Il procedere del terzo intervento militare della Turchia in territorio siriano sta sempre più mettendo in chiaro gli intrecci strategici nel paese mediorientale in guerra e il potenziale esplosivo di una situazione che continua a essere influenzata pesantemente dalle manovre americane. E' annunciato per le prossime ore un colloquio tra Erdogan e Trump, con la Casa Bianca che sostiene i kurdi ma è alleata dei turchi in ambito NATO.

 

 

L’apertura del nuovo fronte di guerra nel fine settimana ha in particolare aggravato le tensioni tra Ankara e Washington, con il governo di Erdogan che rischia di mettere a repentaglio i piani degli Stati Uniti per allargare la propria influenza in Medio Oriente a spese di potenze come Russia e Iran.

 

L’operazione promessa e attuata da Erdogan contro la roccaforte curda di Afrin, nel nord della Siria, è la diretta conseguenza della decisione, annunciata la settimana scorsa dagli USA, di procedere verso un’occupazione permanente nella Siria nord-orientale attraverso la creazione di una forza locale di 30 mila uomini, in larga misura da reclutare tra le milizie curde.

 

La mossa americana era subito apparsa imprudente, visto che quanto meno trascurava gli imperativi strategici turchi legati alla necessità di impedire qualsiasi impulso all’autonomia curda oltre il confine meridionale.

 

L’annuncio iniziale da parte degli Stati Uniti era stato in seguito minimizzato per cercare di contenere la furia del governo turco, ma sia la successiva reazione di Erdogan, per nulla persuaso dalle rassicurazioni del dipartimento di Stato, sia il fatto che Washington non poteva non avere considerato gli effetti della decisione ad Ankara, hanno evidenziato ancora più chiaramente il pessimo stato dei rapporti tra i due alleati NATO.

 

Se l’intervento turco in Siria è estremamente pericoloso e minaccia di precipitare una situazione già drammatica, né i curdi né tantomeno gli Stati Uniti possono essere considerati vittime o spettatori innocenti di questi ultimi sviluppi.

 

Da quanto emerge soprattutto sulla stampa turca, fino a pochi giorni prima dell’intervento militare, Erdogan aveva chiesto al governo americano un messaggio chiaro sulla collaborazione con i curdi siriani, con ogni probabilità sollecitando un riscontro alle promesse ricevute a novembre da Trump sullo stop alle forniture militari alle milizie curde in Siria.

 

L’insensibilità o la doppiezza americana su questo punto hanno così spinto Erdogan a cercare un accordo con Mosca, il cui via libera all’offensiva turca era comunque indispensabile, vista la presenza di militari russi proprio ad Afrin e il controllo dello spazio aereo nel nord della Siria da parte delle forze del Cremlino.

 

Putin e Assad, da parte loro, sembra avessero proposto ai curdi siriani un accordo che li avrebbe messi al riparo da un attacco turco in cambio, tra l’altro, della cessione del controllo di buona parte del territorio settentrionale alle forze di Damasco. I vertici curdi avrebbero però respinto l’offerta, decidendo di continuare a scommettere, forse ancora una volta in maniera fatale, sulla protezione degli Stati Uniti, di fatto non ancora materializzatasi a pochi giorni dall’inizio delle operazioni militari turche.

 

Per Mosca e Damasco l’invasione turca rappresenta oggettivamente un elemento di disturbo. Il regime di Assad ha tuttavia poche possibilità di attuare contromosse, vista la situazione in cui si trova. Per la Russia, invece, l’accettazione dell’intervento di Ankara appare al momento un prezzo relativamente basso da pagare alla luce di due obiettivi fondamentali.

 

Il primo è la collaborazione di Erdogan nel processo di pace di Sochi, decisivo per portare al tavolo delle trattative almeno una parte dell’opposizione siriana, su cui Russia e Siria non hanno alcuna influenza. Il secondo è il contrasto ai piani degli USA di dividere la Siria creando un’enclave curda da cui esercitare la propria influenza nella regione.

 

L’evolversi della situazione in questi giorni ha in ogni caso mostrato la schizofrenia della condotta americana in Siria, assieme alle prospettive non esattamente rosee per i curdi in questo paese. Di fronte al pericolo di uno scontro diretto con l’alleato NATO, Washington è corsa ai ripari con il segretario di Stato, Rex Tillerson, e il numero uno del Pentagono, James Mattis, che hanno in sostanza riconosciuto le “legittime preoccupazioni” di Ankara, lasciando intendere che non ci saranno iniziative per contrastare l’azione decisa da Erdogan.

 

Se non è facile decifrare le ragioni di fondo della strategia americana, è probabile che la prudenza mostrata dall’amministrazione Trump e dai vertici militari dopo l’avvio dell’offensiva turca sia dovuta ai timori per un ulteriore consolidamento dei rapporti tra Ankara e Mosca.

 

Nel tentativo di mostrare la propria disponibilità a tollerare l’intervento turco, pur non rinnegando apertamente il sostegno ai curdi siriani, gli Stati Uniti rischiano di perdere anche la residua credibilità rimasta sul fronte mediorientale. Nei giorni scorsi, esponenti dell’amministrazione Trump hanno così sostenuto che le milizie curde attaccate ad Afrin non sono le stesse appoggiate da Washington nella Siria nord-orientale.

 

Questa tesi è però assurda, come conferma anche il fatto che i leader delle cosiddette “Forze Democratiche Siriane”, ovvero l’organizzazione che raccoglie i “ribelli” anti-Assad controllati da Washington e nella quale prevalgono le milizie curde inquadrate nelle Unità di Protezione Popolare (YPG), stanno valutando l’invio ad Afrin di rinforzi militari per combattere l’invasione turca.

 

Sul campo, intanto, le notizie che giungono dal nuovo teatro di guerra nel nord della Siria appaiono contrastanti. Fonti turche descrivono un’avanzata pressoché incontrastata delle forze di Ankara, mentre da parte curda si parla di controffensive efficaci che starebbero rendendo complicate le operazioni militari turche.

 

Il più o meno tacito via libera russo al blitz di Ankara, infine, prevede quasi sicuramente il consenso da parte della Turchia ad astenersi dal fornire assistenza alle formazioni “ribelli”, in gran parte inquadrate nella filiale di Al-Qaeda in Siria, nell’area di Idlib, dove è appunto in corso un’offensiva delle forze di Damasco.

 

Proprio a Idlib, già lo scorso anno, la Turchia avrebbe dovuto istituire una zona di “de-escalation” delle ostilità, secondo quanto previsto dall’accordo con Russia e Iran. Erdogan non aveva tuttavia dato seguito all’impegno, nel timore di scatenare la reazione dei gruppi armati che il suo governo aveva sostenuto o stava continuando a sostenere.

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