La Costa Rica non è abituata ai grandi titoli di giornale e preferisce essere dipinta nell’immaginario collettivo come terra di pace, nazione “verde”, con uno Stato forte che si fa carico del benessere di una popolazione segnalata come tra le più felici al mondo. Insomma, una piccola “svizzera centroamericana” che snobba e mantiene le distanze dalle nazioni problematiche della regione (Nicaragua, Honduras, El Salvador, Guatemala) e che difende col coltello tra i denti i propri confini per garantire la tranquillità e il benessere della sua popolazione.

Un’immagine da cartolina da offrire ai tour operator che trova però sempre meno riscontri in una realtà che ha cominciato a deteriorarsi a partire dal 2007, quando l’allora presidente e premio Nobel per la pace, Oscar Arias, assecondò e si colluse con il corporativismo multinazionale per fare approvare il Trattato di libero commercio Stati Uniti, America Centrale, Repubblica Domenicana (CAFTA-DR).

In quell’anno, brogli, voto di scambio, pressioni e minacce su settori strategici dell’economia costaricana impedirono alla piazza di avere la meglio nel referendum propositivo. Fu l’inizio della perdita di diritti, dell’incremento delle disuguaglianze. Fu l’inizio della perdita graduale della sovranità economica e giuridica a favore delle multinazionali e dell’installazione di un sistema di esonerazioni fiscali che, oggi, rappresenta circa il 5% del Pil del paese.

Prime avvisaglie

Già tra la fine del 2018 e i primi mesi del 2019, la Costa Rica aveva visto le sue piazze riempirsi nuovamente, questa volta contro il tentativo del governo di approvare un pacchetto di riforme fiscali che avrebbe avuto pesanti ricadute sulla fasce medio-basse della popolazione, in particolare sui dipendenti pubblici. In quell’occasione il risultato non fu dei migliori e la riforma fiscale fu approvata in parlamento.

Due anni dopo, la società costaricana è nuovamente in fermento e le piazze piene, questa volta contro l’intenzione del presidente Carlos Alvarado di firmare un accordo con il Fondo monetario internazionale, Fmi, per un prestito di 1.750 milioni di dollari (1.500 milioni di euro). A mobilitarsi è un ampio ventaglio di settori della società costaricana, molti dei quali riuniti sotto la sigla del Movimento riscatto nazionale, Mrn, che rifiuta i termini del possibile accordo: aumento delle imposte su salari, immobili e transazioni bancarie, tagli alla spesa pubblica, fusione di enti pubblici, privatizzazione della Banca internazionale della Costa Rica (Bicsa) e della storica Fabbrica nazionale di liquori.

La protesta si è estesa a buona parte del territorio nazionale, con blocchi stradali e scontri con i corpi speciali della polizia che non hanno lesinato violenza. Nella zona di Cañas, a pochi chilometri dalla frontiera con il Nicaragua, la polizia ha attaccato senza un vero motivo manifestanti, famiglie e anche giornalisti.

Il fatto è che, dopo anni di lento ma inesorabile peggioramento delle condizioni di vita di ampie fasce di popolazione, diventa sempre più difficile incanalare il malcontento accumulato. Se le cifre macroeconomiche della Costa Rica fanno invidia alla maggior parte delle nazioni latinoamericane e a più di una europea, i livelli di redistribuzione della ricchezza cominciano a mettere i brividi.

Diseguale e antisindacale

Secondo la Banca mondiale, nel 2019 circa un quarto della popolazione viveva in povertà e il 7 per cento in miseria. Costa Rica è passata in meno di trent’anni da essere uno dei paesi più egualitari dell’America Latina a essere, nel 2018, il quarto più diseguale dopo Brasile, Honduras e Colombia. 

La nazione centroamericana è anche tra le più antisindacali dell’intero continente latinoamericano. Secondo dati del Ministero del lavoro (2015) solo il 10 per cento dei lavoratori è iscritto a un sindacato, la maggior parte dei quali nel settore pubblico dove lavora solo l’8 per cento degli occupati. Nel settore privato, invece, la percentuale è inferiore al 3 per cento e il diritto alla libertà sindacale e alla contrattazione collettiva (Conv. 87 e 98 dell’Organizzazione internazionale del lavoro) è praticamente inesistente.

