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Dopo quasi due giorni dalla chiusura delle urne, gli Stati Uniti non conoscono ancora il nome del prossimo presidente, anche se l’evoluzione dei conteggi negli stati in bilico sembra avvicinare un esito favorevole al candidato democratico Joe Biden. Con l’attribuzione dei successi in Michigan, Wisconsin e, molto probabilmente, Arizona, all’ex vice-presidente mancano ora solo pochissimi “voti elettorali” per raggiungere quota 270 e assicurarsi la Casa Bianca. A far persistere un certo senso di incertezza è tuttavia la strategia del presidente Trump per cercare di restare al suo posto, affidata per il momento a una serie di cause legali che, nella peggiore delle ipotesi, minacciano di precipitare l’America in una gravissima crisi istituzionale.
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- Scritto da Michele Paris
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L’ondata democratica che la maggior parte dei media e dei sondaggi ufficiali negli Stati Uniti aveva previsto nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali non solo non si è presentata nella giornata di martedì, ma l’ex vice-presidente Joe Biden rischia di incassare una clamorosa sconfitta e di consegnare un inquietante secondo mandato a Donald Trump. Tutto dipenderà da una manciata di stati ex industriali del “Midwest”, dove il presidente repubblicano ha al momento un certo vantaggio che potrebbe però svanire una volta contati i moltissimi voti arrivati per posta. Nonostante il tentativo di Trump di dichiararsi vincitore già nella mattinata di mercoledì, il risultato finale potrebbe essere noto solo tra svariati giorni, sempre che a decidere il nome del prossimo presidente non siano, come nel 2000, i tribunali americani.
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- Scritto da Michele Paris
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La sospensione dal Partito Laburista britannico dell’ex numero uno Jeremy Corbyn la scorsa settimana ha scatenato una guerra interna che sta mettendo di fronte le centinaia di migliaia di iscritti, in gran parte di orientamento progressista se non apertamente socialista, alla nuova leadership erede di Tony Blair. L’operazione in atto contro Corbyn non è niente di meno di una resa dei conti contro tutta la sinistra del partito, basata su un’odiosa e cinica caccia alle streghe. Quello che sta accadendo è cioè il tentativo di attribuire alla sinistra del “Labour” un’attitudine irrimediabilmente anti-semita o, quanto meno, un disinteresse da parte dei suoi dirigenti verso un fenomeno che appare, tutt’al più, di proporzioni a dir poco trascurabili.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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La politica estera dell’amministrazione Trump è stato uno dei terreni dove lo scontro ideologico ha avuto maggiori riverberi. Per la ovvia propagazione su scala planetaria e per l’aggressività mostrata, la politica internazionale del tycoon ha spesso messo in evidenza la dimensione ideologica, che spesso ha prevalso sulla concretezza degli obbiettivi. Ma se la minaccia nucleare, la destabilizzazione internazionale, il riaccendersi di conflitti in Medio Oriente e Asia minore, le reiterate minacce alla Cina ed alla Corea del Nord e il rilancio della stagione dei golpe in America Latina, hanno marcato i primi 4 anni di Donald Trump, c’è però da sottolineare che egli non ha iniziato nessuna nuova guerra, si è limitato a stanziare risorse per continuare a combattere quelle che aveva trovato, in alcuni casi riducendo di molto il contributo statunitense. Ma andiamo a vedere cosa è stato delle promesse più rilevanti del programma elettorale in ordine alla politica estera di questo suo primo mandato.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Il sistema elettorale americano è tradizionalmente oggetto di curiosità e interesse per via della singolarità e delle sfumature che possono talvolta determinare il successo di un determinato candidato, al di là dell’effettivo numero di consensi popolari ottenuti. Quest’anno, il meccanismo elettorale degli Stati Uniti sembra meritare ancora più attenzione, alla luce dei tentativi in atto, soprattutto da parte del presidente Trump, di piegarlo a proprio favore in collaborazione con i tribunali e le autorità politiche locali.
