di mazzetta

Se in Italia esistessero cose simili alla libera stampa o se solo il personale politico non fosse in altre e personali faccende affaccendato, qualcuno avrebbe sicuramente chiesto al Presidente del Consiglio Prodi o al capo dell'opposizione quando finirà l'avventura militare italiana in Afghanistan. Probabilmente nessuno dei due poli avrebbe potuto fornire una risposta, neppure approssimativa, ma almeno il tema sarebbe stato posto. Può essere comprensibile che non ci sia un gran interesse a sollevare la questione della missione afgana, trattandosi di un fallimento epocale asseverato in maniera assolutamente bipartisan da una classe politica che spesso non sa dove sbattere la testa, ma che ha ben chiaro quanto le sia utile e vantaggioso attaccare i carri alla locomotiva di Washington. Del resto la domanda impertinente aprirebbe dibattiti che nessuno sembra veramente voler affrontare. Ci sarebbe da discutere sull'andamento dell'occupazione dell'Afghanistan, sulla partecipazione alla fallimentare “War on Terror” condotta dal presidente Bush, ma anche una discussione tutta italiana sul senso dell'interpretare uno schieramento con gli Usa, tanto acritico da apparire a tratti servile. L'anno si è chiuso con pessime notizie dal fronte e con una richiesta da parte americana alla NATO per la fornitura di contingenti militari ancora più corposi, preferibilmente con regole d'ingaggio che renda loro possibile fare la guerra come fanno già altri contingenti e non solo presidiare in maniera passiva le zone di competenza come fanno alcuni contingenti europei, tra i quali il nostro. Richiesta che ha trovato sordi i paesi europei, ai quali ormai è chiaro che in terra afgana non potrà che consumarsi una sconfitta epocale, ma che allo stesso tempo non sanno come disimpegnare i propri uomini dal disastro provocato dalle tattiche dell'amministrazione Bush.

Sconfitta inevitabile, dal momento che tattiche e strategie sono state decise da un'amministrazione alla quale l'invasione afgana interessava solo come viatico a quella dell'Iraq. Divenuto presto un teatro di secondo piano l'Afghanistan è stato affidato ad un manipolo di affaristi e avventurieri, diventando ben presto un pozzo senza fondo nel quale venivano inghiottiti denari e vite umane senza alcun riscontro positivo. Con la consueta coazione a ripetere il masterplan americano per il 2008 in Afghanistan prevede ancora una volta un aumento dei contingenti e un bel po' d'ipocrisia.

L'amministrazione americana ha presentato al Congresso un progetto che, ipocritamente, si dice investirà più risorse nella “ricostruzione” che in armi: peccato che la “ricostruzione” in oggetto sia quella delle infrastrutture per lo scombinato esercito afgano e non a favore dei civili. Per parte del governo afgano, oltre a lamentare l'ingerenza pachistana, l'unica idea che è trapelata in Occidente è quella per la quale l'esercito afgano dovrebbe essere molto più dotato di quanto non previsto, in modo da assicurare la non-ingerenza dei paesi vicini negli affari afgani.

Tale e tanto sforzo di fantasia si riverserà su un teatro nel quale le forze occidentali sono sempre più impantanate e sgradite. Gran parte degli afgani che avevano salutato con favore la cacciata dei talebani comincia ora a chiedere che le forze d'occupazione se ne vadano. Intere province, conquistate facilmente con il gradimento delle popolazioni locali ai tempi dell'invasione, hanno ormai decretato la loro ostilità, più o meno palese, alle forze USA-NATO, rendendo loro di fatto impraticabile il territorio in metà del paese. Senza un orizzonte abbastanza chiaro le forze occidentali si trascinano così da una battaglia all'altra, mentre il governo locale controlla a malapena Kabul.

La resistenza afgana al contrario è in salute; salute che deriva dalla buon momento delle forze “islamiche” in Pakistan - sicura retrovia del conflitto - e dalla non-ostilità degli afgani ai guerriglieri di quella che ormai non è più e non è solo la guerra dei talebani all'Occidente. In Afghanistan nessuno ha vinto “i cuori e le menti” della popolazione, nella quale ora prevale un sentimento di sano scetticismo nei confronti degli uni e degli altri, pur in mancanza di qualsiasi speranza di affrancarsi dalle ingerenze e dalle interessate “tutele” straniere. Molto in salute è anche la coltivazione dell'oppio, inizialmente consentita dagli invasori e oggi molto difficile da riconvertire, almeno a sentire i portavoce della Nato. I talebani l'avevano vietata ed era scesa quasi a zero, dimostrazione ulteriore del consenso e del controllo del territorio del quale godevano e che gli occidentali hanno vanamente rincorso. La “War on drugs” è un'altra chimerica impresa che ha dissanguato inutilmente i contribuenti americani ed è stata persa da parecchio tempo; anche su questa sconfitta è calato un pietoso velo di silenzio.

Gli unici a parlare ormai, al di sopra del fragore delle armi e dell'annaspare di chi si trova sul campo, sono gli americani. I quali dicono chiaro e tondo che non cambieranno strategia e che la guerra in Afghanistan durerà ancora cinque o dieci anni, la stessa previsione di sei anni fa, quando nel 2001 Bush mosse guerra all'Afghanistan. Ad essere buoni significa che da allora non è stato fatto nulla, ma è vero il contrario: azioni politicamente sconsiderate hanno tragicamente peggiorato la situazione militare; il fideismo fintamente ideologico dei neo-conservatori ha bruciato ogni residua credibilità dell'amministrazione americana, ora preda di faide interne in attesa di vedere chi resterà con il cerino in mano.

Il 2008 comincia con pessime previsioni sulla missione militare italiana. Sarebbe cosa buona e giusta che si chiudesse con la certezza che il cerino afgano non rimarrà anche in mano italiana, bruciando inutilmente le vite dei nostri soldati e quel po' che rimane del rispetto per le istituzioni del nostro Paese.

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