Solo pochi mesi fa, in pieno lockdown per il coronavirus, le autorità costaricane hanno dovuto chiudere un centinaio di aziende agricole situate nel nord del paese, a pochi chilometri dal confine con il Nicaragua. Non solo operavano senza un permesso sanitario, ma impiegavano lavoratori immigrati irregolari e in condizioni di semi schiavitù. Si tratta in prevalenza di aziende he producono, confezionano, commercializzano ed esportano ananas, derivati della canna da zucchero, tuberi e agrumi.

Per il consulente sindacale Frank Ulloa, le autorità conoscevano perfettamente la situazione. “Ora si scandalizzano, ma per anni non hanno fatto nulla e non possono nemmeno dire che erano all’oscuro di ciò che stava avvenendo. Hanno semplicemente preferito guardare da un'altra parte e lasciare che le multinazionali e i loro intermediari nazionali facessero i loro porci comodi. Nel nord del paese si vive un apartheid di fatto. È una vergogna”.

Una situazione drammatica che coinvolge anche le popolazioni indigene della Costa Rica, estromesse dai propri territori da latifondisti violenti e senza scrupoli, che approfittano dell’assenza dello Stato per agire nella più totale impunità. L’omicidio lo scorso anno del dirigente indigeno Bribri, Sergio Rojas e quello di qualche mese fa del leader indigeno Brörán, Jhery Rivera, entrambi impegnati nel recupero dei territori ancestrali, sono l’esempio della grave situazione di esclusione e repressione a cui sono sottoposte migliaia di famiglie.

Il lockdown ha poi dato un colpo mortale a una situazione già di per sè difficile. Le proiezioni ufficiali indicano che il paese chiuderà il 2020 con un deficit finanziario del 9,3 per cento, con un debito pubblico che equivale al 70,2 per cento del Pil e con una contrazione del 5 per cento dell’economia. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, in meno di un anno la dissocupazione è passata dall’11,5 al 24,4 per cento.

No al FMI!

Per chi sostiene l’accordo triennale con il Fmi, questo sarebbe l’unico modo per risollevare il paese. Chi è sceso in piazza pensa invece che servirebbe solo a garantire gli interessi dell’impresa privata e delle multinazionali, rafforzando il modello neoliberista, basato su estrattivismo e agroindustria, acuendo le differenze sociali.

Per il sindacato dei maestri e le maestre, Ande, non è con nuove imposte che si migliora la situazione della Costa Rica, soprattutto quando il grande capitale nazionale e multinazionale continua a godere di enormi sgravi fiscali e si moltiplicano i casi di corruzione. Ciò che sta accadendo, non solo nella Costa Rica ma nella maggior parte dei paesi dell'America Latina e del mondo, farebbe quindi parte di “un piano macabro” ordito dal Fmi, dalla Banca mondiale e dall'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). “Chiediamo giustizia tributaria. Chiediamo che si garantiscano i diritti di lavoratori e lavoratrici, che si fermi la precarizzazione del lavoro. L’accordo con l’Fmi peserà solo sulla classe lavoratrice. Il governo non difende gli interessi della gente, ma quelli delle multinazionali. Che i ricchi paghino come ricchi e i poveri come poveri!”, ha detto Gilberto Cascante, presidente di Ande.

Quale dialogo?

Intanto le proteste stanno dando i primi frutti e il presidente Alvarado ha ritirato la proposta. Nonostante ció, le manifestazioni non cessano. Non sono pochi quelli che temono si tratti di una strategia del governo per prendere tempo, smobilitare la protesta e negoziare i voti in parlamento con quei settori della politica e dell’impresa privata che finora si sono mostrati critici con la proposta dell’eesecutivo.

Nella giornata del 15 ottobre, il Mrn ha annunciato la sospensione dei blocchi stradali fino a mercoledì 21 ottobre. Uno dei leader del movimento, Célimo Guido, ha dichiarato alla stampa che adesso la palla passa al presidente Alvarado, che dovrà dimostrare di volere davvero dialogare con la piazza.

Alvarado sembra invece intenzionato ad andare avanti per la sua strada. Insieme al presidente del parlamento Eduardo Cruickshank ha convocato un tavolo multisettoriale di accordi sulla stabilità fiscale, ma più della metà dei settori invitati ha declinato l’appuntamento.

