di Camilla Modica

Servono centoventisei milioni di dollari per provare a salvare il Mar d’Aral, o almeno quel poco che ne rimane. Sono stati sufficienti pochi decenni per ridurre di tre quarti il volume di quello che una volta era il quarto mare chiuso più grande del mondo. Pochi decenni, dagli anni Sessanta ad oggi, per distruggere quasi totalmente il prezioso ecosistema di questa zona a cavallo tra Kazakhstan e Uzbekistan, un tempo fertile e ricca d’acqua grazie a due tra i più importanti fiumi dell’Asia Centrale, l’Amu Darya e il Syr Darya. Di anno in anno il livello del Mar d’Aral è sceso in modo costante. Gli scienziati prevedono che senza interventi importanti l’intero mare si prosciugherà totalmente entro il 2020. Già adesso i danni sono enormi, non solo per flora e fauna ma anche per la popolazione che vive sulle coste e che sempre più spesso è costretta a spostarsi altrove. Da un lato, infatti, in queste terre pesca e agricoltura sono in ginocchio, mentre dall’altro, è difficile superare i 50 anni di vita, a causa della forte incidenza di alcune malattie come bronchiti, anemie, allergie.

di mazzetta

A provocare l’incredibile isolamento del presidente americano non è solo l’incombente fine del suo mandato presidenziale, ma anche la sensazione ormai netta e diffusa che la politica statunitense perseguita nei gli ultimi due mandati sia molto più che fallimentare. Bush ha raggiunto la percentuale di gradimento più bassa mai registrata da un presidente americano, incidentalmente da suo padre, e si trova contro un 78% di americani che pensa che la politica della Casa Bianca abbia una direzione sbagliata. Secondo i critici più avvertiti il problema americano va ben oltre la figura di Bush e le malefatte del suo governo, tanto che personaggi come Noam Chomsky o Chalmers Johnson parlano della necessità per gli Stati Uniti di liberarsi della sovrastruttura imperiale che ormai guida incontrastata la locomotiva americana verso il disastro. Nonostante queste evidenti anomalie sistemiche, George W. Bush resta il principale responsabile, o almeno il più evidente agli occhi di tutti.

di Carlo Benedetti

Ora è pace con una conseguente riunificazione. Ma c’era stato lo “strappo”, vero scisma all’interno della Chiesa ortodossa russa. Si era consumato ufficialmente nel 1927 dividendo in due diversi campi l’ortodossia. Da un lato quella moscovita, dall’altro quella con sede oltre i confini della Russia. Tutto era iniziato con la Rivoluzione comunista del 1917 quando la Chiesa russo-ortodossa aveva accettato – con i buoni uffici del Patriarca Sergyj - le regole dettate dal nuovo sistema istituzionale. Fu in quel momento che una parte del clero ortodosso abbandonò la linea scelta dal Patriarcato di Mosca. Erano gli anni delle persecuzioni religiose e di una guerra civile nella quale l'armata bianca, e con essa gli ortodossi filozaristi, avevano avuto la peggio. Tutti sconfitti e costretti alla fuga in altri paesi. Parte del clero si stabilì dapprima in Turchia e poi in Serbia nel 1921, dichiarandosi “Chiesa ortodossa russa all'estero” pur se lo scisma si consumò nel 1927. Nascevano allora una nuova Chiesa con un nuovo “Vaticano” ortodosso. E da allora si interruppe ogni legame tra le due realtà religiose.

di Elena Ferrara

Un vecchio binario tra nord e sud. Arrugginito perché da più di cinquanta anni non vedeva passare treni. Una strada ferrata da “Cassandra Crossing” realizzata nel lontano 1940 ma inutilizzata dal 1950. Ora la linea è stata rimessa in ordine (ponti rafforzati) e diviene il simbolo di una nuova fase politica tra le due Coree proprio perché destinata a far transitare i treni della distensione. Ma tra le due realtà geopolitiche – tanto vicine ma tanto lontane – c’è anche un altro segnale di speranza. Si riferisce al fatto che esponenti della “Conferenza coreana per la religione e la pace” (cattolici, protestanti, buddisti e confuciani) sono riusciti a visitare Pyongyang, celebrando così il decimo anniversario della partnership con il Consiglio governativo nordcoreano delle religioni. Come consigliato dal Vaticano (che è sempre presente con la sua diplomazia ombra) i cattolici non hanno celebrato la messa nella terra del Nord, ma si sono impegnati in un’azione di riconciliazione incontrando gli esponenti nordisti del “Consiglio governativo delle religioni” per uno “scambio di opinioni” sulla riunificazione della penisola. I religiosi del Sud (erano in 42) hanno visitato il monastero russo-ortodosso di Jongbaek, nella capitale, completato il 13 agosto del 2006 e dove vivono due preti ortodossi nordcoreani, che hanno studiato e ricevuto gli ordini in Russia. Dal canto loro i membri protestanti della delegazione sudista hanno celebrato una funzione nella chiesa Chilgol, mentre i buddisti hanno visitato il tempio di Kwangbopsa.

di Giuseppe Zaccagni

“La sovranità sul Kosovo spetta alla Serbia. Quella terra fa parte integrante del nostro Paese. E’ la terra dei nostri avi. E’ lì che ci sono i monumenti della nostra religione. E’ una terra che rimarrà sempre parte inalienabile del nostro territorio. Non faremo passi indietro e non accetteremo mai di barattare il Kosovo con la possibilità di diventare membri dell’Unione Europea”. Così parla Vojislav Kostunica, primo ministro della Serbia, proponendosi ancora una volta come leader forte ed efficace e risponendo – nel pieno di una vera situazione di emergenza – ai diktat che il segretario di Stato Usa Condoleeza Rice lancia da Mosca. E’ lei, infatti, ad annunciare che “quella provincia della quale tanto si parla, non farà più parte della Serbia”. E che per addolcire la posizione statunitense parla poi – come è nelle migliori tradizioni dell’arroganza americana – di una “indipendenza kosovara sorvegliata”… Ma Kostunica, interpretando i sentimenti dell’intera Serbia e del mondo slavo, non fa passi indietro, pur comprendendo che Belgrado è sotto assedio. Cerca quindi di uscire dallo stallo e da una possibile paralisi. Ha già in tasca una vittoria che non è da sottovalutare e che gli consente di alzare il tiro.


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