Le elezioni presidenziali americane sono regolate dal secondo articolo e dal dodicesimo Emendamento della Costituzione e si fondano sul concetto, dalla dubbia legittimità democratica, di “Collegio Elettorale”. Esso consiste in una delegazione di 538 rappresentanti eletti direttamente dai cittadini registrati in ognuno dei 50 stati degli USA e nel District of Columbia, i quali a loro volta, pur essendo teoricamente liberi di votare per un qualsiasi candidato alla presidenza del paese, si esprimono in accordo con la decisione presa dagli elettori. Il candidato che riceve la maggioranza assoluta delle preferenze di questi delegati, o “voti elettorali”, cioè almeno 270, viene eletto presidente degli Stati Uniti.
L’elezione per il presidente avviene ogni quattro anni e dal 1845 si tiene il martedì successivo al primo lunedì di novembre. Quella di quest’anno è la 59esima elezione presidenziale ed è fissata per il 3 novembre, anche se molti stati offrono la possibilità del voto anticipato, generalmente per posta a partire tra le due e le sei settimane prima dell’election day. In questa tornata elettorale, segnata dalla devastante epidemia di Coronavirus, più di 80 milioni di americani hanno già espresso il loro voto. Questo numero rappresenta circa il 60% dell’affluenza totale registrata nel 2016.
Il presidente americano può rimanere in carica per un massimo di due mandati. A fissare questo limite è il 22esimo Emendamento alla Costituzione, approvato nel 1951 per formalizzare una consuetudine che, con la sola eccezione di Franklin Roosevelt, era stata rispettata fin dal primo presidente, George Washington. Dopo il voto, il candidato vincente inizia i preparativi per la creazione del proprio gabinetto e l’inaugurazione ufficiale del suo mandato è fissata per il giorno 20 del gennaio successivo (il 21 se il 20 cade di domenica).
Ogni singolo stato assegna dunque un certo numero di voti elettorali in relazione al numero dei propri parlamentari presenti al Congresso, attribuzione a sua volta determinata in base al numero di abitanti. In seguito alla ratifica del 23esimo Emendamento nel 1961, anche al District of Columbia - il distretto federale che ospita la capitale Washington - sono stati garantiti 3 “voti elettorali”, pari al numero di quelli assegnati dagli stati meno popolosi. Complessivamente, i 538 elettori per i quali votano gli americani corrispondono ai 435 membri della Camera dei Rappresentanti e ai 100 senatori, a cui si aggiungo appunto i 3 elettori del District of Columbia.
Lo stato che assegna il maggior numero di “voti elettorali” è la California (55), seguito dal Texas (38), da New York e Florida (entrambi 29), da Illinois e Pennsylvania (20), dall’Ohio (18), da Georgia e Michigan (16), dalla North Carolina (15) e dal New Jersey (14). Oltre al District of Columbia, sette stati ne assegnano invece appena 3: Alaska, Delaware, Montana, North Dakota, South Dakota, Vermont e Wyoming.
Alla luce di questo sistema elettorale, la conquista del voto popolare su base nazionale da parte di un singolo candidato alla presidenza risulta meno importante, e non necessariamente decisiva, rispetto alla conquista di un numero di “voti elettorali” tale da permettergli di raggiungere la soglia di 270, necessaria a garantirsi il successo. L’esempio più recente e clamoroso della conquista da parte di un candidato della maggioranza dei voti espressi, ma della minoranza dei “voti elettorali”, è stato proprio nel 2016 con Hillary Clinton che ottenne quasi tre milioni di preferenze in più rispetto a Donald Trump.
In precedenza, questa eventualità era successa nel 1824, nel 1876, nel 1888 e nel 2000. Quest’ultima circostanza è tornata nelle ultime settimane al centro del dibattito politico americano, poiché le manovre di Trump e dei repubblicani sembrano mirare al coinvolgimento dei tribunali per garantirsi la vittoria se i risultati dovessero essere equilibrati in alcuni stati determinanti.
