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- Scritto da Bianca Cerri
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Non era ancora completamente sorto il sole e Byron Williams pedalava diretto verso il centro di Las Vegas. Due poliziotti lo videro e si accorsero che uno dei fanalini di coda della bicicletta era rotto. Non era un grande problema e certamente Williams deve aver pensato che lo avrebbe risolto facilmente. Se un cittadino non ha addosso sostanze proibite ed è incensurato la polizia non può trattenerlo più di tanto. Invece i due agenti si dimostrarono più duri del previsto costringendo Williams a fermarsi tra un muretto e una piazzola d'emergenza. Sempre convinto che al massimo gli avrebbero fatto una multa Williams cercò di mantenere i toni più bassi possibile. Sicuramente non si aspettava di ritrovarsi buttato a terra con un collare a strozzo alla gola e il viso schiacciato verso sull'asfalto.
Gli mancava l'aria, non riusciva a respirare. Cercava di emettere suoni gutturali per invocare aiuto. Ci provò diciassette volte fino a quando perse conoscenza e morì. Ancora oggi la famiglia non è riuscita a capire il perché della tragedia toccata ad un uomo che mai era stato coinvolto in attività criminali. Tra il momento in cui Williams era uscito da casa e la morte per soffocamento era trascorsa a malapena un'ora. Pochi mesi dopo il mondo intero sarebbe stato sconvolto dalla pandemia. Ma di vittime di colore uccise da agenti di polizia assetati di sangue ce n'erano state prima e durante.
La morte di Williams ricorda quella di Eric Gardner, anche lui soffocato da un collare detentivo ma a New York, dove questi strumenti di tortura erano stati banditi da più di dieci anni. Quando era stato braccato da due agenti in borghese che lo avevano accusato di contrabbando di sigarette, Garner, un orticoltore che aveva ancora una lunga vita davanti a sé, tentò di far valere le sue ragioni e, a quel punto, venne arrestato e bloccato con un collare allo strozzo. Dopo un'ora di agonia Garner morì. Il medico legale certificò che si era trattato di omicidio. I casi di cittadini americani in stato di fermo temporaneo le cui ultime parole sono state “I can't breathe”, ovvero non riesco a respirare sono stati più di settanta negli ultimi cinque anni. I can't breathe sono state anche le ultime parole pronunciate da George Floyd e dopo di lui da Reyshard Brooks.
Solo la dopo morte di Floyd la gente e le aziende che avevano finto di ignorare la brutalità della polizia e le accorate frasi disperate che le vittime cercavano di pronunciare nell'imminenza della fine pare le abbiano risvegliate. I media hanno finalmente fatto emergere la storia di Javier Ambler, disarmato, che era appena sceso da una macchina dopo un inseguimento e subito bloccato da due agenti che gli avevano messo un collare che gli impediva di respirare. Nato a Houston, Ambler era reduce da una partita a carte con gli amici e stava tornando a casa nei pressi di Austin, dove risiedeva. Anche lui è morto dopo aver implorato I can't breath, una frase destinata a rimanere nell'immaginario collettivo degli americani e non solo.
In base a quanto dichiarato dalla sceriffo della contea di Chody Ambler procedeva a velocità sostenuta e non aveva rispettato uno stop. Bisogna dire che non tutte le morti per soffocamento causate dalla polizia sono state portate a termine dai micidiali collari a strozzo ma certo tutte sono state scatenate da motivi futili. Dopo essere stato ammanettato da agenti di polizia per aver superato il limite di velocità un altr0 afro americano fu strangolato con le mani. Christopher Doner è stato ripreso da un video purtroppo piuttosto frastagliato. Le grandi proteste scatenate dalla morte di George Floyd non c'erano state. Il caso di Floyd ha evidentemente risvegliato la coscienza sopita della gente.
C'è voluto un insieme di tragiche circostanze per riempire le piazze. Nessuno aveva alzato la voce per Manuel Ellis che lottava ogni giorno contro la propria tossicodipendenza ucciso per mano della polizia a Tacoma. Gli agenti lo hanno scaraventato a terra come un mucchio di immondizia. Nel video che registra la sua morte si vede un agente che butta Ellis sull'asfalto e un testimone ha poi confermato che l'uomo è stato picchiato selvaggiamente da più agenti. La stessa cosa è avvenuta con Derrick Scott bloccato dalle guardie con un collare a strozzo. Non posso respirare implorava Scott al quale erano state negate anche le medicine salvavita.
