di Eugenio Roscini Vitali

La rivoluzione della giustizia sociale, della lotta alla corruzione e al dispotismo; la rivoluzione che spazza via una monarchia millenaria e frantuma un regime asservito all’interesse straniero, che umilia le grandi potenze e sfida l’occidente, che vive in bilico tra conoscenza mistica e progresso, tra anticolonialismo e ideologia, la rivoluzione khomeinista compie trent’anni. Trent’anni segnati da una forte conflittualità interna, un contrasto dovuto alla differente legittimità in cui convivono i diversi organi dello Stato, quelli politici e quelli religiosi, quelli nati dal consenso popolare e quelli dovuti alla dirompente innovazione che ha caratterizzato il pensiero rivoluzionario khomeinista: il principio del giureconsulto, quello secondo il quale durante l’Occultazione del Dodicesimo Imam è il migliore tra i dotti religiosi a guidare il popolo. Un principio che dividerà lo stesso clero sciita e che indurrà parte degli specialisti del sacro ad abbandonare la tradizione quietista che impone l’obbedienza allo shah per assumere il controllo e la gestione diretta del potere. Per molti l’Iran post khomeinista è un monolite impregnato d’ideologia e retorica che, per origine e ordinamenti, non è in grado di sviluppare nuovi movimenti di pensiero. In realtà, dopo la fase rivoluzionaria dominata da Khomeini e il lungo periodo dell’egemonia radicale, lo Stato islamico iraniano ha dato vita alla fase della ricostruzione, caratterizzata dall’alleanza tra conservatori religiosi e pragmatici, fautori della modernizzazione e di modelli economici meno isolazionisti. E’ arrivato poi il riformismo, il movimento che basandosi su concetti come il governo del popolo, ha aperto la società civile al pluralismo; è stata infine la volta del khomeinismo senza clero, del partito dei militari, della rivincita dei diseredati. Queste le trasformazioni di una rivoluzione che ambisce a diventare un modello sociale per tutto il mondo islamico e che, con tutte le contraddizioni del caso, è ancora troppo giovane per essere giudicata.

E’ il 1 febbraio del 1979 quando all’aeroporto di Teheran tre milioni di persone accolgono il ritorno trionfante dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, il leader che ha saputo trasformare l’idea classica del tradizionalismo religioso in mobilitazione contro le tradizioni e ha indicato l’islam come mezzo di identificazione politica. E’ circa un anno che le proteste vanno avanti, esplose dopo che, il 7 gennaio 1978, il quotidiano Ettelaat pubblica una notizia secondo la quale l’ayatollah Khomeini altri non è che una spia al servizio dell’intelligence occidentale. Scioperi e manifestazioni di protesta che la Savak, la famigerata polizia segreta, reprime nel sangue; nell’arco di pochi mesi il regime si macchia di orrendi delitti ma questo non ferma la rivolta. Il 16 gennaio 1979 lo Shah fugge al Cairo, l’11 febbraio le forze rivoluzionarie prendono il controllo del paese. Ma il conflitto tra religione e potere è già scoppiato diversi anni prima, quando nel giugno del 1963 Khomeini attacca pubblicamente il regime ed accusa Mohammad Reza Pahlavi di essere un nemico della fede.

Alla base c’è la reazione del clero alla “rivoluzione bianca”, una rivoluzione voluta dallo Shah che cerca di spingere l’Iran verso la modernizzazione e che prevede anche l’alfabetizzazione delle masse, la concessione dei diritti politici alle donne e la riforma agraria. Cambiamenti che ottengono un largo consenso ma che scatenano l’ira del clero e mettono in discussione il ruolo di chi per secoli è stato custode della religione, della conoscenza e di un vasto patrimonio terriero. Oltre ai mullah, che dominano le aree rurali più sperdute, la riforma colpisce i latifondisti e la classe media, ancora più agguerrita dopo che nel 1967 viene rivisto il diritto di famiglia a favore delle donne. Ma è nel 1963 l’ira del clero raggiunge l’apice: viene varata la norma che obbliga i seminaristi ad assolvere il servizio militare.

Alle proteste di piazza fomentate dai vertici religiosi, il governo reagisce ordinando l’arresto di Khomeini. Rilasciato, alcuni mesi dopoviene nuovamente incarcerato per aver incitato la folla a boicottare le elezioni. Dopo circa un anno, nella primavera del 1964, l’ayatollah torna libero e in ottobre rafforza l’alleanza con i secolaristi che non hanno ancora perdonato a Reza Pahlavi il golpe con il quale, nel 1953, ha rovesciato il governo Mossadeq. Facendo leva sull’orgoglio nazionale e sul sentimento anti-americano, Khomeini lancia una campagna contro la decisione dello Shah di concedere l’immunità diplomatica a tutti i cittadini americani presenti nel paese, civili e militari. Questa mossa, che gli assicura le simpatie e l’appoggio dei laici, lo rende talmente forte e pericoloso che il regime decide di sbarazzarsene e lo costringe a lasciare l’Iran; è il 4 novembre 1964 quando parte per la Turchia.