Sulla possibilità di convocare un tavolo di dialogo, il partito Frente Amplio (sinistra moderata) ha invitato le diverse forze sociali a sostenere un’agenda che abbia come temi principali la giustizia economica e tributaria e a non abbandonare la piazza. I prossimi giorni saranno decisivi per il futuro del piccolo paese centroamericano.

Fino a che punto è possibile parlare di democrazia e stato di diritto in un paese nel quale un sospettato di un crimine viene ucciso sommariamente per strada da agenti di polizia e membri di milizie paramilitari con la piena approvazione dei massimi vertici del governo? Questa domanda andrebbe posta seriamente per gli Stati Uniti, dove recenti indagini giornalistiche hanno ricostruito le circostanze dell’esecuzione in piena regola in una località dello stato di Washington dell’attivista di sinistra, Michael Reinoehl, nel pieno delle proteste esplose in molte città americane contro la brutalità delle forze di polizia.

Il 48enne Reinoehl si era unito quasi subito alle dimostrazioni seguite all’assassinio di George Floyd da parte della polizia nel mese di maggio, aderendo “al 100%” al movimento anti-fascista “ANTIFA”. A Portland, nello stato dell’Oregon, Reinoehl si era auto-assegnato l’impegno di proteggere con le armi i manifestanti pacifici, minacciati da provocatori appartenenti a gruppi di estrema destra, spesso istigati direttamente dal presidente Trump.

Una “carovana” di questi militanti armati era intervenuta durante una manifestazione anche il 29 agosto scorso e nelle strade di Portland erano quasi subito iniziati gli scontri. Reinoehl aveva finito per sparare e uccidere Aaron Danielson, membro di una delle formazioni dell’ultra-destra USA, i cosiddetti Patriot Prayer, e ritratto poco prima da una telecamera di sorveglianza mentre si aggirava tra i dimostranti con un bastone e una bomboletta di spray repellente. In un’intervista rilasciata dopo avere abbandonato Portland per cercare di nascondersi e sfuggire a una probabile vendetta, Reinoehl avrebbe spiegato di avere agito per salvare la vita a un amico che stava per essere aggredito da Danielson.

Questo episodio aveva scatenato l’ira della galassia dell’estrema destra americana e segnato la condanna a morte di Michael Reinoehl, eseguita in collaborazione tra organi di polizia e milizie armate. Dopo alcuni giorni, il sospetto era stato così localizzato a circa 200 chilometri a nord di Portland, grazie a intercettazioni telefoniche, condotte prima dell’ottenimento di un regolare mandato, e alla segnalazione di un informatore della polizia.

La ricostruzione dettagliata dell’assassinio deliberato di Reinoehl che è seguito, già ipotizzata dalle notizie che erano circolate sulla stampa americana dopo i fatti, è stata resa possibile dalle indagini del New York Times, del network radiotelevisivo Oregon Public Broadcasting e della testata on-line ProPublica, basate su interviste con numerosi testimoni oculari e sull’esame dei documenti dell’indagine in corso, affidata all’ufficio dello sceriffo della contea di Thurston, nello stato di Washington.

La mattina del 3 settembre, Reinoehl era appena salito sulla sua auto, ferma nel parcheggio di un complesso di appartamenti dove aveva trovato rifugio in un sobborgo della città di Olympia, quando due SUV privi di segni distintivi delle forze di polizia sono arrivati sul posto a tutta velocità. Dai mezzi sono scesi uomini armati che hanno subito aperto il fuoco contro l’auto di Reinoehl. Dopo i primi spari, quest’ultimo è riuscito a scendere dalla vettura e, nonostante le ferite, ha provato a fuggire in strada, ma è stato alla fine raggiunto da un’ultima scarica che lo ha ucciso sul posto.

Il New York Times ha scritto mercoledì che dei 22 testimoni intervistati e presenti sulla scena solo uno ha sostenuto che i membri del commando si sono identificati o hanno intimato a Reinoehl di arrendersi. Tutti gli altri hanno testimoniato in sostanza di avere visto una vera e propria esecuzione, come era nelle intenzioni degli uomini armati che l’hanno portata a compimento. Nonostante la presenza di testimoni, la polizia federale coinvolta nell’operazione, il cosiddetto “US Marshals Service”, ha invece sostenuto di avere provato ad arrestare in maniera inoffensiva il sospettato, il quale però avrebbe reagito mettendo a rischio le vite degli agenti.

