Costituzione Usa, che giustamente non prevede deroghe alla libertà d’espressione in caso di cialtroneria. Bisogna convincerlo con le buone: “Bruciare il Corano vuol dire reclutare nuovi terroristi per al Qaeda - ha detto il Presidente in tv - aumenterebbe il rischio di attacchi suicidi in America, in Europa, di violenze diffuse in Pakistan e in Afghanistan”. Poi, riferito a Terry, ha aggiunto: “Spero che stia ascoltando e capisca quanto è distruttivo il gesto che vuole compiere, è contrario ai valori di noi americani” e, ancora, nel discorso per l’11 settembre “non siamo in guerra contro l’Islam”, “siamo tutti americani”. Un appello arriva anche da superman-Petraeus, il generale a capo delle forze in Afghanistan, che implora Terry di lasciar perdere. Il pastore riceve perfino una telefonata da Robert Gates, nientemeno che il segretario alla Difesa degli Stati Uniti.
Dopo aver sentito la voce di Dio, evidentemente, Terry ha sentito anche voci più convincenti. E si è persuaso. Forza ragazzi, rimettete a posto fiaccole e cherosene. Tuttavia, il finale di questa commedia grottesca non ci tradisce. L’autore ha un’ultima trovata. Terry ripete alla stampa di aver desistito dopo aver ricevuto garanzia da parte dell’imam di New York, Feisal Abdel Rauf, che la nuova moschea non sarà costruita accanto a Ground Zero. La risposta dell’imam è abbastanza chiara: “Mai preso accordi o conosciuto quel cialtrone”.