- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Con i livelli di popolarità del suo partito in continuo calo, il presidente turco Erdogan sta promuovendo una nuova feroce offensiva contro il principale partito politico curdo, nel tentativo di metterlo definitivamente fuori legge. Allo stesso tempo, qualche giorno fa è partita da Ankara una proposta per convincere i governi occidentali a raddoppiare gli sforzi per risolvere una volta per tutte la crisi in Siria, ovviamente sempre alle condizioni che garantiscano gli interessi strategici della Turchia.
Settimana scorsa, la procura della Corte d’Appello turca ha presentato un’istanza alla Corte Costituzionale per chiedere lo scioglimento del Partito Democratico dei Popoli (HDP) e il divieto di ricoprire incarichi politici per cinque anni nei confronti di quasi 700 membri del movimento che rappresenta la minoranza curda nel paese. L’accusa rivolta al HDP è quella di essere controllato dalla Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), che include partiti curdi attivi tra Turchia, Siria, Iran e Iraq, tra cui il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), considerato da Ankara come un’organizzazione terroristica.
L’HDP è un partito che ha ottenuto quasi sei milioni di voti nelle elezioni del 2018 e detiene 55 seggi nel parlamento turco. Gli attacchi di Erdogan e del suo Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) puntano a liquidare una forza politica di primo piano nella realtà politica del paese e che è di fatto il terzo partito per numero di consensi e di deputati. La campagna anti-curda non è peraltro nuova, visto che negli ultimi anni è tornata a riaccendersi, tra l’altro, con la rimozione e l’arresto di centinaia di amministratori locali del HDP nelle regioni orientali e sud-orientali a maggioranza curda.
Inoltre, da tempo l’AKP, in collaborazione con il suo alleato di estrema destra MHP (Partito del Movimento Nazionalista), promuove l’espulsione dal parlamento turco dei deputati del HDP, dopo che spesso questi ultimi sono stati oggetto di processi e sentenze politiche sempre per presunti legami con il PKK. Il suo leader, Selahattin Demirtaş, è in carcere dal 2016, mentre i deputati Leyla Güven e Musa Farisoğullan avevano seguito la stessa sorte nel giugno 2020. Settimana scorsa è toccato invece a Ömer Faruk Gergerlioğlu, per giorni al centro di un durissimo scontro politico e giudiziario.
La vicenda di quest’ultimo ha mostrato ancora una volta la brutale deriva autoritaria del regime di Erdogan. Gergerlioğlu, oltre a rappresentare il collegio elettorale di Kocaeli per il HDP, è un noto attivista per i diritti umani ed è stato anch’egli riconosciuto colpevole da una corte d’appello turca per il reato di diffusione di “propaganda terroristica”. L’accusa, se non fosse costata a Gergerlioğlu una condanna a due anni e sei mesi di carcere, avrebbe risvolti ridicoli. Il deputato è infatti colpevole di avere scritto un “tweet” in favore di negoziati di pace tra il PKK e il governo di Ankara nell’ottobre del 2016, con l’aggravante di avere postato un link a un articolo che descriveva la proposta di pace del PKK e un suo personale appello a tenerla in considerazione.
Dopo il voto del parlamento che lo ha privato della sua carica di deputato, Gergerlioğlu si era rifiutato di abbandonare il parlamento. Alla fine è stato rimosso dalle forze di polizia e arrestato, anche se la stampa turca ha poi dato notizia del suo rilascio nella giornata di domenica. Contro i provvedimenti ai danni di Gergerlioğlu si sono espressi in molti in Occidente, così come i principali partiti di opposizione in Turchia. Il Partito Popolare Repubblicano kemalista (CHP) aveva tuttavia in passato approvato anch’esso più di una risoluzione che cancellava l’immunità parlamentare dei deputati del HDP e decretava il decadimento dei loro incarichi.
La campagna anti-curda di Erdogan di questi giorni è caratterizzata anche da svariati arresti di altri importanti membri del HDP e di organizzazioni a difesa dei diritti umani. Ci sono pochi dubbi sul fatto che queste misure facciano parte di una strategia per infiammare il clima interno e alimentare i sentimenti nazionalisti in concomitanza col peggioramento della crisi economica e dell’impatto dell’epidemia di Coronavirus. Sul fronte economico-finanziario, proprio in questi giorni ci sono stati alcuni sviluppi che hanno aggravato la situazione del paese, con la moneta turca in caduta libera e pesanti ripercussioni sui mercati azionari dopo il licenziamento a sorpresa da parte di Erdogan del governatore della banca centrale.
