di Eugenio Roscini Vitali

La morte di Benazir Bhutto, avvenuta giovedì 27 dicembre a Rawalpindi, potrebbe avere un effetto devastante per il Pakistan, ma allo stesso tempo ridare ossigeno a Pervez Musharraf, il presidente salito al potere il 12 ottobre 1999 con un colpo di stato che rovesciò il premier Nawaz Sharif e che oggi viene accusato dall’opposizione di voler boicottare le elezioni parlamentari in programma per il prossimo 8 gennaio. Il posto di capo del Partito popolare pakistano che fu del padre Zulfikar Ali, statista e primo ministro impiccato nel 1979 per ordine del generale golpista Muhammad Zia-ul-Haq, sarà preso dal figlio diciannovenne Bilawal e dal marito Asif Ali Zardari. Anche se le autorità sono convinte che l’assassinio del leader dell’opposizione è opera di una cellula integralista affiliata ad al-Qaeda, nessuno ha ancora rivendicato l’azione terroristica e, da una località segreta, l’unico indagato, Baitullah Mehsud, un leader talebano appartenente ai gruppi tribali che operano lungo la linea di confine con l’Afghanistan, nega di aver avuto un ruolo nell’attentato. Attraverso il suo portavoce, Mehsud ha dichiarato che il modo in cui è stata perpetrata la strage non rientra negli schemi tradizionali delle milizie Pashtun e che per cultura le tribù del nord non colpirebbero mai una donna con un atto terroristico. Quella dell’azione dimostrativa condotta dai gruppi fondamentalisti diventerebbe una teoria sostenibile se non fosse altro che al momento dell’esplosione, innescata da un kamikaze, il capo del Partito popolare pakistano poteva essere già morta; i filmati che documentano gli ultimi istanti di vita della Bhutto, rientrata in patria il 18 ottobre scorso dopo un esilio di otto anni trascorso tra Dubai e Londra, mostrano un uomo che a pochi metri dall’ex premier impugna una pistola e subito dopo si ode uno sparo. Nulla di abbastanza chiaro per identificare il presunto assassino e per conoscere il mandante dell’efferato delitto ma indizi sufficienti per dare adito a dubbi e sospetti.

Mentre la polizia pakistana si affanna nella ricerca dei responsabili della strage, la morte della Bhutto ha già provocato i primi effetti: Pervez Musharraf ha convocato il suo gabinetto per una riunione di emergenza e ha ordinato all’esercito di usare il pugno di ferro per stroncare ogni forma di protesta, paventando l’ipotesi di un rinvio delle elezioni; la Casa Bianca, che aveva puntato molto sull’elezione della Bhutto per scardinare il potere di Musharraf, lancia un piano per salvare la democrazia pakistana e tenta di mettere la mani su un Paese ad alto rischio, patria delle scuole coraniche e dell’oltranzismo più estremo. Così, dopo aver “imposto” il ritorno in Pakistan dell’ex premier senza però pensare che questo avrebbe potuto rappresentare la sua condanna a morte, il presidente Bush riparte alla carica e condanna un gruppo di ipotetici terroristi dimenticando che i mandanti del truce assassinio potrebbero essere stati altri.

Quel 18 ottobre, atterrando a Karachi, Benazir Bhutto era perfettamente a conoscenza dei rischi e dei pericoli a cui sarebbe andata incontro e infatti, solo alcuni giorni prima, durante un’intervista rilasciata alla BBC, aveva parlato del Pakistan come uno dei paesi più pericolosi al mondo; un presagio più che un’angosciante paura visto che il suo arrivo in patria era stato segnato da due sanguinosi attentati nei quali avevano perso la vita più di 140 persone, sostenitori del Partito popolare pakistano riunitisi per festeggiavano il loro leader.

Musharraf aveva trattato e concordato il suo ritorno al solo scopo di dare credibilità alle elezioni ma in realtà l’ex premier non si era mai piegata al compromesso politico e durante la campagna elettorale aveva alzato i toni dello scontro delegittimato più volte il regime; nei suoi discorsi parlava alla folla della speranza di un Paese dove i lavoratori delle classi medie e proletarie possano vivere nella democrazia, dove tutti hanno gli stessi diritti, di una nazione prigioniera dell’estremismo e di un regime incapace di combatterlo.

Oltre a ridare ossigeno al regime, la morte di Benazir Bhutto sta creando le condizioni ideali per innescare una sanguinosa guerra civile. L’opposizione ora capeggiata da Nahwaz Sharif ha infatti deciso di boicottare le elezioni e il partito che sostiene il presidente, la Lega musulmana del Packistan Qaid, ha sospeso la campagna elettorale in attesa di un rinvio ritenuto ormai certo. Gli incidenti continuano a mietere vittime e la rivolta sta incendiando il Paese: la situazione ideale per chiudere definitivamente con il processo di democratizzazione a tutto vantaggio del generale Musharraf, ma che allo stesso tempo favorisce la rivolta delle regioni tribali, feudo incontrastato dell’integralismo islamico che punta a rovesciare l’attuale regime.

In un Pakistan dove il confine tra Islam e occidente è spesso labile, dove il possesso di armi nucleari sta diventando un incubo, dove le grandi scuole coraniche sono spesso sensibili ai richiami dell’integralismo waabita, l’omicidio di Benazir Bhutto può essere interpretato in una chiave diversa, in un’ottica che spazia dal Khashmir al Waziristan, dai ribelli delle regioni tribali del nord ai ribelli indipendentisti del Balucistan e che si spinge fino a toccare il nucleare iraniano. Un insieme di interessi contrastanti che puntano a destabilizzare una regione attraversata dai grandi oleodotti provenienti dal Caspio orientale e dai gasdotti che dall’Iran portano energia all’India; una pipeline che danneggia la lobby del petrolio e che l’amministrazione Bush ha osteggiato in ogni modo, “marchiandola” come fonte di denaro per il progetto atomico di Ahmadinejad. Un delitto che lascia la porta aperta a qualsiasi ipotesi e che non scagiona nessuno, tanto meno chi guadagna dalla strategia dell’instabilità, della paura e del caos.

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