di Stefania Pavone

E’ un sogno tinto di verde la Grande Palestina che balena dietro il tripudio di bandiere di Hamas: alte, nel cielo di Gaza, dilacerano per un attimo, un attimo soltanto, l’assedio di una città ridotta allo stremo. E’ un momento di festa: il partito islamico celebra i ventuno anni dalla propria nascita. La gente festeggia: come una piovra si riversa lucida, compatta, nelle strade della città, chiedendo, con la propria massiccia presenza, a chiare lettere, la fine dell’occupazione israeliana. E mentre si approfondiscono le linee programmatiche sul grande tema della sicurezza in uno Stato ebraico in piena campagna elettorale, l’ala dura di Kadima, con il Ministro degli Esteri Tpzi Livni, vuole la morte del governo di Hamas a Gaza e il laburista Barak, in vena di moderazione, chiede il mantenimento della tregua, Haniey, leader di Hamas, dal palco della manifestazione tuona: “Israele non rispetta gli accordi”. Ben guardandosi - è ovvio - dal proclamare la ripresa delle ostilità. Ma quali sarebbero gli accordi da rispettare, se ce ne sono di veri? Ecco che tutta l’ardua quaestio della tregua tra Hamas e Israele si precisa, nella sua storia come una tragica menzogna. O meglio: uno stanco gioco delle parti in cui il partito islamico misura la tattica e la strategia della fedeltà al proprio progetto politico e il sionismo la denuncia del fondamentalismo religioso come movimento terrorismo. No al disarmo, no alla rinuncia alla violenza e ad ogni forma di trattativa con Israele: con queste parole d’ordine Hamas ha rilanciato a Gaza, nel tempo, il proprio profilo di partito belligerante.

E mentre Israele dice di volere la tregua, con una lunga catena di assassinii e arresti cerca di smantellare il complesso assetto del partito islamico. C’è che buona pare dell’Occidente segue verso Hamas una politica a doppio binario: la condanna dell’ala militare e relazioni politiche costruttive con l’ala politica. Invece Israele nega tale distinzione, bollando il partito islamico di terrorismo. Per i sionisti, Hamas è un oppositore che non può essere cooptato né accettato in un percorso di pace. Dunque: deve essere annientato. Di conseguenza, i “cessate il fuoco” proposti dal movimento islamico non vengono ricompensati con adeguate contropartite.

La stretta della comunità internazionale e di Israele su Hamas è tale che la sua dirigenza appare oscillare attorno ad un dilemma amletico: accettare tutta una serie di precondizioni che ne sminuiscono la posizione contrattuale o rifiutare tutto esponendosi a pesanti rappresaglie da parte israeliana? Il doppio volto della politica di Hamas oscilla ambiguamente attorno a questi due poli. Ma se la Grande Palestina vagheggiata dagli islamici viaggia come un sogno sullo sfondo di una precisa condotta politica, il lampante pragmatismo pieno di sfumature cui Hamas ha ispirato l’azione di governo, ad oggi, accetta la tregua in cambio della liberazione dei territori occupati da Israele nella guerra lampo del’67.

Ma il riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele non è mai arrivato davvero. Neppure il Documento dei prigionieri, sottoscritto da Fatah e Hamas, ha mai risolto tale nodo. Del resto, il gioco delle parti è stato tale che ad ogni “cessate il fuoco” da parte del partito islamico, gli israeliani hanno risposto continuando ad assassinarne i leaders. Tutto questo ha reso il processo di pace come un gioco senza regole e senza controlli imparziali. Ma non era stata proprio Israele a sostenere Hamas come alternativa alla politica dell’Olp?

Quel che vuole Hamas e quel popolo che ha invaso con un tripudio di bandiere verdi le strade di Gaza, è la fine dell’occupazione. Né la moderazione a sorpresa di Barak in favore della tregua, né la politica guerrafondaia della Livni sembrano disposti a concedere nulla in tale direzione: il sionismo, anzi, marcia compatto verso una tesa campagna elettorale destinata a rallentare l’azione di governo. Il 19 novembre scadrà la tregua nella zona di confine tra il Negev e Gaza e ancora si continua a combattere. L’esercito israeliano ha accresciuto la violenza oppressiva del proprio assedio con continue incursioni nella Striscia. Uccisi circa una ventina di palestinesi: tutti miliziani; duecento kassam e colpi di mortaio sono stati sparati contro il territorio israeliano. Quanti missili e incursioni più di prima o meno di prima? Conta poco. Qualche convoglio umanitario distribuisce briciole a Gaza. E la tensione politica non sembra affatto diminuire.

Intanto da Damasco, il capo dell’Ufficio politico di Hamas, Khaled Mashal, ha detto che “la tregua non sarà rinnovata”. L’isolamento internazionale non ha affatto indebolito il partito islamico, anzi: la festa di Gaza ne ha fatto un simbolo assoluto della resistenza e dell’autodeterminazione palestinese. Dal palco, in mezzo alla bandiere verdi, un attore impersona il soldato israeliano Shalit. Che invoca aiuto. Così come lo invoca un intero popolo, chiuso da tanto troppo tempo in un’aria di morte.

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