Residente ad Oklahoma City l'uomo era bloccato da almeno tre agenti. Per il giovane afro americano sono gli ultimi attimi di vita. Ha implorato che qualcuno venisse ad aiutarlo ma è stato legato e ogni sua richiesta di aiuto è stata ignorata. La madre di Scott è rimasta sconvolta dalle immagini del video. Le tecniche usate dalla polizia di Oklahoma City per contenere le persone fermate sono coerenti con gli insegnamenti dell'Accademia. C'è stato un certo scalpore per i casi di George Floyd e di pochi altri ed è un bene. Ma le vittime sconosciute sono ancora troppe.
Ogni caso è stato una squallida sequela di azioni disumane culminate con la morte di un essere umano inerme. Si tende a pensare che la brutalità della polizia riconduca inevitabilmente alla povertà. Invece ci sono state vittime provenienti da tutte le categorie sociali. Veterani di guerra, ingegneri. Atleti in erba a volte minori. Fisioterapisti.
Grossisti di carne. Musicisti. Homeless. Infermieri. Medici. Il colore di pelle è sempre, inevitabilmente, nero. Era ora che qualcosa si muovesse dice la gente implicando che il razzismo è sempre stato condonato in passato. Ma la polizia ha sempre usato gli stessi metodi e apparentemente nessuno ha intenzione di fare sforzi per cambiarli.
Derek Chauvin, l'assassino di George Floyd, era stato denunciato diciassette volte. Benché l'opinione pubblica stavolta si sia ribellata, è molto difficile schiacciare un ufficiale di polizia alle sue responsabilità. Hanno continuato a morire persone capitato per caso nel posto sbagliato. Le località possono essere diverse ma a chiunque può essere massacrato senza pietà da una guardia alzatasi con la luna storta. E morire dopo aver invocato I can't breathe col collo stretto da un collare inebetito da un taser mentre i colleghi stanno a guardare con un cappuccio che li ripara dagli sputi.
La pelle nera non ha mai contato nulla nella cultura americana. Neppure per quanto riguarda le donne. All'epoca della schiavitù le donne erano Jezabel affamate di sesso, già gravide appena raggiunta la pubertà. Nei '70 un film aveva reso popolare il personaggio di Sweetie, dieci anni, nata e cresciuta in un bordello che conosceva già tutte le tecniche amatorie più sofisticate. Fu proprio allora che iniziò la mattanza di bambine nere alla periferia di Washington, centro assoluto del potere.
La prima vittima fu Carole Spinks, 13 anni, uscita per fare una commissione e ritrovata morta sei giorni dopo. A Congress Hill l'otto luglio 1971 Darlenia Johnson, 16 anni, fu rapita mentre stava andando a lavorare. Il corpo era troppo decomposto per determinare le cause di morte. Venti giorni dopo, Brenda Crockett, che la mamma aveva mandato a fare una commissione, fu trovata senza vita. Brenda, dieci anni, aveva detto alla mamma che un bianco aveva tentato di portarla via. La notte fu ritrovata strangolata da una sciarpa leggera attorno al collo. Il primo ottobre Nenomposhia Yates, dodici anni, fu trovata anche lei strangolata a poca distanza dal luogo dove erano state trovate le altre e un poliziotto scoprì il corpo di Brenda Woodward. Qualcuno le aveva infilato un biglietto in tasca che accusava le persone di insensibilità e specialmente le donne. Sembrava essere stato ritagliato da un quaderno di scuola.