Secondo alcuni recenti sondaggi riportati anche dalla stampa internazionale, l’AKP sarebbe ai minimi storici come gradimento tra gli elettori e, se il voto si tenesse oggi, Erdogan potrebbe non avere la possibilità di mettere assieme una maggioranza in parlamento. Infatti, gli alleati ultra-nazionalisti del MHP non supererebbero nemmeno la soglia di sbarramento del 10%. Lo stesso presidente starebbe perciò valutando nuove modifiche alla Costituzione per garantirsi la permanenza al potere. Le misure proposte includono anche l’abbassamento della quota minima necessaria a ottenere seggi in parlamento che, assieme alla messa al bando del HDP, finirebbe per favorire MHP e AKP.
Gli attacchi politici e giudiziari contro l’opposizione curda, inoltre, coincidono con il rinnovato impegno degli Stati Uniti in Siria a fianco proprio delle milizie curde. L’amministrazione Biden, dopo il suo insediamento, aveva ribadito la collaborazione con le cosiddette Forze Democratiche Siriane (SDF), dominate dalle Unità di Protezione Popolare (YPG), braccio armato del Partito dell’Unione Democratica (PYD). Queste formazioni curde sono considerate dalla Turchia alla stregua del PKK e la presa di posizione americana ha riacceso i timori di Erdogan per le possibili ripercussioni sul suo paese derivanti dall’eventuale creazione di un’entità territoriale autonoma curda in Siria nord-orientale. Il tentativo di reprimere qualsiasi possibile rivendicazione indipendentista sul fronte domestico è dunque almeno in parte alla base della nuova caccia alle streghe anti-curda attualmente in corso in Turchia.
Collegata a questi sviluppi è anche la proposta avanzata da Erdogan agli Stati Uniti e all’Europa per affrontare il caos siriano a dieci anni dall’inizio del conflitto. L’iniziativa rivela soprattutto la disperazione del presidente turco, per il quale l’intervento oltre il confine meridionale si è ormai trasformato in un fardello che rischia anch’esso di avere effetti devastanti sui suoi livelli di popolarità. Erdogan, d’altra parte, insiste nuovamente sulla necessità di ripudiare ogni collaborazione con le forze curde siriane, nonostante i suoi alleati NATO in Occidente continuino a mostrare di voler andare in una direzione diametralmente opposta.
Nel tentativo di fare della Turchia il fulcro delle manovre per risolvere la crisi, Erdogan offre una versione dei fatti totalmente fuori dalla realtà. L’intervento nel nord della Siria avrebbe a suo dire aiutato le forze “democratiche” di opposizione al regime di Assad, quando invece le operazioni militari turche hanno di fatto protetto i gruppi armati fondamentalisti che, oltretutto, Ankara si era impegnata a liquidare secondo gli accordi stipulati con la Russia in almeno due occasioni. Erdogan rilancia in sostanza i progetti per il rovesciamento del regime di Damasco, nel tentativo di convincere i governi occidentali a sposare la linea turca in merito alla Siria. Nel farlo, il presidente della Turchia torna anche a minacciare una possibile invasione di migranti e terroristi in Europa se la situazione non verrà stabilizzata secondo gli interessi di Ankara.
Quest’ultima mossa di Erdogan conferma la sua apparente imprevedibilità nella conduzione degli affari esteri, come dimostra il fatto che i messaggi inviati all’Occidente rischiano di mettere a repentaglio quello che egli stesso aveva finora ritenuto l’unico meccanismo per arrivare a una soluzione negoziata della crisi in Siria, vale a dire il “processo di pace di Astana”, a cui partecipano, oltre alla Turchia, la Russia e l’Iran.