Tre dei presunti agenti responsabili dell’esecuzione hanno comunque fornito informazioni discordanti sugli ultimi istanti di vita di Reinoehl. Uno di loro ha affermato di averlo visto estrarre e puntare un’arma dall’interno del veicolo, mentre gli altri due hanno smentito questa versione. Ancora, dopo il breve inseguimento, Reinoehl avrebbe di nuovo minacciato con una pistola i suoi esecutori, tanto da giustificare la sparatoria finale. La vittima aveva in effetti con sé una pistola calibro .380, ma l’arma è stata in seguito ritrovata ancora nella tasca dei suoi pantaloni.

Braccato da giorni dai suoi inseguitori e comprensibilmente terrorizzato per quello che sarebbe potuto capitargli, Reinoehl si stava muovendo anche con un fucile, ma anche in questo caso l’arma non ha rappresentato una minaccia per nessuno, visto che è rimasta nel portabagagli della sua auto. La polizia avrebbe poi individuato un solo bossolo di pistola nell’abitacolo dell’auto di Reinoehl. I risultati degli esami balistici non sono ancora disponibili, anche se appare altamente probabile che esso provenga dalle armi degli agenti. Secondo le informazioni fornite al Times dalle autorità che stanno conducendo le indagini, gli autori dell’assassinio hanno sparato in tutto 30 colpi con due fucili e altrettante pistole.

Le testimonianze raccolte dai giornalisti che hanno approfondito il caso, molte delle quali da passanti che, incredibilmente, non sono ancora stati interrogati dalla polizia, confermano dunque l’esecuzione deliberata. Alcuni particolari appaiono particolarmente raccapriccianti. Un testimone racconta di come quella mattina del 3 settembre si fosse trovato a pochi metri dal luogo dove avvennero i fatti in compagnia del figlio di otto anni, trovandosi costretto a trovare riparo dal fuoco improvviso.

La sparatoria ha lasciato almeno otto segni di pallottole nelle strutture o nelle abitazioni adiacenti. Un residente della zona ha raccontato che una di esse ha attraversato la propria cucina, sfiorando un famigliare, prima di finire la corsa contro un muro. Altri ancora hanno riferito di aver visto gli agenti – o presunti tali – scendere dai SUV ancora in corsa e aprire subito il fuoco contro Reinoehl, così che l’impressione immediata era stata per lo più quella di un regolamento di conti tra gang di spacciatori.

I fatti descritti sono indiscutibilmente sconvolgenti, soprattutto perché si inseriscono in un quadro segnato da altri episodi tipici di un regime autoritario. Ad esempio, durante le proteste contro la polizia dei mesi scorsi, in più di un’occasione dei veicoli senza identificazione avevano prelevato manifestanti pacifici dalla strada, tenendoli poi in stato di fermo per parecchie ore o alcuni giorni in luoghi sconosciuti e al di fuori di qualsiasi procedimento legale.

Quel che è peggio è che la deriva anti-democratica registrata in parallelo agli eventi di questi mesi è stata incoraggiata, e non solo attraverso tweet e dichiarazioni varie, dal presidente Trump e dai suoi più stretti collaboratori. Trump ha non solo spinto per l’impiego della Guardia Nazione e, in alcuni casi, dell’esercito e dei corpi speciali della polizia contro i manifestanti, ma ha anche promosso apertamente l’intervento di gruppi e milizie di estrema destra, legati in gran parte al sottobosco “suprematista” e razzista, ampiamente diffuso negli Stati Uniti e già in fermento per le odiate misure restrittive adottate contro la diffusione del Corornavirus.

Proprio sul caso Reinoehl, lo stesso Trump e il suo ministro della Giustizia, o Procuratore Generale, William Barr, hanno avuto un ruolo di rilievo, suscitando più di un sospetto circa la regia del blitz in Oregon. Dopo l’uccisione del militante di estrema destra a Portland per mano di Reinoehl, Trump aveva invitato apertamente alla vendetta contro quest’ultimo e, appena un’ora prima dell’esecuzione, aveva indirizzato un messaggio chiaro su Twitter, chiedendo ai membri del commando di fare il loro lavoro e di “farlo rapidamente”.

