di Eugenio Roscini Vitali

Il 1° maggio 1933, durante il programma di pulizia delle città dagli “elementi socialmente pericolosi”, migliaia di “indesiderati” vengono arrestati a Mosca e Leningrado. Schedati e privati dei documenti, i prigionieri vengono deportati nel campo di transito per coloni speciali di Tomsk, in Siberia;  in due diverse fasi vengono poi trasferiti 800 chilometri più a nord, in un luogo isolato in mezzo al fiume Ob, sull’isola di Nazino. Isolati su quel piccolo lembo di terra, senza cibo ne mezzi di sussistenza, i 6.114 prigionieri di Nazino soffriranno talmente tanto la fame che sull’isola si registreranno migliaia di casi di antropofagia: è così che quel luogo prenderà il nome di «isola dei cannibali». Da questa agghiacciante storia d’orrore, tragico prodotto dell’assurda  politica stalinista riaffiorato all’attenzione della società civile solo dopo l’apertura degli archivi russi incoraggiata dalla Perestroika, si salveranno circa duemila persone, 1.700 delle quali in condizioni fisiche disperate.

Il primo a far luce su quell’orrendo frammento dell’arcipelago gulag, conosciuto come “Affare Nazino”, fu un giovane dirigente del partito comunista sovietico, Vassilii Arsenievich Velichko, responsabile di un piccolo giornale locale che nell’agosto del 1933, dopo aver raccolto le prove dell’atroce misfatto, ebbe il coraggio di denunciare l’accaduto alle autorità superiori. Alla commissione di inchiesta istituita il mese successivo Velichko dichiarò: « Ho condotto di mia iniziativa un’inchiesta sugli insediamenti nel distretto di Alessandroski , ne ho visitati cinque situati lungo il fiume e tra questi c’era quello sull’isola di Nazino. Non ho scritto un articolo di propaganda, ma una lunga relazione che poi ho mandato sia ai miei superiori che a Stalin in persona. Ho descritto tutto quello che è successo, dall’arrivo dei deportati all’evacuazione d’emergenza e ho analizzato gli eventi che hanno portato a quello scempio».

La tragedia di Nazino si consumò nei primi anni Trenta, quando in Unione Sovietica era in atto il programma di rapida industrializzazione voluto da Stalin. Secondo il regime il processo di modernizzazione del Paese era prioritario e richiedeva cospicue risorse, sia in termini di mezzi che di manodopera, e affinché lo si potesse realizzare compiutamente era necessario che la ricchezza prodotta dall’agricoltura venisse interamente trasferita all’industria. Dato che dal  punto di vista agricolo le terre meridionali erano quelle più produttive, i primi a pagare sulla loro pelle le scelte del Poliburo furono i contadini ucraini: il programma di “collettivizzazione”  iniziato nel 1927 aveva generato il processo di accorpamento degli appezzamenti agricoli in cooperative e tutti coloro che si erano opposti avevano dovuto affrontare una violenta repressione, con arresti, esecuzioni e deportazioni di massa.  La requisizione di tutti i generi alimentari e  l’obbligo di cedere allo Stato quantità di grano talmente elevate da non lasciare ai produttori neanche il minimo necessario alla sopravvivenza provocò una carestia di proporzioni catastrofiche, un genocidio che nella sola Ucraina arrivò a contare 7 milioni di morti.