Contrariamente al clero, le forze laiche non godono di una grande organizzazione e questo non gli permette di giocare un ruolo nel crescente malcontento che deriva dai problemi sociali causati da una modernizzazione forzata ed affrettata. Inflazione, disoccupazione, corruzione; tutto gioca a favore di Khomeini che, sostenuto in patria dagli ayatollah e dai bazari, i mercanti da sempre legati al clero e alle tradizioni socio-religiose sciite, diviene punto di riferimento del Movimento di liberazione dell’Iran, il partito erede del Fronte nazionale di Mossadeq, e del Tudeh, il partito comunista filo-sovietico che rifiuta l’ipotesi della rivoluzione armata proposta dai Fedayn-e Khalq e dai Mujaheddin-e Khalq.

I profitti derivanti dall’aumento del greggio dovuto dalla guerra arabo-israeliana non fanno altro che alimentare il sogno dello Shah che punta a trasformare l’Iran nella prima potenza militare del Medio Oriente e per questo stringe con Washington legami sempre più stretti. L’identificazione di un Iran alleato degli Stati Uniti diventa il collante del dissenso, la saldatura politica tra apparato religioso e laico secolare, un’opposizione che diventa lotta quando il regime decide di contrastare gli oppositori con la repressione. L’aggregazione è però talmente squilibrata a favore del clero che, nonostante il determinante apporto dei nazionalisti e delle sinistre, Khomeini riuscirà a dare alla rivoluzione un’identità del tutto religiosa.

Sarà necessaria una guerra perché le masse diventino l’attore principale dell’esperienza islamica in Iran. E’ il 22 settembre del 1980, le truppe di Saddam Hussein invadono il paese, a nord penetrano nel Kurdistan, a sud nel Khuzestan arabo: l’obiettivo è la conquista dal Shatt el-Arab, la porta d’ingresso alle rotte marittime del petrolio. Teheran, che ha appena incassato una grande vittoria politica sugli Stati Uniti, rei di aver fallito il colpo di mano con il quale hanno tentato di risolvere la crisi dell’Ambasciata, è alle prese con l’epurazione dei vertici militari, accusati di complotto ai danni di Khomeini. Questo indebolisce in maniera determinante le difese iraniane e i pasdaran, ormai padroni dell’apparato militare, non sono all’altezza di far fronte al più armato e preparato esercito di Baghdad. Ancora una volta Khomeini sa però far leva sull’orgoglio nazionale, sentimento che nel paese dà il via ad una mobilitazione tale da rovesciare più volte le sorti della guerra. La parola d’ordine è il martirio in nome della rivoluzione, l’assalto all’arma bianca che non si ferma neanche di fronte all’impiego di armi chimiche, alle fortificazioni e ai bunker costruiti dagli iracheni lungo le paludi che circondano Bassora.

Con il passare degli anni il conflitto assume una dimensione sempre più aerea, un mutamento di scenario bellico che causerà vittime anche tra la popolazione civile e colpirà il cuore del paese, un cambiamento che influirà nella decisione di Khomeini di porre fine alla guerra. Nel luglio del 1988 Teharan, isolata politicamente dal mondo islamico sunnita e da gran parte della comunità internazionale, sottoscrive la risoluzione 598 delle Nazioni Unite e pone fine ad un conflitto che ha causato 300 mila vittime, 500 mila feriti e migliaia di mutilati. In Iran la guerra lascia un segno che va ben oltre l’orgoglio nazionale e la difesa dei confini; si concretizza l’ideologia del martirio, di quel sacrificio per la rivoluzione che rende forte il partito dei militari ma che allo stesso tempo segna una generazione, quella che ha pagato di persona un’esperienza folle e che si sente tradita dalla stessa rivoluzione. I martiri e diseredati iniziano a nutrire un forte sentimento di rancore, un sentimento che vent’anni più tardi porterà alla vittoria Mahmoud Ahmadinejad, il primo presidente, dopo Bani Sadr, non appartenente al clero.

In trent’anni l’Iran passa dalla mani del clero a quelle di un uomo qualunque, il figlio di un fabbro che mette in discussione la legittimità del potere degli ayatollah, quella legittimità messa in discussione da uno degli ideologi della rivoluzione, il filosofo e sociologo Ali Shariati, teorico della lotta all’oppressione e all’ingiustizia.

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