Molti pensarono - e quelli ancora vivi pensano - che ad uccidere le sei ragazze siano stati dei poliziotti. Il tempo continua a passare ma spesso distrugge la vita delle donne. Quello che fa infuriare è che in alcuni casi la copertura mediatica di donne giovani e belle come Natalie Holloway è stata straordinaria. Nessuno aveva mai sentito di parlare di LaToya Figueroa o Evelyn Hernandez, entrambe di 24 anni. La violenza contro le donne è una tragedia qualunque sia il colore della pelle. Ma l'attenzione che i media dedicano alle vittime bianche e fisicamente attraenti è la peggiore forma di razzismo dell'epoca attuale. Seconda solo alle uccisione impunita di tanti maschi neri ammazzati implorando di poter respirare.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Un atteso rapporto del parlamento britannico sulle presunte interferenze russe nel referendum sulla Brexit del 2016 è stato prevedibilmente utilizzato questa settimana da Londra per lanciare una nuova linea d’attacco contro il Cremlino. La polemica che ne è scaturita ha coinvolto il governo conservatore di Boris Johnson e i due che lo hanno preceduto, tutti accusati di non avere indagato a sufficienza sulle manovre di Mosca, nonostante di queste ultime non sia emersa una sola prova concreta.
Praticamente tutti i giornali “ufficiali” d’oltremanica già dai titoli hanno proposto un’interpretazione fuorviante dei risultati dello studio condotto dalla commissione Intelligence e Sicurezza della Camera dei Comuni. In breve, a partire dal governo Cameron nel 2016, tutti i leader avvicendatisi a Downing Street avrebbero ignorato una montagna di indizi sulle operazioni clandestine della Russia per influenzare il risultato della consultazione che decise l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
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- Scritto da Michele Paris
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Con i sondaggi che indicano un crollo dei consensi a poco più di tre mesi dalle elezioni, il presidente americano Trump continua a dare segnali di estremo nervosismo, riproponendo ricostruzioni immaginarie della realtà odierna degli Stati Uniti e minacciando una serie di iniziative profondamente anti-democratiche. In un’intervista del fine settimana, Trump è tornato ad esempio a ipotizzare il rifiuto di un’eventuale sconfitta nel voto di novembre, a conferma del tentativo in atto, in parallelo all’aggravarsi della crisi politica che stringe d’assedio la Casa Bianca, di mobilitare i suoi sostenitori di estrema destra e almeno una parte dell’apparato militare e della sicurezza nazionale.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Gli anniversari vanno sempre celebrati con sorrisi e calici. In alcuni casi, tendono ad essere solo leve della memoria, ma a volte, per scelta o per caso, diventano ricordi che annunciano. Nel caso del Nicaragua, il 19 luglio è un ricordo e un progetto, lo svolgersi di una storia incredibile e un sogno credibile.
I 41 anni della Rivoluzione vanno raccontati incrociandoli con la storia nazionale, perché la storia del Frente Sandinista è la storia del Nicaragua. Sia quella dell'eroismo, dell'abnegazione, della lotta, della resistenza, del progetto che quella di lutti e vittorie, di dolori acuti e gioie indescrivibili, di identità nascoste e rivelate. È storia di magia e di arte, di sfide impossibili e scommesse folli, di sogni ad occhi aperti.
Tutto e per sempre cambiò il 19 luglio 1979, non solo l'arena politica. All’entrata a Managua delle colonne della guerriglia, l'ingiustizia cercava una via di fuga, perché i giusti marciavano spediti. Nei mercati, nelle strade, nelle scuole, nei corridoi degli ospedali, si respirava la fine della notte oscura del somozismo. Le donne, gli uomini, le speranze, i sogni; persino gli sguardi, il ridere, divennero meravigliosamente insistenti e disordinati, sfacciati e provocatori. La tristezza e l'abbandono divennero fuori luogo, si decretò illegale il tradimento e vergognose la resa e la rinuncia. La parola Patria si fece largo senza pudore alcuno.
La Rivoluzione Sandinista non solo ha stabilito leggi e norme, diritti e doveri, priorità e missioni: ha cambiato i costumi nazionali, la logica, le argomentazioni e il senso comune. Usando le categorie della semiotica, si potrebbe dire che il significato di una rivoluzione, che vede la trasformazione globale del testo e del contesto, nel caso del Sandinista Nicaragua ha avuto pieno riscontro.
I 41 anni del Sandinismo si possono anche contare nelle cifre concrete del governare, i numeri non mentono. Dal 1979 è in corso il progetto per la costruzione della nuova Nicaragua. Fu rallentata e parzialmente interrotta dalla guerra mercenaria degli anni 80. La via della liberazione era inconcepibile per i teorici del razzismo e del saccheggio.
Alfabetizzato, sano e con pari diritti, il Nicaragua divenne pseudonimo di dignità.