Esteso a tutta l’Unione Sovietica, tra il 1930 e il 1931 il programma di collettivizzazione diede origine ad un esodo di dimensioni bibliche: in soli due anni 10 milioni di persone lasciarono le campagne per spostarsi nelle zone urbane, dove intanto il regime aveva introdotto le tessere per la distribuzione di cibo. Messo in crisi dall’enorme numero di profughi affluito nelle grandi città, il sistema di approvvigionamento alimentare andò però ben presto in crisi e per il regime i contadini divennero così una vera e propria minaccia, dei pericolosi controrivoluzionari da eliminare. Tra il 7 e il 12 gennaio, durante il discorso introduttivo all’annuale incontro delle classi dirigenti dell’Unione Sovietica, Stalin illustrò la sua nuova teoria: «nonostante il trionfo del socialismo e l’eliminazione delle classi sfruttatrici, l’opposizione non è scomparsa, ha solo assunto altre forme. Adesso le principali minacce per il socialismo sono la criminalità e la devianza sociale». Dieci giorni dopo il leader russo scrisse una direttiva segreta a Genrikh Yagoda, membro del Direttorato politico dello Stato (OPGU) e futuro capo del Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD), con la quale gli ordinò di fermare l’esodo dei contadini dall’Ucraina e dal Caucaso settentrionale.

Per limitare e controllare l’enorme flusso di “stranieri” l’amministrazione rese obbligatorio un passaporto interno destinato alla popolazione urbana. In meno di un anno questo documenti venne distribuito a 27 milioni di cittadini; a chi non dimostrava di averne diritto venivano dati dieci giorni per tornare nella propria regione, dopo di che veniva spedito in Siberia o in Kazakistan. Tra il marzo e l’aprile del ’33 vennero respinte 70 mila richieste e tra marzo e luglio nella sola Mosca vennero arrestati e deportati 85.937 individui. Chi si nascondeva, quelli che il partito definiva “parassiti che ostacolano la costruzione del comunismo”, dovettero fare i conti le milizie speciali istituite per “ripulire le città”. Composte da agenti che avevano l’ordine di arrestare chiunque avesse un’aria sospetta, le milizie aveva un numero stabilito di arresti da eseguire, una quota giornaliera nella quale poteva ricadere chiunque, anche chi non aveva commesso nessun reato.

È per questo motivo che tra coloro che vennero arrestati il 1° maggio del 1933 c’erano individui di ogni provenienza sociale: ex kulaki in cerca di lavoro, operai, impiegati, donne e bambini, membri di cellule di partito, persone che si trovavano in città solo di passaggio o che si era recate alla stadio o che erano addirittura scese a comprare le sigarette ed avevano lasciato a casa il “passaporto”; nella lista di Velichko  compare anche una ragazzina di 12 anni, arresta come mendicante alla stazione di Mosca solo perché la madre l’aveva lasciata un attimo per andare a comperare  il pane, e una donna incita, moglie di un ufficiale in servizio sull’incrociatore Aurora, arrestata anche lei alla stazione mentre tornava a Leningrado. Dopo essere stati schedati e privati dei documenti i prigionieri vennero trasferiti quasi subito a Tomsk, dove giunsero con un convoglio speciale il 10 maggio, dopo un viaggio di dieci giorni a bordo dei vagoni merci delle ferrovie russe. Dai rapporti della commissione d’inchiesta risulta che queste persone vennero accorpate a piccoli delinquenti che dovevano scontare da 1 a 5 anni nei campi di prigionia, arrestati in precedenza per aver commesso reati minori come contrabbando e piccoli furti.

A Tomsk i prigionieri rimasero fino al 14 maggio: con una capienza massima di 15 mila deportati, il campo ospitava più di 25 mila persone e il pericolo di rivolte e disordini era costante. Per questo diverse migliaia di persone vennero caricate a forza su delle chiatte e trasferite cento chilometri più a nord, nel piccolo capo di lavoro di Alexandro Vakhovskaya.  Il comandante, Alexandrovitch Tsepkov, era stato avvisato dell’arrivo dei prigionieri solo qualche giorni prima: non gli era stato comunicato il numero delle persone ne come impiegarle; gli venne piuttosto detto di trovare un’area di isolamento per individui pericolosi e declassati. Per paura che questi potessero devastare e saccheggiare il villaggio, Tsepkov decise quindi di spedire i deportati sull’isola di fronte a Nazino, in mezzo al fiume Ob. Il 18 maggio, a bordo di quattro chiatte, sbarcarono sull’isola 4888 individui:  332 donne e 4.556 uomini, oltre ai cadaveri delle 27 persone che non erano riuscite a resistere al viaggio.

