Se la visita di questa settimana a Pechino del leader nordcoreano, Kim Jong-un, è stata definita “inaspettata” dalla gran parte della stampa internazionale, l’incontro con il presidente cinese, Xi Jinping, non ha in realtà nulla di sorprendente, ma si inserisce in maniera perfettamente logica nelle recenti dinamiche strategiche che stanno interessando la penisola di Corea.

 

Gli oltre sei anni trascorsi a partire dall’ascesa al potere prima che Kim si sia deciso a recarsi sul territorio del proprio principale alleato corrispondono grosso modo a quelli che aveva atteso anche suo padre e predecessore, Kim Jong-il, prima di fare il suo debutto internazionale nel 2000. Anche il quel caso, il vertice in Cina era avvenuto alla vigilia di un incontro con i leader della Corea del Sud.

 

 

Anche solo da un punto di vista formale, sarebbe stato comunque inopportuno che il primo incontro tra Kim Jong-un e la dirigenza cinese fosse arrivato dopo quelli in programma con il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, e, forse, con lo stesso Donald Trump.

 

Il tempismo della prima trasferta oltreconfine dell’ultimo esponente della dinastia Kim è dunque cruciale per comprendere l’importanza e il significato del vertice con il presidente cinese. Entrambi i paesi sono infatti esposti a crescenti pressioni da parte degli Stati Uniti. La Cina per quanto riguarda la guerra commerciale in atto, che è solo uno degli aspetti della rivalità strategica con gli USA, e Pyongyang, nonostante i timidi spiragli diplomatici, per la rinuncia al proprio programma nucleare militare.

 

La delicatezza del faccia a faccia tra Kim e Xi è apparsa chiara dall’alone di mistero che ha avvolto il viaggio in treno a Pechino del leader nordcoreano. Il governo cinese ha ad esempio confermato la visita di Kim nel paese solo dopo il suo ritorno in patria.

 

Le dichiarazioni ufficiali dei leader cinesi e i comunicati dei media governativi hanno chiarito abbondantemente la rilevanza dell’incontro. Al di là dei toni prevedibilmente retorici, Pechino ha insistito in particolare su due questioni, ovvero il riconoscimento degli sforzi del regime nordcoreano per aprire un percorso diplomatico con Seoul e Washington e l’importanza strategica delle relazioni con l’alleato.

 

A quest’ultimo punto è stato dato particolare risalto anche in Occidente, visto che i rapporti tra Pechino e Pyongyang sembravano avere imboccato una parabola discendente negli ultimi mesi, soprattutto in seguito alle pressioni americane sulla Cina per isolare la Corea del Nord. Il governo cinese aveva acconsentito ad applicare sanzioni economiche nei confronti del vicino, giungendo a istituire un blocco quasi totale dei traffici commerciali in direzioni nord-est. Per tutta risposta, la stampa ufficiale nordcoreana aveva rivolto accuse insolitamente dure nei confronti della Cina per essersi piegata al volere americano.

 

Pechino, d’altra parte, vive un grave dilemma strategico in relazione alle proprie politiche nordcoreane. Da un lato considera fondamentale il mantenimento in vita di un governo alleato nella penisola di Corea in funzione di cuscinetto che tenga a distanza le forze armate americane a sud del 38esimo parallelo. Dall’altro, però, si oppone al programma nucleare nordcoreano, visto come un elemento sfruttabile dagli Stati Uniti per forzare il crollo del regime di Kim.

 

Le dichiarazioni nordcoreane in merito al summit di inizio settimana hanno invece toccato prevalentemente la questione dei negoziati con Corea del Sud e, soprattutto, Stati Uniti. Kim ha confermato l’impegno per la denuclearizzazione della penisola, vincolando l’eventuale raggiungimento di un accordo alla volontà di Seoul e Washington di “rispondere positivamente ai nostri sforzi e di creare un clima di pace e stabilità”.

 

Per Pyongyang, insomma, la palla è ora nel campo americano e gli inviti di Kim sono anche un segnale di avvertimento alla Casa Bianca in vista del possibile storico incontro con Trump, visto che il cambio di personale delle ultime settimane ha portato nell’amministrazione americana esponenti, come Mike Pompeo e John Bolton, decisamente ostili, almeno finora, alla pace con la Corea del Nord. L’incontro con Kim, previsto in teoria a fine maggio, potrebbe infatti tradursi in poco meno di un ultimatum al regime per abbandonare senza condizioni il programma nucleare ed evitare di andare incontro a un’aggressione militare.

 

Il dialogo con Washington rischia così di trasformarsi in una pericolosa scommessa per Kim Jong-un e, infatti, la persistente minaccia militare americana è probabilmente una delle ragioni che lo ha convinto ad accettare l’invito a Pechino del presidente Xi.

 

La volontà di rinsaldare i rapporti bilaterali dopo gli attriti degli ultimi tempi è anche in cima alla lista delle priorità cinesi, tanto più alla luce delle decisioni sui dazi doganali di un’amministrazione Trump che aveva prospettato un atteggiamento più morbido in questo ambito grazie alla collaborazione di Pechino nella gestione della crisi coreana.

 

I vertici cinesi, quindi, in questa fase cruciale hanno tenuto a ribadire l’importanza strategica della Corea del Nord, in risposta anche ad alcune notizie circolate nelle ultime settimane. Alcuni giornali avevano parlato di presunti piani del regime di Kim per prendere le distanze da Pechino, nel quadro di una svolta clamorosa che avrebbe potuto spianare la strada a un accordo con gli USA, se non addirittura, nel medio o lungo periodo, a una qualche alleanza tra i due paesi nemici.

 

Dal punto di vista nordcoreano, poi, come ha spiegato una recente analisi di Bloomberg News, il riallineamento con la Cina offre a Pyongyang una sorta di “polizza assicurativa” nel caso i colloqui con Seoul e Washington dovessero crollare. Per Pechino, ancora, la dimostrazione di unità con Kim serve ad affermare il ruolo cinese in un eventuale futuro negoziato, preferibilmente nel formato, naufragato quasi un decennio fa, dei colloqui “a sei” (USA, Cina, Russia, Coree, Giappone).

 

Attorno alla crisi coreana vi è dunque un intenso fermento, il cui esito potrebbe condurre in qualsiasi direzione, inclusa quella della guerra. Dopotutto, una giustificazione per un’aggressione militare contro la Corea del Nord sarebbe facilmente individuabile per gli Stati Uniti. A ricordarlo è stato ad esempio un articolo dai toni di avvertimento pubblicato mercoledì dal New York Times. In esso si spiega come Pyongyang avrebbe da qualche tempo attivato un nuovo reattore nucleare, probabilmente destinato a uso civile ma anche potenzialmente in grado di produrre plutonio da destinare all’arsenale nucleare del regime di Kim.

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