Gli Stati Uniti e l’Iran sarebbero vicini a finalizzare un accordo per lo scambio di detenuti e, soprattutto, per lo sblocco di sei miliardi di dollari di fondi della Repubblica Islamica congelati in Corea del Sud a causa delle sanzioni unilaterali americane. L’intesa, mediata dal Qatar, deve probabilmente superare ancora qualche sconosciuto ostacolo, ma ha già sollevato interrogativi tra gli osservatori sui possibili riflessi che potrebbe avere, assieme ad alcuni altri recenti sviluppi, sulle trattative – in stallo da tempo – per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA).

 

Il primo passo fatto da Teheran era stato registrato il 10 agosto scorso con il trasferimento dalla famigerata prigione di Evin agli arresti domiciliari di quattro cittadini americani e uno britannico. In base a quanto sarebbe stato ora stabilito, i cinque prigionieri verrebbero prima imbarcati su un volo per Doha e da lì proseguirebbero verso la loro destinazione finale. Un identico numero di cittadini iraniani detenuti in carceri degli Stati Uniti verrebbero a loro volta inviati nella capitale del Qatar prima di raggiungere Teheran.

La parte politicamente di maggior rilievo dell’accordo è appunto quella finanziaria. Come già anticipato, sei miliardi di dollari congelati nelle banche sudcoreane dovrebbero essere trasferiti prima in Svizzera, poi ancora in Qatar e, infine, in Iran. Il denaro di proprietà iraniana deriva dalla vendita di petrolio alla Corea del Sud ed è stato finora soggetto alle misure punitive con cui Washington cercava e cerca tuttora di mettere in ginocchio economicamente il paese mediorientale.

Gli ambienti di destra negli Stati Uniti, e non solo nel Partito Repubblicano, hanno indirizzato una valanga di critiche all’amministrazione Biden, definendo i sei miliardi di dollari come un “riscatto” da pagare in cambio della liberazione di cittadini americani. In realtà si tratta della restituzione di fondi che appartengono all’Iran e che sono stati bloccati in un paese terzo, teoricamente sovrano, in seguito a provvedimenti unilaterali dalla legalità molto dubbia.

Il ritorno del denaro in Iran sarà oltretutto vincolato a condizioni restrittive. La Reuters, basandosi su fonti anonime negli USA e in Iran, ha rivelato che i sei miliardi di dollari resteranno inizialmente su alcuni conti speciali in Qatar, sui quali Washington eserciterà una sorta di supervisione, influenzando i tempi del rimpatrio in Iran e le modalità con cui verranno utilizzati. Principalmente, scrive ancora la stessa agenzia di stampa, il denaro servirà a Teheran per acquistare cibo e medicinali.

Uno degli ostacoli principali sembra essere stata l’ideazione di un meccanismo che garantisse la trasparenza del trasferimento di una somma così ingente. Questo problema deriva però solo ed esclusivamente dall’imposizione di sanzioni americane con poco o nessun senso al di fuori dei calcoli strategici di Washington. Per superare queste e altre difficoltà, lo scorso giugno si sarebbero incontrati a Doha i governatori della banca centrale iraniana e di quella del Qatar. Lo stesso governo dell’emirato si è offerto infine di coprire le spese bancarie derivanti dal doppio trasferimento dei fondi fino a Doha.

L’accordo descritto, che potrebbe essere implementato già a partire dalla prossima settimana, è stato negoziato nel quadro più ampio delle trattative per la riesumazione del JCPOA. Si tratterebbe dunque di un punto di convergenza tra Washington e Teheran utile a costruire un clima di fiducia e come punto di partenza per alzare il livello dei colloqui, in ogni caso intrattenuti finora solo in maniera indiretta.

È ad ogni modo legittimo chiedersi se, dopo oltre due anni, sia finalmente in vista un qualche accordo per rimettere in piedi il cosiddetto JCPOA, sottoscritto a Vienna nel 2015 e poi abbandonato unilateralmente dal presidente Trump tre anni più tardi. Tra le voci più autorevoli dell’establishment USA a porsi la domanda è stato il Council on Foreign Relations (CFR) che ha accostato la notizia sullo scambio di detenuti ad altri segnali emersi nelle ultime settimane che fanno intravedere una possibile svolta.

Il più recente è l’ultimo rapporto trimestrale dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) che ha rilevato un rallentamento del ritmo di arricchimento dell’uranio da parte della Repubblica Islamica. Il CFR avverte comunque che restano alcuni ostacoli prima di concludere definitivamente l’accordo, anche se la natura di essi non è del tutto chiara. Che il clima sia tutt’altro che disteso è d’altra parte facile da immaginare. Oltre alle solite minacce in funzione strumentale di Israele, è del fine settimana la conferma del sequestro da parte americana di quasi un milione di barili di petrolio diretti dall’Iran alla Cina.

Lo stesso articolo del CFR cerca in ogni caso di spiegare le ragioni del possibile gesto distensivo che include lo scambio di prigionieri e lo sblocco parziale di fondi iraniani congelati dalle sanzioni. L’interpretazione offerta fa riferimento al recente ristabilimento di normali relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita grazie alla mediazione cinese. In sostanza, l’iniziativa di Pechino punta a garantire una certa stabilità in Medio Oriente e, per questa ragione, il governo cinese avrebbe fatto pressioni su Teheran non solo per ammorbidire le proprie posizioni nei confronti di Riyadh, ma anche di Washington.

Questa tesi è tuttavia smentita da almeno un fattore, cioè che la disponibilità a trattare con gli USA non è mai venuta meno da parte iraniana. L’ostacolo è sempre stato al contrario la posizione troppo rigida o, tutt’al più, i tentennamenti dell’amministrazione Biden. La possibile decisione di raccogliere ora risultati concreti dalla trattativa con l’Iran sembra essere così dovuta, al contrario di quanto sostiene il CFR, alla rapida integrazione di Teheran nei vari progetti multipolari in atto a livello globale e al consolidamento della partnership strategica con Russia e Cina.

Il timore insomma di uno scivolamento definitivo nell’orbita eurasiatica dell’Iran rappresenta l’elemento principale di pressione sulle dinamiche dell’accordo sul nucleare, ma agisce non sulla Repubblica Islamica ma su Washington. Questo stesso principio aveva guidato d’altra parte la decisione dell’amministrazione Obama di sottoscrivere il JCPOA a Vienna nel 2015 nonostante la forte opposizione interna. L’evoluzione del processo diplomatico dipende quindi ora dagli Stati Uniti. La leadership iraniana ha invece già fatto le proprie scelte e, con o senza il ristabilimento del JCPOA, vede ormai principalmente a oriente le occasioni di crescita e sviluppo per il futuro del paese.

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