Si è da poco concluso il Foro di Davos, che anche quest’anno ha riunito i poderosi circondati da quelli che sperano ancora di esserlo. La conta di chi non c’era ha superato quella del chi c’era, l’incontro comincia a diventare demodé. Sono arrivati su jet privati ed hanno soggiornato nel lusso, masticando ogni ben di dio: ma ricette economiche diverse di fronte a scenari decisamente diversi non ne sono arrivate e, come era prevedibile, il summit dell’establishment globalista ha solo estromesso i russi come le consorterie internazionali palesi ed occulte domandano.

L’aspetto che emerge dalla riunione sulle montagne svizzere è  indifferenza ai dati e ai numeri che smentiscono le tesi faziose e strampalate dell’establishment occidentale, che ha tenta di trasformare in una sua straripante vittoria la peggiore crisi economica, politica, concettuale e militare della pur breve storia del globalismo.

Lo strappo tra Svezia e Turchia sulla questione dell’ingresso di Stoccolma nella NATO sembra essere diventato quasi definitivo dopo la durissima polemica esplosa a causa delle manifestazioni anti-islamiche del fine settimana. Con la presa di posizione molto netta di Erdogan, il processo di allargamento del Patto Atlantico ai due paesi scandinavi rischia così di essere messo seriamente in discussione. Non è comunque del tutto chiaro se la minaccia del presidente turco finirà per rientrare dopo le delicatissime elezioni di maggio. La vicenda solleva questioni di più ampia portata, prima fra tutte la natura contraddittoria di un’alleanza militare senza una vera ragione di esistere se non per la promozione degli interessi strategici di Washington e di quelli prettamente economici dell’industria bellica americana.

Il partito Laburista della Nuova Zelanda ha eletto nel fine settimana il successore della leader dimissionaria e primo ministro uscente Jacinda Ardern, da qualche anno vera e propria icona della finta sinistra “liberal” globale. Il suo addio alla politica attiva era stato annunciato a sorpresa la scorsa settimana, gettando nel panico i sostenitori sia in patria sia in Occidente. Le ragioni delle dimissioni sono ufficialmente legate alle troppe minacce ricevute, ai livelli insopportabili di stress che la posizione di capo del governo implica e al desiderio di trascorrere più tempo in famiglia. C’è da credere tuttavia che i veri motivi abbiano in qualche modo a che fare con il rapido dissolversi della favola del paradiso neozelandese benevolmente governato dalla Ardern, sotto la spinta della crisi economica planetaria e del conflitto tra Stati Uniti e Cina, i cui riflessi incidono in maniera inevitabile sulla vicende interne del paese dell’Oceania.

La caduta in mano russa della città di Soledar e la probabile prossima conquista di quella ancora più strategica di Bakhmut hanno mandato letteralmente in fibrillazione i governi NATO che partecipano alla guerra al fianco del regime ucraino. Il livello di disperazione raggiunto in Occidente è percepibile dalla frenesia con cui in questi giorni si stanno consumando discussioni e trattative per inviare in fretta a Kiev il maggior numero possibile di nuove armi ed equipaggiamenti bellici. Ovunque sembra esserci la sensazione di una svolta imminente nel conflitto, per molti in concomitanza con il lancio dell’attesa mega-offensiva russa. Le carte di Mosca restano però coperte e, nel frattempo, è lecito chiedersi quali siano le mosse che un Occidente in totale confusione sta preparando per affrontare il momento in cui la finzione di una guerra che l’Ucraina sarebbe sul punto di vincere crollerà definitivamente.

Le dimissioni del ministro della Difesa tedesco hanno portato alla luce spaccature e contraddizioni che attraversano la prima potenza economica dell’Europa e il governo federale del cancelliere Olaf Scholz nel quadro del conflitto in Ucraina. L’uscita di scena questa settimana di Christine Lambrecht, sostituita martedì con il semisconosciuto Boris Pistorius, è infatti da collegare ai presunti tentennamenti evidenziati nell’approvare l’invio di armi sempre più sofisticate al regime di Zelensky. Più in generale, la sorte dell’ormai ex ministro è stata segnata dalla lentezza con cui, sotto la sua supervisione, è stato portato avanti il piano di “modernizzazione” delle forze armate tedesche, ovvero l’impulso al militarismo più consistente dai tempi del regime nazista.


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