L’emorragia di collaboratori del presidente americano Trump è proseguita in questi giorni con le dimissioni del numero uno del Consiglio Economico Nazionale della Casa Bianca, Gary Cohn. Quello dell’ex top manager di Goldman Sachs è l’abbandono più importante tra i moltissimi registrati finora, sia per la posizione occupata sia, ancor più, per le implicazioni che potrà avere sul corso della politica economica dell’amministrazione repubblicana.

 

 

Le dimissioni di Cohn sono la conseguenza della recente decisione di Trump di imporre pesanti tariffe doganali in maniera indiscriminata sulle importazioni di acciaio e alluminio. L’ormai ex consigliere del presidente era fermamente contrario a questa iniziativa protezionistica e aveva da tempo minacciato di lasciare il suo incarico se fosse stata implementata.

 

Nel periodo precedente l’annuncio dei nuovi dazi, Cohn aveva discusso aspramente con la fazione ultra-nazionalista dello staff presidenziale, mettendo in guardia dal pericolo di innescare una guerra doganale anche con alcuni paesi alleati, così come di provocare un rallentamento dell’economia americana.

 

Le divisioni all’interno della Casa Bianca hanno alla fine visto il successo dei “falchi” della politica commerciale, identificati principalmente nel consigliere del presidente, Peter Navarro, e nel segretario al Commercio, Wilbur Ross. Questi ultimi hanno finora fermamente respinto anche la proposta di applicare tariffe doganali selettive, esentando cioè alleati come Canada, Giappone ed Europa per colpire invece Russia e Cina.

 

La spaccatura nell’amministrazione Trump sui dazi ha coinvolto anche titolari di altri dicasteri, a conferma del peso delle politiche commerciali sugli orientamenti strategici generali degli Stati Uniti, come di qualsiasi altro paese. Contrari ai dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio erano anche il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, quello di Stato, Rex Tillerson, e il numero uno del Pentagono, James Mattis.

 

Mnuchin è al pari di Cohn un ex dirigente di Goldman Sachs e come quest’ultimo rappresenta nel governo Trump gli interessi delle banche di Wall Street, preoccupate per le conseguenze di possibili ritorsioni dei paesi colpiti dalle nuove tariffe doganali americane. I membri dell’amministrazione alla guida di dipartimenti che hanno a che fare con sicurezza nazionale ed esteri temono invece l’esplodere di ulteriori tensioni con gli alleati, con conseguenze sulle politiche di contenimento dei rivali strategici degli Stati Uniti.

 

L’abbandono di Cohn ha messo così in allarme la fazione neo-liberista della classe dirigente e del business americano. La sua presenza alla Casa Bianca era considerata come un indispensabile contrappeso all’influenza dei consiglieri di orientamento nazionalista, anch’essi peraltro coinvolti in epurazioni varie nell’ultimo anno.

 

La stampa americana ha avvertito che le dimissioni di Cohn potrebbero segnare uno spartiacque per gli indirizzi, soprattutto economici, dell’amministrazione Trump. I prossimi mesi potrebbero essere cioè segnati da un’intensificazione dei conflitti internazionali, come stanno già prospettando le reazioni internazionali alle recenti decisioni su acciaio e alluminio.

 

Non a caso, i vertici di svariate banche d’affari USA hanno espresso il loro rammarico per l’allontanamento di Gary Cohn dalla Casa Bianca. L’amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, è stato uno di questi e in una dichiarazione alla stampa ha ricordato anche un altro motivo della gratitudine di Wall Street per l’ex consigliere di Trump, cioè il suo contributo all’approvazione del pacchetto di tagli alle tasse da 1.500 miliardi di dollari riservato ai redditi più alti.

 

La possibile accelerazione protezionistica della Casa Bianca dopo l’uscita di scena di Cohn sembra essere comunque un rischio calcolato da parte del presidente, intenzionato a compattare la propria base di consenso ultra-nazionalista in un momento di grave crisi sul fronte interno a causa dei persistenti attacchi provenienti principalmente dall’indagine-farsa del “Russiagate”.

 

La marginalizzazione dell’ala liberista nel proprio governo rischia anche di fare esplodere i contrasti tra la Casa Bianca e la leadership repubblicana al Congresso. Le divergenze sono state finora tenute tutto sommato sotto controllo per ragioni di convenienza politica. Le dinamiche che minacciano di scatenare le ultime misure protezionistiche potrebbero però cambiare radicalmente il quadro.

 

Già i leader di maggioranza alla Camera e al Senato, rispettivamente Paul Ryan e Mitch McConnell, hanno preso apertamente posizione contro i nuovi dazi, soprattutto perché i loro stati di provenienza rischiano di essere fortemente penalizzati dalle ritorsioni ipotizzate ad esempio dall’Europa sulle esportazioni di una serie di prodotti americani.

 

Mercoledì a Bruxelles la commissaria UE per il commercio, Cecilia Malmström, ha promesso una risposta “ferma e proporzionata” alle misure decise a Washington. Le iniziative prospettate potrebbero andare in tre direzioni: dal ricorso all’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) all’adozione di “salvaguardie” per evitare che l’acciaio dirottato dagli USA arrivi nei paesi dell’Unione, fino all’imposizione a propria volta di dazi su beni di origine americana.

 

Per quanto riguarda lo stato dell’amministrazione Trump, le dimissioni di Gary Cohn sono infine un nuovo segnale della crisi profonda che essa sta attraversando, in primo luogo sotto la spinta della già ricordata offensiva a cui è sottoposta sul fronte domestico. Il tasso di ricambio di personale dell’attuale governo è di gran lunga superiore a quelli fatti segnare dalle amministrazioni susseguitesi a Washington negli ultimi decenni.

 

Limitatamente alle ultime settimane, l’addio di Cohn era stato preceduto da quelli del suo alleato, l’ex segretario dello staff, Rob Porter, e della responsabile della comunicazione della Casa Bianca, Hope Hicks. Le prossime settimane potrebbero inoltre riservare altre dimissioni pesanti, almeno a giudicare dalle indiscrezioni riportate dalla stampa americana.

 

Da qualche tempo si parla dell’intenzione di lasciare del capo di gabinetto, generale John Kelly, e del consigliere per la Sicurezza Nazionale, H. R. McMaster. Entrambi sarebbero ai ferri corti con il presidente e il suo entourage allineato alla fazione populista e ultra-nazionalista della destra repubblicana.

 

Sia Kelly che McMaster, come Gary Cohn, sono graditi all’establishment americano, sostanzialmente perché considerati in grado di garantire una certa moderazione delle politiche presidenziali e l’allineamento di queste agli obiettivi dell’apparato militare e della sicurezza nazionale americano.

 

Il loro eventuale abbandono della Casa Bianca, perciò, non solo accentuerebbe la crisi politica a Washington ma determinerebbe anche un nuovo spostamento a destra del baricentro dell’amministrazione Trump e un ulteriore pericoloso aggravamento delle tensioni a livello internazionale.

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