di Eugenio Roscini Vitali

Il risultato del voto indiretto per la scelta del presidente del Pakistan che il 6 ottobre il Parlamento e le assemblee provinciali hanno espresso, determinando la vittoria “scontata” del generale Pervez Musharraf, non da assolutamente l’idea del difficile momento che sta attraversando il Paese. La votazione, il cui risultato sarà reso ufficiale non prima di 11 giorni, si è tenuta in un clima di dubbi e sospetti ed è stata inficiata dall’assenza delle opposizioni. Infatti, il venerdì precedente il voto la Corte suprema aveva comunicato le sue “non decisioni” riguardo la possibile rielezione del generale alla carica di presidente della Repubblica Islamica del Pakistan; il giudice Javed Iqbal non aveva sciolto la riserva sulla candidatura di Musharraf, rimandando il giudizio al 17 ottobre e congelando l’esito del responso elettorale. Quello espresso dai pochi presenti al Parlamento e alle quattro assemblee provinciali è stato un verdetto unanime, dove Musharraf ha raccolto la quasi totalità dei voti: 252 su 257 nel Parlamento nazionale e stessa percentuale nelle Assemblee provinciali. Unici avversari del generale Musharraf sono stati Makhdoom Amin Faheem, ex ministro con il governo di Zulfikar Ali Bhutto, e Wajihuddin Ahmed, giudice in pensione che però ha raccolto solo una manciata di voti.

di mazzetta

L’esplosione della protesta popolare in Myanmar fornisce l’occasione di mettere a fuoco l’enorme trasformazione che ha colpito il dibattito italiano sui temi di politica estera negli ultimi anni. Fino a pochi anni la provvidenziale Guerra Fredda rendeva semplice il commento degli eventi, ovunque si verificassero. I cattivi erano facilmente identificati nel fronte avverso, per gli uni i regimi “comunisti”, per gli altri i paesi “capitalisti”; fine del discorso. Ogni analisi partiva dal preventivo schierarsi in uno o nell’altro campo per passare poi a dare la stura ai luoghi comuni e alla propaganda. Dal crollo del muro di Berlino questa semplicistica riduzione del mondo è come evaporata, lasciando più di un commentatore professionale con le braghe calate. Molti hanno fatto finta di nulla, continuando a praticare il vecchio modello, anche se ormai poco adatto ai tempi. Abbracciare le logiche del potere porta vantaggi e oggi che non c’è più nessun altro potere alle viste, tanti hanno ceduto e si sono arruolati nella guerra dell’Occidente, senza nemmeno sapere chi o cosa si sarebbe combattuto.

di Fabrizio Casari

Si balla sul filo elettrico con l’Iran. L’amministrazione Bush, alle corde negli indici di gradimento interni ed in estrema difficoltà nelle sue avventure militari in Irak e Afghanistan, continua ad inviare nuovi segnali di guerra verso Teheran. Gli viene in soccorso una parte dell’Europa, quella più ansiosa di associarsi al controllo statunitense sul domino geopolitica, mentre tira robusti freni la diplomazia europea che ha un’idea precisa della differenza che corre tra l’ordine e il disordine internazionale. Sembra che da parte di alcuni europei l’alternativa ai venti di guerra statunitensi possa essere rappresentata dall’imposizione di nuove sanzioni (leggi embargo); e qui la riproposizione del film iracheno appare abbastanza evidente. Da Roma, per fortuna, arriva il “no” deciso del governo italiano ad una nuova avventura senza logica e senza senso. Massimo D’Alema, è forse chi più e meglio rappresenta l’area della ragionevolezza politica, che prevede tatto, ma non cedevolezza, nei confronti delle pulsioni isteriche statunitensi. D’Alema ritiene che un eventuale attacco militare all’Iran avrebbe “conseguenze devastanti” e che la stessa imposizione di sanzioni a Teheran, in assenza di una iniziativa politica sul dialogo, rischierebbe di “avere scarsa efficacia”. “Condivido le perplessità di Sarkozy – spiega il titolare della Farnesina – secondo il quale si rischia di trovarsi nella scomodissima alternativa tra bomba atomica iraniana e bombardamento dell’Iran: dovremo invece evitare proprio di spingerci fino a quel bivio, che poi sarebbe un vicolo cieco”.

di Maura Cossutta

E’ stata presentata al Parlamento la relazione sull’applicazione della legge 194. Un atto dovuto da parte del Ministro della salute, secondo la legge che prevede che ogni anno si affidi al Parlamento l’analisi dell’evoluzione del fenomeno abortivo nel nostro paese, effettuata dal sistema di sorveglianza gestito dall’Istituto superiore di Sanità e dal Ministero della salute, in collaborazione con l’Istat e con le Regioni. Un atto dovuto, ma che quest’anno non poteva che essere anche un atto politico. Il Ministro Livia Turco non ha deluso, anzi ha esplicitamente scritto che non intendeva rimuovere i punti caldi del dibattito e che non intendeva presentare una introduzione formale. L’obiettivo è stato raggiunto. Le sue conclusioni sono chiare e ferme: la legge non necessita di alcuna modifica, la legge è stata ed è non solo efficace, ma anche saggia e lungimirante. E’ la prima volta in tutti questi anni che un Ministro conclude così e questo deve pur significare qualcosa. Non serviva una semplice relazione; serviva apertamente schierarsi. Infatti le pressioni contro la legge sono state pesanti e si sono accentuate nel tempo. Ogni settimana il solito Volontè preparava interrogazioni, che puntualmente il “Movimento per la vita” e il più moderno (!) “Comitato Scienza” e vita diffondevano attraverso la loro potente rete di comunicazione, ben organizzata e altrettanto ben finanziata.

di Agnese Licata

Mentre s’iniziano a fare i conti dei manifestanti arrestati negli scorsi giorni - più di duemila a sentire la tv di Stato birmana - il presidente francese Nicolas Sarkozy e il suo ministro degli Esteri Bernard Kouchner si ritrovano a dover dare non pochi chiarimenti sulle posizioni assunte a proposito di un’azienda che in Birmania ci lavora da anni. Sotto accusa, in un tribunale belga, la quarta compagnia petrolifera più potente del mondo, la francese Total. In particolare, ad essere riaperto è il caso del gasdotto di Yadana, quello che dal sud di Myanmar trasporta 17 milioni di metri cubi di gas al giorno nelle centrali nella vicina Thailandia. Secondo i promotori della causa - quattro birmani rifugiati in Belgio - la ditta francese avrebbe ricorso ai lavori forzati per costruire la pipeline. Lavori forzati e torture che materialmente sarebbero state portate avanti dall’esercito birmano, lo stesso che nel Paese guida dal 1988 un regime dittatoriale, lo stesso che nelle ultime settimane tutti i governi internazionali - Francia in testa - si sono affrettati a condannare fermamente.


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