di Michele Paris

A pochi mesi dalla scadenza del suo secondo mandato presidenziale, George W. Bush sta inviando significativi segnali di un cambiamento di rotta nella politica estera e nella gestione dei rapporti con i paesi già facenti parte del famigerato “asse del male”. A differenza di quanto affermato con forza dallo stesso presidente americano fino a pochi mesi fa, nelle ultime settimane gli USA stanno infatti intraprendendo importanti azioni, sia pure molto caute, volte ad avviare un dialogo con i governi di Corea del Nord e Iran. E lo stesso atteggiamento intransigente in relazione alla presenza militare statunitense in Iraq sta mostrando le prime crepe sull’onda delle pressioni esercitate dal governo di Baghdad per ottenere la fine dell’occupazione in tempi ragionevoli. Se l’ammorbidimento di un presidente uscente al termine del proprio mandato sui temi degli affari internazionali ha degli illustri precedenti negli Stati Uniti, la nuova e a tratti sorprendente strategia della Casa Bianca rischia però di mettere in serio imbarazzo il candidato repubblicano John McCain, il quale ha investito gran parte delle proprie speranze di vittoria su una gestione intransigente della politica estera americana, modellata in gran parte sull’impronta data ad essa negli ultimi sette anni dal vicepresidente Dick Cheney. In seguito al depennamento del governo di Kim Jong-Il dall’elenco dei presunti sponsor del terrorismo da parte dell’amministrazione Bush, il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice è protagonista proprio questa settimana a Singapore di un incontro con il proprio omologo nordcoreano Pak Ui-chun nel primo meeting ad alto livello tra i due paesi per discutere dello smantellamento del programma nucleare della Corea del Nord.

La missione della Rice riporta immediatamente alla memoria quella di Madeleine Albright a Pyongyang, dove venne accolta dal dittatore in persona, durante le ultime fasi della presidenza Clinton nell’ottobre del 2000 e, nei migliori auspici, dovrà chiudere le lunghe trattative diplomatiche seguite alla fase più critica delle relazioni con il governo nordcoreano. Il momento di massima tensione fu registrato meno di due anni fa, quando l’esecuzione di test con armi nucleari suscitò la ferma condanna dell’Occidente, della Corea del Sud e del Giappone.

Ma più ancora delle vicende nordcoreane, è la svolta di Bush in Medio Oriente a sollevare in questi giorni un acceso dibattito nel mondo politico e giornalistico d’oltreoceano. Gli argomenti di discussione riguardano due dei fronti più caldi della politica internazionale: Iran e Iraq. Nello scorso fine settimana infatti, la Casa Bianca ha inviato a sorpresa il numero tre del Dipartimento di Stato, William J. Burns, al tavolo delle trattative di Ginevra dove è tuttora in corso l’incontro tra i rappresentanti di Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania e quelli iraniani.

Ogni tipo di negoziato con l’Iran era stato invece precedentemente escluso con forza dalla Casa Bianca, a meno di una preventiva sospensione del programma di arricchimento dell’uranio portato avanti da Teheran. Per quanto riguarda l’impegno USA in Iraq poi, Bush ha lasciato intendere qualche giorno fa di essere pronto a prendere in considerazione l’idea di un ritiro programmato delle proprie truppe, ipotesi sempre fermamente respinta in passato.

Simili concessioni in politica estera non sono certo una novità negli ultimi mesi del mandato presidenziale. Oltre al già ricordato avvicinamento di Bill Clinton alla Nord Corea, anche l’amministrazione Reagan sul finire del 1988 diede il via a colloqui formali con l’OLP. Quello che sorprende però riguardo al cambiamento di rotta dell’attuale inquilino della Casa Bianca e del suo entourage è il nettissimo contrasto con la loro dottrina così energicamente sostenuta negli anni precedenti, fondata tra l’altro sull’impossibilità di qualsiasi dialogo con i nemici dell’America.