Il sandinismo, mai sconfitto e mai domo, soffiò come un vento di libertà e dignità, tracciando il confine tra indipendenza e annessionismo. Dovette difendersi e con dolcezza ma allo stesso tempo con durezza, riprodusse la legge biblica di Davide contro Golia, con parole che diventarono armi e il potente armamento della ragione. Per la terza volta nella storia, protetto dal suo popolo in armi e dal diritto internazionale, l’Fsln spiegò con il suo sangue agli Stati Uniti che il Nicaragua non è terra di conquista. Gli indios si mangiarono los cheles: i cachorros dalla pelle più scura e i grandi occhi neri sfidavano i mercenari e gli invasori biondi dagli occhi azzurri, trascinandoli legati con una corda davanti alla legge nicaraguense e internazionale.
Questi 41 anni sono stati forgiati in diverse fasi. Ricostruire, progettare e difendere il nuovo Nicaragua è stata la storia dei primi dieci, quando la guerra impose lutti e sofferenze, orgoglio patriottico e sfide, tattiche e strategie, rivendicazioni e audacia. Dopo dieci anni di guerra vi fu la sconfitta elettorale, conclusione inevitabile quando si vota con la pistola alla testa. Ma nel contempo, accettando un verdetto che poteva essere respinto, il FSLN proclamò la democrazia raggiunta e non più sopprimibile. Perché anche quando si subisce una sconfitta si può insegnare ai vincitori.
I sedici anni che seguirono con i governi liberali ridussero un paese allo scheletro di se stesso. In nome della democrazia liberale, 20.000 sandinisti furono espulsi dai loro luoghi di lavoro, agli studenti poveri fu reso impossibile continuare a studiare, i contadini dovettero resistere alla vendetta dei proprietari terrieri e il Nicaragua divenne la bonanza della famiglia Chamorro, rappresentazione araldica del tradimento nazionale. Corruzione, ladrocinio, servilismo verso l’impero e repressione furono le gambe del tavolo sotto il quale giaceva il Paese.
La nuova Nicaragua
Cambiò tutto nel Novembre 2006, quando il FSLN tornò a governare e nacque la seconda tappa della Rivoluzione. Con quella vittoria il governo sandinista ha dato inizio al più imponente e incisivo processo di modernizzazione del Paese, tenendo insieme la crescita del PIL e riduzione della povertà, collegando la crescita macroeconomica al tessuto sociale. Come? Rovesciando i paradigmi liberisti e privilegiando la coesione sociale.
La condizione strutturale della povertà non è una forbice che aumenta ogni giorno di più le disuguaglianze: oltre 100.000 pacchetti alimentari vengono distribuiti giornalmente, esistono 52 programmi sociali volti a ridurre il divario tra povertà e benessere. Il Nicaragua è un paese povero, naturalmente, ma le politiche del governo combattono la povertà e non i poveri. Ha basato la sua politica socio-economica sull'inclusione e la partecipazione, con salute, istruzione, pensioni, trasporti, alloggi, aumenti salariali, prestiti agevolati a famiglie, cooperative e piccole imprese. E non solo in termini economici il Paese è diverso: il suo modello di polizia comunitaria ha garantito i migliori risultati in termini di sicurezza in tutta la regione centroamericana. Dal punto di vista della partecipazione femminile c'è un dato straordinario, quello del Gender Gap: dal 2007 il Nicaragua è passato dal 91° al 14° posto nel mondo.
Le cifre del Sandinismo
Il modello sandinista ha i suoi numeri a raccontarne l'animo. Crescita del PIL tra il 4 e il 5% all'anno. 50% di povertà in meno (dal 48 al 24,9%) e di povertà estrema (dal 17,2 al 6,9%). Riduzione della denutrizione cronica infantile dal 27,20 al 9,20. Il 55% della spesa nazionale destinato a un'ulteriore riduzione della povertà attraverso investimenti pubblici. E i numeri si riconoscono: premio FAO per essere stato uno dei primi Paesi a raggiungere gli "Obiettivi del Millennio" nella riduzione della povertà e delle disuguaglianze (dati certificati anche dalla Banca Mondiale e dal FMI).