Le elezioni presidenziali del 2000, com’è noto, furono segnate dal clamoroso intervento della Corte Suprema americana che fermò il riconteggio delle schede elettorali in Florida. Il candidato democratico Al Gore aveva ottenuto oltre 500.000 voti in più di George W. Bush su scala nazionale (il 48,4% contro 47,9%), ma quest’ultimo, grazie all’intervento del più alto tribunale USA, si sarebbe garantito 271 voti elettorali e quindi l’accesso alla Casa Bianca.
Teoricamente, è possibile che alla chiusura delle urne due candidati siano in perfetta parità (269 / 269) o che nessuno degli aspiranti alla Casa Bianca ottenga la maggioranza assoluta dei voti elettorali. In tal caso, la soluzione dell’impasse spetta alla Camera dei Rappresentanti. Ciò è successo finora una sola volta nella storia americana, nel 1824, quando la camera bassa del Congresso di Washington assegnò la presidenza a John Quincy Adams dopo che nessuno dei candidati aveva ottenuto la maggioranza dei voti elettorali.
Quarantotto stati e il District of Columbia adottano un sistema maggioritario integrale (“winner-take-all”) nell’assegnazione dei propri voti elettorali, secondo il quale il candidato che ottiene almeno la metà più uno dei voti popolari si aggiudica l’intera posta in palio. Gli stati del Maine e del Nebraska - il primo dotato di 4 voti elettorali, il secondo di 5 - assegnano invece una parte di essi in base all’esito delle elezioni in ogni singolo distretto elettorale, mentre il candidato che ottiene il maggior numero di preferenze nell’intero stato viene premiato con altri 2 voti elettorali.
Tale sistema - definito “Congressional District Method” - fa in modo che, ad esempio, in uno stato solidamente Repubblicano come il Nebraska, per i Democratici vi siano buone probabilità di conquistare comunque un voto elettorale, quello assegnato dal distretto che comprende la città di Omaha, in genere di tendenze meno conservatrici.
Negli ultimi decenni, la competizione elettorale per le presidenziali americane è stata decisa da una manciata di stati tradizionalmente in bilico tra i due partiti (“swing states”). Questi ultimi sono ad esempio Michigan, Wisconsin, Ohio, Florida e New Hampshire, ma nelle ultime elezioni anche stati come Nevada, North Carolina e Virginia. A detta dei sostenitori democratici, quest’anno sarebbero addirittura in gioco anche Georgia e Texas, ma questa ipotesi appare a molti decisamente troppo ottimistica.
A partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, la maggior parte degli stati nord-orientali e della costa occidentale è di solito favorevole al Partito Democratico (“blue states”), mentre i Repubblicani si sono quasi sempre assicurati quelli del sud, della regione dei Monti Appalachi, delle grandi pianure centrali e del sud-ovest (“red states”). Negli stati che appaiono già assegnati, i candidati non fanno praticamente campagna elettorale, mentre riservano le loro risorse soprattutto per gli “swing states”.
Dal punto di vista puramente teorico, per candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti è sufficiente essere nato in questo paese, risiedervi per almeno 14 anni e avere compiuto 35 anni di età al momento dell’inizio del mandato. In realtà, in un sistema bipartitico bloccato e con un’influenza spropositata dei grandi interessi economico-finanziari, dell’industria militare e dell’intelligence e degli stessi media nazionali, l’ascesa alla presidenza è di fatto consentita solo a personalità legate in qualche modo all’establishment - milionari o sostenuti da milionari/miliardari - e con una certa visibilità pubblica.
Questa realtà è sempre più evidente in parallelo al degrado della qualità “democratica” dell’intero sistema politico americano. Infatti, la campagna elettorale di quest’anno è stata di gran lunga la più costosa della storia degli Stati Uniti. I candidati alla presidenza, assieme a quelli per la Camera dei Rappresentanti e del Senato, hanno raccolto complessivamente qualcosa come 11 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali, come sempre, provenienti dai grandi finanziatori della politica USA, ai cui interessi i nuovi eletti faranno scrupolosamente riferimento per tutta la durata dei loro mandati.