Non a caso, solo qualche mese fa George W. Bush in un suo intervento alla Knesset israeliana ebbe parole molto critiche nei confronti di eventuali contatti senza preclusioni verso paesi come l’Iran e con un implicito riferimento alla posizione sostenuta da Obama paragonò addirittura tali velleità a quelle di alcuni politici anglosassoni verso Hitler e il nazismo alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Pur con tutte le precauzioni del caso, volte ad ammonire gli ormai quasi ex appartenenti alla lista nera degli sponsor del terrorismo internazionale circa l’immutata intransigenza a stelle e strisce, risulta innegabile la svolta intrapresa dall’amministrazione Bush, tanto che critiche e apprezzamenti iniziano a giungere in maniera più o meno velata da entrambe le sponde dell’oceano. Più di un brivido poi deve essere corso lungo la schiena dei falchi del Dipartimento di Stato e del Congresso quando il presidente ha annunciato di essere disposto a valutare un “generico orizzonte di tempo” per la fine dell’occupazione dell’Iraq.

Tale marcia indietro d’altra parte non è altro che una presa d’atto della profonda opposizione sia dell’opinione pubblica irachena sia di quella americana ad una presenza prolungata degli Stati Uniti nel paese, espressa oltretutto in maniera molto chiara e inaspettata anche dal primo ministro Nuri al-Maliki in una recente intervista al magazine tedesco Der Spiegel. In sospetta concomitanza con la visita a Baghdad di Barack Obama, Maliki si è infatti spinto fino ad appoggiare la proposta del candidato democratico di un ritiro entro due anni dell’esercito statunitense dal territorio del suo paese.

Al di là delle motivazioni che stanno dietro a tale metamorfosi, la nuova strategia di Bush sulle più infuocate questioni internazionali non deve essere piaciuta molto nemmeno al candidato repubblicano John McCain. Già messo in un angolo dai media in una settimana monopolizzata dalla trasferta mediorientale ed europea di Obama, il Senatore dell’Arizona corre infatti il serio pericolo di trovarsi in un imbarazzante isolamento sui temi della politica estera. Le sue posizioni relative alla gestione dei rapporti con Iran e Corea del Nord, nonché della situazione in Iraq, potrebbero rischiare di essere superate dai fatti nel breve periodo compromettendo così la sua immagine di affidabile “commander-in-chief” ed esperto stratega sulla quale ha puntato praticamente l’intera campagna elettorale.

Se a tutto ciò si aggiungono poi le numerose gaffe infilate recentemente da McCain, il quale è parso quanto meno avere le idee poco chiare circa la differenza tra Sciiti e Sunniti, oppure ha fatto riferimento alla Cecoslovacchia come ad un paese tuttora esistente o ancora ha sottolineato la necessità di dover combattere duramente contro i terroristi lungo un fantomatico confine tra Iraq e Pakistan, risulta chiaro come le sue prospettive in vista delle elezioni di novembre siano tutt’altro che rosee.

Sono proprio le conseguenze della scelta strategica di incrementare le truppe americane in Iraq (il cosiddetto “surge”) decisa da Bush nello scorso anno e fortemente appoggiata da McCain a rivolgersi ora contro il candidato repubblicano. Se le condizioni sul campo in Iraq risultano da qualche mese a questa parte decisamente migliorate e il livello di violenza drasticamente ridotto, lo si deve in parte anche alla più numerosa presenza di militari USA in quel paese. Una situazione questa che ha permesso una maggiore intraprendenza del governo iracheno, e della sua popolazione, nei confronti degli Stati Uniti tanto da spingere il proprio primo ministro a sollecitare più o meno apertamente una fine relativamente rapida dell’occupazione.

La partenza dell’esercito americano dall’Iraq dipenderà dalle decisioni dei suoi comandanti militari, ha sostenuto però McCain, il quale tuttavia, che diventi o meno il prossimo presidente americano, non potrà trascurare la volontà del popolo iracheno, la cui emancipazione nella retorica dell’amministrazione Bush e dei suoi sostenitori è stata precisamente la ragione ultima dell’invasione e del rovesciamento di Saddam Hussein cinque anni fa.

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