Barr, da parte sua, aveva celebrato l’assassinio definendolo un “risultato significativo negli sforzi in corso per ristabilire la legge e l’ordine”. Il ministro della Giustizia si era poi lasciato andare a una ricostruzione dei fatti totalmente falsa. A suo dire, l’esecuzione sarebbe stata cioè giustificata dal fatto che Reinoehl stava cercando di fuggire e aveva minacciato con un’arma gli agenti di polizia che intendevano soltanto eseguire un normalissimo arresto.

Una delle principali e più esplosive linee d’attacco degli Stati Uniti contro la Cina è la crescente messa in discussione dello status e delle relazioni consolidate negli ultimi quattro decenni con l’isola di Taiwan. Pur aderendo formalmente alla politica di “una sola Cina”, le ultime due amministrazioni americane e, in particolare, quella attuale hanno promosso una revisione di fatto delle posizioni USA, alimentando lo scontro attorno a un elemento cruciale per la sovranità di Pechino e, nel contempo, mettendo Taiwan e i suoi abitanti al centro di un eventuale rovinoso conflitto tra le due super-potenze.

Gli eventi dei giorni scorsi in Michigan e l’insistenza del presidente Trump sul rischio di una trasformazione degli Stati Uniti in una sorta di inferno socialista, in caso di vittoria di Joe Biden, continuano a tenere alta la temperatura elettorale oltreoceano a ormai appena tre settimane dal voto. Particolarmente preoccupante è stata la notizia del tentativo di organizzare il rapimento e l’esecuzione della governatrice democratica del Michigan, Gretchen Whitmer, da parte di un gruppo di estremisti di destra, quanto meno incoraggiati dalla retorica avvelenata dell’inquilino della Casa Bianca.

Alla vigilia delle elezioni statunitensi, la Casa Bianca intensifica le sue ingerenze in America Latina, ansiosa di portare a casa un risultato da esibire in campagna elettorale. Forse per questo, l'attivismo della Casa Bianca nei confronti del Nicaragua si va intensificando, visto che gli USA considerano il colpo di Stato in stile boliviano la migliore soluzione per il Nicaragua. A Washington e Miami sono preoccupati, l’anno elettorale si avvicina e la cosiddetta opposizione non ha idee, progetti, programmi. L’ambasciatore USA a Managua, Sullivan, si sbraccia e si sgola, ma é rissa interna per accaparrarsi i milioni di dollari statunitensi ed europei già stanziati per la campagna elettorale nicaraguense. Nessun gruppo ha credibilità per vincere ma tutti hanno denti aguzzi e fame di denari stranieri.

Sono diversi i segnali che indicano come per la destra l’ipotesi di una nuova ondata di terrore per piegare il governo sia considerata viabile, non ultimi gli arresti di loro esponenti con esplosivi e munizioni. Di fronte ad una nuova ipotesi golpista, oltre alla disposizione combattente del sandinismo, a sconsigliare ogni velleità arriva anche un aggiornamento del quadro legislativo e giuridico che ribadisce la supremazia della pace. Per questo il Parlamento, oltre a discutere la legge che erogherà l’ergastolo per i reati più brutali, esamina due leggi a tutela della sovranità nazionale: quella sugli agenti stranieri e quella sui cyber delitti.
La prima si riferisce all’attività di gruppi, organismi o partiti che ricevono finanziamenti dall’estero per svolgere attività politica. La seconda riguarda invece chi utilizza la Rete con intenti criminosi destinati a procurare allarmi e panico nella popolazione. Nulla di inedito nel panorama internazionale, entrambe le leggi perseguiranno reati perseguiti in ogni altro paese; ma possono ben essere definite leggi a tutela della sovranità nazionale del Nicaragua.