Sono 136.000 i disabili presi in carico dalle strutture pubbliche. L'istruzione è gratuita a tutti i livelli, ne usufruiscono oltre 2 milioni di studenti di tutte le età: la Costituzione stabilisce che il 6% del PIL gli è destinato. E quindi 7723 aule ristrutturate, 500 centri di studio nelle zone rurali, pasto gratuito quotidiano per 1.200.000 studenti. 500 scuole pubbliche dotate di collegamento Internet e 279 aule mobili per portare le lezioni in ogni luogo del Paese.
Altri numeri? Tra il 2012 e il 2016 aumento del 40% della spesa sociale, con 2,715 miliardi di dollari destinati agli investimenti pubblici. Di questi, 805 spesi per i sistemi di trasporto aereo e terrestre (in 13 anni sono stati costruiti più di 3.500 km di strade e il trasporto pubblico è al più basso costo dell'intera regione); 145 milioni per la salute pubblica, 423 milioni per l'elettricità), 254 milioni per l'acqua e i servizi igienici e 107 milioni per l'istruzione (gratuita a tutti i livelli).
La riorganizzazione sistemica della capacità produttiva ha reso concreto ciò che si intende per sovranità nazionale: l'autosufficienza alimentare è sostanzialmente raggiunta, il Nicaragua produce il 98% degli alimenti che consuma e il 98% del Paese è elettrificato e il 70% dell’energia è prodotta da fonti rinnovabili. E ora pochi si addormentano implorando la misericordia del cielo: più di 50.000 case sono state destinate a famiglie che non erano in grado di comprarle.
Il nuovo Nicaragua si riflette nei più vulnerabili, perché dal 2007 la salute è tornata ad essere gratuita: 18 ospedali sono stati costruiti e attrezzati secondo i più alti standard, (altri 6 sono in costruzione e 5 in progettazione) 170 asili nido e decine e decine di ambulatori sono stati rinnovati o costruiti. E oggi, per affrontare l'emergenza Covid-19 meglio di qualsiasi altro paese della zona, non ci sono solo gli ospedali: ci sono anche 10 cliniche mobili (ed altre 10 previste) con le quali l'assistenza medica pubblica gratuita arriva fino all'ultima casa in ogni angolo del Paese, per quanto remota sia.
Questi numeri rappresentano un modello di giustizia sociale, inclusione e solidarietà che, pur inserito dentro una economia capitalistica, non ha timore di agire il socialismo nelle sue politiche distributive ed equitative. Questo ha spaventato il latifondo e l’impero del Nord che, oltre a non tollerarlo in Nicaragua, ha intravisto il suo alto potenziale di trasmissibilità regionale; per questo nel 2018, l'oligarchia ha cercato di dare un golpe stile Bolivia: questo era l'ordine degli USA.
La scommessa del colpo di stato si è rivelata però sbagliata. Il FSLN ha dimostrato di essere unito, di disporre di forza politica e militare all'altezza di qualsiasi sfida, di saper salvaguardare la Costituzione e le Istituzioni, di tenere al sicuro il Paese e riconoscere nella figura del suo Comandante di sempre, Daniel Ortega, una leadership di altissimo profilo e inespugnabile.
Verso il 2021
Questo 41° anniversario sarà celebrato in modo diverso. La pandemia impedisce le manifestazioni di massa a cui il FSLN ci ha sempre abituato. Ma le precauzioni e l'attenzione non gli impediranno di festeggiare il suo compleanno: ogni casa sandinista sarà una piazza, fisica e virtuale. Ricorderà a tutti, amici e nemici, che il sandinismo è maggioranza assoluta nel Paese.
Non si torna indietro, deve saperlo la destra. Meglio non pensi nemmeno a tentativi di colpi di stato che sarebbero fatali per chi li promuove. Così come sbaglierebbe a pensare che saranno gli USA o gli OSA a decidere il voto. La destra è l’immondizia del Paese, è un aggregato mercenario che vive e opera agli ordini del governo statunitense: non ha nessuna ricetta per il Nicaragua che non sia riportarlo allo stato di colonia. Ma è inutile farsi finanziare ogni vizio da Washington e Bruxelles spacciandosi in progetto, inventare finte Ong per succhiare altro denaro, affannarsi in coalizioni antropofaghe per cercare di trasformare una carovana di politicanti e opportunisti in un'opzione politica. C'è solo un'opzione vincente in campo: quella che vede il Nicaragua come una nazione libera, sovrana e sandinista.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Le ultime settimane hanno fatto registrare l’intensificarsi dello scontro tra gli Stati Uniti e la Cina, tanto da spingere parecchi commentatori a parlare di una nuova Guerra Fredda tra le prime due potenze economiche del pianeta. In questo confronto vengono progressivamente coinvolti anche altri paesi, soprattutto se alleati di Washington. Tra questi, sta emergendo il ruolo della Gran Bretagna, la cui recente decisione di bandire Huawei dalla propria rete 5G potrebbe rappresentare un autentico punto di svolta nei rapporti con Pechino e negli stessi equilibri internazionali.