A ben vedere, il comportamento di Erdogan rivela piuttosto l’impercorribilità di una strategia contraddittoria e destinata al fallimento. L’invasione del nord della Siria aveva come obiettivo quello di bloccare le aspirazioni curde e di imporre la Turchia come una forza con cui fare i conti in un eventuale processo diplomatico. Così facendo, Erdogan si è però scontrato sia con gli Stati Uniti, assestati illegalmente in Siria a fianco delle milizie curde, sia con la Russia, sempre più insofferente a causa della mancata implementazione da parte di Ankara degli accordi negoziati tramite la formula di Astana. In questo modo, il governo turco si è trovata sempre più invischiato in un pantano da cui non è più in grado di uscire e, per di più, ha visto esplodere le tensioni sul fronte domestico
La Russia, assieme alle forze governative di Assad, lanciano segnali evidenti di impazienza con le prime avvisaglie di una possibile campagna militare per riprendere il controllo delle regioni settentrionali occupate dalla Turchia e dai militanti jihadisti. Gli USA e l’Europa, come già ricordato, non accennano a voler scaricare i curdi, quanto meno nell’immediato futuro, mentre sul fronte arabo si addensano altre nubi per Ankara. Preoccupati per le mire espansioniste turche, alcuni regimi sunniti del Golfo Persico, a cominciare dagli Emirati Arabi, stanno infatti spingendo per la riammissione della Siria di Assad nella Lega Araba.
Pressato in questo modo da più parti e con l’edificio siriano sul punto di crollare, Erdogan potrebbe quindi avere scelto di lanciare un appello all’Occidente per scoraggiare un’escalation militare e diplomatica contraria ai propri interessi. Che USA e UE, nonostante intendano mantenere sanzioni economiche niente meno che criminali contro Damasco, siano disposti a rispondere alle sirene turche è però tutt’altro che probabile. Con il probabile aggravarsi della situazione per la Turchia, perciò, non è difficile prevedere un’ulteriore stretta sulle rimanenti libertà politiche sul fronte domestico.
- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Nella sua prima intervista televisiva da 46esimo presidente degli Stati Uniti, questa settimana Joe Biden ha tenuto a informare i telespettatori americani e di tutto il mondo che, secondo la sua opinione, il presidente russo Vladimir Putin è senza dubbio un “assassino”. Su questo giudizio e su colui che l’ha espresso ci sarebbe da discutere a lungo. Ciò che forse conta realmente è tuttavia il contesto di un’accusa che si accompagna a un’accelerazione coordinata della propaganda anti-russa in America, modello inequivocabile della sempre più pericolosa attitudine che l’amministrazione democratica adotterà nei confronti di Mosca.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Un nuovo documento strategico sulla “sicurezza e la difesa” del governo britannico ha fissato tra gli obiettivi dei prossimi anni quello di aumentare sensibilmente il numero di testate nucleari a disposizione delle proprie forze armate. La decisione minaccia ovviamente di incoraggiare una possibile corsa alle armi atomiche in tutto il mondo e rappresenta inoltre un’indiscutibile violazione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) di cui è parte il Regno Unito. Da un lato, insomma, Londra continua a predicare la necessità di difendere gli equilibri globali basati sul rispetto di un insieme di regole consolidate, mentre dall’altro si pone, e non per la prima volta, in totale violazione del diritto internazionale.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Gli scontri esplosi dopo il golpe militare del primo febbraio scorso in Myanmar stanno assumendo caratteri sempre più violenti in parallelo all’intensificarsi della mobilitazione dei lavoratori di molti settori industriali del paese asiatico. Lo scorso fine settimana si è registrato il dato singolo più pesante in termini di vittime provocate dalle forze di sicurezza, mentre tra la comunità internazionale stanno aumentando le pressioni sulla giunta che ha rimosso il governo semi-civile della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi.
- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
A dieci anni dall’inizio della guerra orchestrata dalla NATO contro il regime di Gheddafi, la Libia ha visto nascere questa settimana un nuovo governo provvisorio che dovrebbe unificare il paese e condurlo alle elezioni che i recenti colloqui di pace mediati dall’ONU hanno fissato per il 24 dicembre prossimo. Gli ostacoli che l’esecutivo di “unità” si trova di fronte sono però enormi e le divisioni e i conflitti che attraversano il territorio libico da est a ovest non svaniranno dall’oggi al domani. Lo strapotere delle milizie armate, l’ingerenza dei paesi stranieri, così come povertà e corruzione, continueranno a segnare a lungo gli eventi di un paese letteralmente devastato da un intervento militare “umanitario” scatenato, nel marzo del 2011, dalla menzogna di una rivoluzione democratica sul punto di essere soffocata nel sangue.