La legge sugli agenti stranieri imporrà per persone, società, associazioni o qual si voglia ente privato che percepisca denaro dall’estero, la registrazione presso il Ministero dell’Interno della propria attività e la certificazione dei finanziamenti esteri che si ricevono, motivandone motivi ed impiego nel Paese. Ove si omettesse la regolare registrazione presso l’autorità competente scatteranno sanzioni di tipo amministrativo.
L’obbligo di registrazione non riguarderà gli imprenditori esteri, le attività inserite nel quadro degli Accordi di Libero Scambio, le rimesse familiari, i titolari di trattamenti pensionistici o di contratti di lavoro esteri, che saranno esentati dal doversi registrare. Riguarderà invece società, partiti, Ong, organismi di varia natura impegnati nell’attività socio-politica, siano essi veritieri o creati ad hoc.
La destra protesta ma non dovrebbe, dato che fu proprio il governo Chamorro che, nel 1992, votò la Legge 147 che disciplina l’attività delle società che ricevono fondi internazionali e quella delle Ong. Dunque sono proteste strumentali: quando sono al governo votano leggi che poi, quando vanno all’opposizione, non vogliono riconoscere.
La legge - qui sta il problema dell’opposizione – non riguarda le attività professionali ma colpisce l’attività sobillatrice che USA ed Unione Europea svolgono regolarmente a diversi livelli. Tra questi l’iniezione di dollari destinati a disegnare fronti politici ostili al sandinismo, il tentativo di alterare la dialettica politica interna e il finanziamento delle campagne elettorali, attività svolte senza remore dal 1990 ad oggi. Pompare decine e decine di milioni di dollari in una campagna elettorale di un piccolo paese con scarse risorse economiche, assume un valore strategico dai tratti eversivi. E’ una ingerenza sfacciata di paesi esteri nella politica interna che non sarà ulteriormente tollerata.
Il golpismo grida allo scandalo ma in realtà nella maggior parte dei paesi del mondo vigono norme identiche, spesso molto più rigide di quelle che entreranno in vigore in Nicaragua. In Italia, ad esempio, ricevere fondi da paesi stranieri per svolgere attività politica interna è fatto segno a sanzioni durissime, che prevedono pene non inferiore ai 10 anni di carcere (art.243 e 246 C.P.). La corruzione del cittadino da parte dello straniero è sanzionata con pene che vanno da tre a dieci anni di reclusione e se il denaro o l’utilità sono dati o promessi per la propaganda a mezzo stampa, la pena verrà aumentata di un terzo. Quale corrente del Diritto stabilisce che ciò che in Italia è legge in Nicaragua diventa arbitrio?
L’altra legge a difesa della sovranità nazionale che verrà approvata sanziona le fake-news, ovvero le campagne diffamatorie destinate ad alterare artificiosamente il quadro sociopolitico. Sono ormai decine i paesi che, considerando l’importanza strategica di difendere i propri cittadini dai crimini in Rete, hanno legiferato al riguardo ed anche il Nicaragua si dota di una normativa e legislazione adeguata.
Con questa legge verranno colpiti le frodi informatiche, lo spionaggio, la violazione dell’identità sessuale, la pornografia infantile, le violazioni alla sicurezza dei dati, la manipolazione degli stessi, la propagazione di notizie false. Queste ultime sono attività criminali che il Nicaragua ha patito durante il tentativo di colpo di stato del 2018, quando attraverso l’uso massiccio di bot e di falsi profili si sono create reti sociali artificiose che, con la diffusione di fake news, hanno generato il caos, ma soprattutto redatto rapporti falsi sulla presunta repressione. Lo scopo? Essere utilizzati internazionalmente per offrire il totale rovesciamento della verità dei fatti e predisporre il clima ostile verso il governo sandinista nella comunità internazionale, propedeutico all’approvazione di sanzioni. Sono state parte integrante del modello di guerra di quarta generazione e questo tipo di attività è proseguita fino ad oggi, con l’utilizzo criminale della Rete che, al riparo della libertà di espressione, ha potuto continuare in assenza di una normativa specifica che ne regolasse i comportamenti.