Lo schiaffo al colosso delle telecomunicazioni di Shenzhen è il culmine di una giravolta operata dal governo di Boris Johnson in larga misura su richiesta dell’amministrazione Trump. A convincere il leader conservatore non sono stati tanto gli improbabili incentivi che potrebbero arrivare da Washington, quanto le minacce, come quella di escludere Londra dalla condivisione di informazioni di intelligence tra i più stretti alleati americani. Un’ipotesi, quest’ultima, che ha subito mobilitato gli ambienti maggiormente filo-americani d’oltremanica, impegnati in una campagna di pressioni su Downing Street per liquidare Huawei nonostante gli interessi economici in gioco.
A gennaio, sempre in conseguenza delle sollecitazioni interne e di quelle americane, Johnson aveva già limitato al 35% la quota delle forniture per la rete 5G britannica provenienti dalla compagnia cinese, classificata come “fornitore ad alto rischio”. Soprattutto, Huawei veniva esclusa dalla partecipazione allo sviluppo di qualsiasi componente sensibile della rete di nuova generazione. La preoccupazione ufficiale dietro a questa misura era il possibile utilizzo di Huawei da parte del governo cinese per penetrare le reti informatiche e delle telecomunicazioni del Regno Unito.
Questo stesso scrupolo sarebbe alla base anche della decisione definitiva e ancora più radicale di martedì. Il governo di Londra, in realtà, si è formalmente nascosto dietro a una motivazione a dir poco discutibile. La sicurezza e la continuità delle forniture degli equipaggiamenti di Huawei non sarebbero cioè garantite a causa del provvedimento, preso lo scorso maggio dalla Casa Bianca, che vietava a livello globale la vendita alla compagnia cinese di microchip contenenti componenti di origine americana.
Huawei ha tuttavia già implementato piani alternativi di approvvigionamento, nonché di produzione interna, che renderanno virtualmente inefficace la misura punitiva degli Stati Uniti. Il voltafaccia di Johnson non ha quindi alcun fondamento per quanto riguarda questo aspetto. Piuttosto, come già spiegato, sono i calcoli di natura politica e strategica ad avere pesato sulla scelta fatta questa settimana.
Ciò appare tanto più significativo e, da un certo punto di vista, incomprensibile se si considera che l’esclusione di Huawei dalla rete 5G britannica dal lato pratico è un vero e proprio autogol per Londra. Le compagnie di telecomunicazioni del Regno Unito dovranno interrompere gli acquisti di componenti da Huawei entro il 31 dicembre. Per rimuovere quelli già installati nella realizzazione della nuova rete ci sarà tempo invece fino al 2027, a testimonianza della laboriosità dei procedimenti che questo provvedimento implica.
La rinuncia agli equipaggiamenti di Huawei avrà poi un costo non indifferente e resta da vedere chi dovrà sostenerlo, fermo restando che finirà comunque per essere scaricato sugli utenti britannici. Un altro discorso merita poi il nodo del reperimento di fornitori alternativi, non esattamente di facile scioglimento. Il ministro della Cultura di Londra, Oliver Dowden, ha ammesso in Parlamento che l’inversione di rotta sul 5G del suo governo ritarderà addirittura di qualche anno il lancio della rete superveloce e costerà fino a due miliardi di sterline. Anche solo alla luce di questi oneri, probabilmente sottostimati, non sorprende che tutte le compagnie britanniche coinvolte nel progetto fossero contrarie all’esclusione di Huawei.