Sin dalle prime ore i criminali più incalliti iniziarono subito a perseguitare gli altri prigionieri, derubandoli di quel poco che avevano o uccidendoli per strappandogli via i denti d’oro, “bottino” che avrebbero poi scambiato con i carcerieri per qualche grammo di tabacco. Il poco cibo distribuito non bastava a sfamare neanche un terzo dei deportati e quelli che era stati arrestati per errore erano i più vulnerabili. Molti morirono a causa delle violenze e dei soprusi delle guardie, piccoli Stalin che credevano di poter decidere della vita di chiunque: l’ordine era quello di sparare senza avvertimento a chi avesse tentato la fuga o ne fosse quantomeno sospettato, ma tra gli ufficiali c’era chi si divertiva a gettare i prigionieri nel fiume o a mandarli senza vestiti tra le acque gelide dell’Ob a recuperare le anatre abbattute a colpi di fucile. Molti deportati tentarono la fuga cercando di attraversa il fiume con delle zattere improvvisate, ma la maggior parte di essi annegò o venne uccisa dalle guardie.

A Nazino si iniziò a sentir palare di cadaveri fatti a pezzi e carne umana cucinata e mangiata il giorno dopo l’arrivo; nelle due settimane successive furono trovate decine di cadaveri senza fegato, cuore, polmoni, polpacci e parti molli. Il primo caso accertato di antropofagia risale al 29 maggio: i tre colpevoli vennero arrestati e trasferiti nella prigione di Alexandro Vakhovskaya; due giorni dopo vennero fermati altri tre cannibali ma nessuno venne punito. In tutto le autorità registrarono una dozzina di casi di cannibalismo e secondo gli ufficiali  sanitari i responsabili avevano commesso questi atti perché abituati a cibarsi di esseri umani. La commissione di inchiesta interrogò le guardie accusate di aver trattato come selvaggina i prigioniere che aveva tentavano di lasciare l’isola su zattere di fortuna, ma i militari risposero di aver semplicemente sparato contro dei cannibali che cercavano di allontanasi con il loro “pasto”.

La situazione sull’isola peggiorò ulteriormente il 25 maggio, quando arrivò un convoglio con altri 1.500 deportati; le condizioni di salute di questo gruppo erano ancora più gravi di quelle del primo. Il 31 maggio fu il segretario del partito comunista del distretto di  Alexandrovsky a visitare Nazino: in seguito a quanto aveva visto stilò un lungo rapporto che inviò ai suoi superiori e questi ordinarono il trasferimento di tutti i prigionieri in luoghi più appropriati. Quasi tutti i deportativi vennero trasferiti in cinque insediamenti più a monte e durante il viaggio ne morirono diverse centinaia. I vertici si adoperarono per non far trapelare nulla e a pagare furono solo poche persone: a  Mosca gli ufficiali di alto grado subirono aspri rimproveri, che comunque non ebbero ripercussioni sulla loro carriera; le autorità locali patirono invece punizioni più severe, con deportazioni e condanne in campi di prigionia. Per il partito 4.000 vittime non era certo una tragedia e quando Velichko portò alla luce la storia al Cremlino la preoccupazione non era il crimine in se, cosa peraltro negata, ma la possibilità che fosse messa in discussione la capacità di portare a termina il piano di deportazione. La vicenda fu archiviata e tornò alla luce solo dopo la dissoluzione del regime sovietico; il materiale reperito fu in seguito usato per raccontare e capire meglio cosa accadde a Nazino e chi fossero quelle vittime. Nicolas Werth usò quei documenti per scrivere il libro inchiesta “L'isola dei cannibali”.

 

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