I cialtroni di Strasburgo
Le grida dell’opposizione ed il lavoro di lobbies hanno fatto breccia nel Parlamento Europeo maggioranza di ultradestra, che dopo essersi rifiutato di condannare il golpe in Bolivia e di aver condannato il Venezuela, la Russia e la Cina, come già nel 2018 torna ad accusare il Nicaragua, inventando accuse pazzesche indocumentate ed indocumentabili e in un delirio ideologico di natura tardo-coloniale, con l’entusiasmo dei partiti postfascisti presenti affiancati dalla sinistra a venatura liberale, approva una mozione di condanna presentata dall’ultradestra spagnola.
Nella mozione si ordina al Nicaragua di non approvare le due leggi sopra descritte benché Italia, Francia, Germania e Spagna ne abbiano di simili. Si chiede persino la sospensione del Nicaragua dall’Accordo di Associazione con la UE, accusandola di reati commessi da tutti i paesi europei, in particolare da Lituania, Estonia, Polonia, Repubblica Ceka e, ancor più, dall’Ungheria, che firmava leggi liberticide mentre era presidente di turno della UE.
Il Parlamento Europeo si caratterizza una volta di più per rappresentare una Europa priva di ogni decenza politica, dove le reminescenze fasciste riaffiorano con ormai sempre meno vergogna. Inventa colossali falsificazioni su Russia e Bielorussia per applicare sanzioni. Propone vergognose equiparazioni tra orrore e riscatto, insedia presidenti mai votati e offre sostegno aperto ai colpi di stato. C'é da dire che le sue deliberazioni non vengono prese sul serio nemmeno in Europa, figuriamoci fuori, dove si misura regolarmente l’irrilevanza di un continente che è un impotente economico, un nano politico e un verme militare.

Ma visto che nessun progetto di legge potrebbe di per sé scatenare tanta isteria, la mozione approvata a Strasburgo dimostra che effettivamente le due leggi complicano i piani golpisti, alla cui realizzazione l’Unione Europea partecipa con ardore e denaro.

E’ la conferma indiretta della necessità di queste due leggi: sono una risposta alle reiterate minacce di ulteriori ingerenze statunitensi ed europee nella vita interna del Nicaragua per tentare di inquinare lo scenario politico e il processo elettorale. Chi deciderà di rendersi parte attiva della destabilizzazione esterna, adesso sa a cosa va incontro.

Il nuovo assetto del golpismo

A proposito di attività terroristica, c’è da registrare che il MRS cambierà sigla e simbolo. Non data l’incongruenza assoluta tra la sua ideologia e la sigla, ma perché  il Dipartimento di Stato ha spiegato loro come Congresso e Senato USA non voteranno mai lo stanziamento milionario ad una formazione che reca l’aggettivo sandinista nella sigla. Maquillage a scopo di incassi. Cambiare nome per vedere denaro.

Ma la novità sostanziale nel campo della destra è il nuovo ruolo delle gerarchie ecclesiali, che stanche dell’empasse su candidature e alleanze nel quale si trova l’arcipelago del golpismo, decide di scendere in campo direttamente. Lo fa con una campagna pubblicitaria per ora subliminale - per quanto risulti evidente il messaggio - riempiendo di cartelloni pubblicitari il Paese (dimostrando così che i denari non mancano, diversamente da quanto afferma). Dopo che il governo ha ridotto i finanziamenti per una chiesa fattasi partito golpista, chiedono in tutto il paese elemosina per sopravvivere. Ma poi, guarda caso, possono permettersi di riempire il Paese di cartelloni che costano 1500 dollari cadauno al mese. Chi li paga?
Quale che sia la fonte che li finanzia, quella delle gerarchie è una manifestazione di protagonismo politico inusuale e illegittima (la curia non é soggetto giuridicamente legittimato a svolgere attività politica, rappresentando uno Stato straniero, il Vaticano). Niente anime e preghiere: si preoccupa di corpi, politica, cariche, candidature e denaro.

Il messaggio della CEN è chiaro. La Conferenza Episcopale rompe gli indugi e indica la chiesa come referente unitario delle istanze di Stati Uniti e destra locale. In questo senso la febbrile attività politica di Monsignor Silvio Baez - che del golpismo è il principale ideologo - e l’esposizione mediatica della CEN, sembra indicare un monito alle formazioni golpiste ed una prospettiva: se non si trova un accordo tra i diversi interessi in campo, sarà un vescovo a scendere in campo come candidato di tutto lo schieramento antisandinista.

La famiglia Chamorro, capataz locale dell’oligarchia collaborazionista, tenterà in ogni modo di partecipare all’operazione: l’ansia di tornare a spolpare il paese ricostruito è irrefrenabile. La decisione finale spetterà però agli Stati Uniti, che pagano e quindi scelgono il candidato. Ma a decidere del futuro del Nicaragua saranno i nicaraguensi. Se il golpismo, vistosi incapace di vincere, dovesse scegliere la strada del ritorno al terrore, allora i conti saranno diversi e salati. Il sandinismo farà ciò che deve e chi terrorizza finirà terrorizzato.


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