Le questioni legate alla “sicurezza nazionale” che Huawei avrebbe sollevato hanno poco o nessun senso anche perché i componenti forniti dalla compagnia per le precedenti reti – 3G e 4G – potranno rimanere al loro posto. In altre parole, in questi anni la presenza di Huawei nelle telecomunicazioni britanniche non sembra avere rappresentato un problema, mentre da Londra viene fatto credere che potrebbe esserlo per la rete di nuova generazione.
Compagnie cinesi operano inoltre da tempo in altri settori “strategici” del Regno Unito, come quello energetico. In particolare, una compagnia cinese controlla quote significative di un paio di centrali nucleari britanniche e, se effettivamente Pechino rappresentasse una minaccia alla “sicurezza nazionale” della Gran Bretagna, è evidente che una decisione simile a quella riguardante Huawei dovrebbe essere presa anche in questo settore.
Se per Londra i rischi di una presenza cinese in ambiti sensibili sono tutti da dimostrare, quelli derivanti da un irrigidimento delle posizioni nei confronti di Pechino sulla scia dell’approccio americano sono al contrario concreti. A causa delle tensioni su Huawei e Hong Kong, il mese scorso il governo cinese ha minacciato ad esempio il ritiro da due importanti progetti in territorio britannico, come la realizzazione di un nuovo reattore nucleare e la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità.
Pechino ha comunque un ampio ventaglio di iniziative a disposizione in risposta alla decisione contro Huawei e, a giudicare dalle reazioni di questi giorni, intende ricorrervi nel prossimo futuro. Un’editoriale della testata ufficiale in lingua inglese Global Times ha infatti spiegato mercoledì come sia “necessario reagire” e la ritorsione debba essere “pubblica e dolorosa”.
In generale, la quantità e la qualità degli investimenti cinesi in Gran Bretagna potrebbero risentirne pesantemente, andando ad aggiungersi alle conseguenze negative della crisi innescata dalla pandemia in atto e dell’uscita dall’Unione Europea. A lungo il Regno Unito è stato l’approdo preferito da Pechino per la penetrazione cinese in Europa, con tutti i vantaggi che sono derivati o avrebbero potuto derivare per Londra. Gli eventi di questi mesi, aggravati anche dalla disputa attorno a Hong Kong e dalle vicende del Mar Cinese Meridionale, minacciano invece di rompere questa collaborazione e di spingere la Cina a guardare altrove nel vecchio continente.
Ancora riguardo al 5G, i ritardi e i costi che il Regno Unito dovrà sostenere rinunciando a Huawei avranno effetti negativi anche sull’innovazione tecnologica e la sostenibilità dell’economia britannica, dal momento che la nuova rete superveloce dovrebbe creare quello che in molti definiscono come un modello di sviluppo rivoluzionario e altamente competitivo.
Al di là del giudizio sul sistema e il comportamento sugli scenari internazionali della Cina, motivato in primo luogo dai propri interessi come esattamente per qualsiasi altro paese, la decisione del governo conservatore di Boris Johnson di piegarsi ai diktat degli Stati Uniti rischia di alimentare pericolosamente il clima di scontro tra grandi potenze a cui si sta assistendo e, come già dimostrato, di rivelarsi controproducente per lo stesso Regno Unito.
La scelta di campo a favore di Washington viene spesso spiegata anche con la necessità di opporsi in qualche modo alle tendenze autoritarie della Cina, come se gli Stati Uniti o la Gran Bretagna rappresentassero un modello esemplare di democrazia. A questo proposito, l’assurdità della decisione di Londra su Huawei è dimostrata dal fatto che, mentre non sono finora emerse prove concrete della collaborazione per fini minacciosi tra la compagnia di Shenzhen e il governo di Pechino, numerose e abbondanti sono quelle che incriminano gli Stati Uniti.
Per merito soprattutto delle rivelazioni di qualche anno fa di Edward Snowden, è ormai noto che l’apparato di intelligence americano è in grado di intercettare e sorvegliare tutte le comunicazioni elettroniche del pianeta, incluse quelle dei propri alleati, anche grazie alla docilità delle compagnie private americane e occidentali in genere. D’altra parte, una delle principali ragioni della guerra di Washington contro Huawei è da ricondurre al fatto che l’utilizzo di componenti cinesi nelle reti 5G potrebbe impedire agli USA di disporre di una porta d’ingresso nei dispositivi di centinaia di milioni o di miliardi di utenti in tutto il pianeta.