Autoblindo contro passi, divise contro magliette, mitra contro fionde, pallottole contro pietre. Così Israele, in spregio al diritto internazionale e alla decenza, in offesa al buon senso ed al principio della proporzione tra offesa e difesa, ha festeggiato il Venerdì Santo con i suoi cecchini, uccidendo 16 palestinesi e ferendone mille. Il governo dell’ultradestra di Bibi Netanyahu, appoggiato dalla destra ultra oltranzista religiosa, con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha capito che può tornare a dedicarsi con meticolosità al tiro a segno contro i palestinesi.

 

 

Figli di un palestinese che lo stesso giorno di migliaia di anni fa veniva assassinato, fecondando per sempre quella terra e l’intera storia dell’umanità, i palestinesi di oggi volevano ricordare che i territori occupati dopo la guerra arabo-israeliana del ‘67 lo sono illegalmente. Che quei territori sono Palestina, presente da secoli sulle mappe che invece, solo 70 anni fa, inglesi e francesi cambiarono per far nascere lo Stato d’Israele. Lo fecero per coprire l’infamia assoluta dell’Olocausto, per risarcire miseramente e cinicamente una tragedia con un prezzo alto e minimo allo stesso tempo. Prezzo che però un altro popolo, innocente di ogni sterminio, paga.

 

Israele da decenni si è guadagnata la fama nell’arte della guerra e dello spionaggio anche occupando terre e riempiendo fosse. Spostando costantemente i suoi confini, allarga i territori che ne dovrebbero garantire la sicurezza. Da anni tenta di prendersi l’intera Siria dopo aver rubato il Golan e ha già provato a trasformare il Libano in un suo protettorato, ma per ora deve arrendersi.

 

Da quest’ultimo infatti è stata cacciata dai guerriglieri di Hezbollah (che hanno aperto interrogativi interessanti circa la presunta superiorità militare israeliana ndr) mentre in Siria non si riesce a chiudere la partita con Assad. Del resto l’obiettivo principale di Israele è l’Iran e gli alawiti di Siria, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, completano la filiera sciita della quale Tel Aviv vuole disfarsi, da sola o per mano di altri.

 

Da decenni punta alla destabilizzazione dell’area e giustifica l’iper attivismo militare con la sua sicurezza, ma l’alleanza con i sunniti wahabiti dell’Arabia Saudita e con la sunnita sempre più integralista Turchia, è funzionale solo alla strategia europea e statunitense di assegnazione alla corrente sunnita dell’Islam di tutto il Medio Oriente, strategia alla quale Israele coopera convinta che sia un prezzo da pagare perché decisiva per l’annientamento del mondo sciita.

 

La sicurezza di Israele c’entra relativamente. Se di sicurezza in assoluto si trattasse, andrebbe considerato che anche i sunniti (e ancor più i wahabiti) prevedono la cancellazione dello Stato d’Israele: dunque, nell’allearsi con chi vuole cancellarla, c’è tutto il paradosso evidente di una politica che agita la sicurezza per nascondere una strategia che prevede la fine di ogni influenza sciita e di ogni governo ad orientamento laico o progressista in Medio Oriente e Golfo Persico.

 

I palestinesi restano però il primo e consolidato nemico e la fede sciita di Hamas, il suo legame con Hezbollah in Libano e il Baas in Siria e l’obbedienza all’Iran, è il terreno sul quale Tel Aviv intende giocare la partita più dura. Non che quando governasse l’ANP, pure esente da simpatie sciite, fosse diverso: con uguale foga distruttrice Tel Aviv si è scagliata contro ogni Intifada. Perché i palestinesi, non importa diretti da chi, sono un target su cui scagliarsi. Non può sterminarli ma non vuole conviverci: li vuole prigionieri a cielo aperto.

 

Due popoli e due stati, si dice da tempo. E’ l’unica soluzione, non ce ne sono altre al di fuori della follia del reciproco annientamento. E’ solo un auspicio però. Perché appunto uno di quei due - Israele - concepisce l’esistenza dei palestinesi solo come etnia a sé stante, silenziata e inginocchiata, priva di assetto giuridico e riconoscimento internazionale, quindi di terra, di Stato, di identità. Preferisce ricevere mille pietre e mille condanne piuttosto che permettere un passaporto con scritto “Stato di Palestina”.

 

Israele vede i palestinesi in molti modi: come laboratorio di detenzione di massa di un intero popolo; come cavie su cui testare le sue armi e le sue strategie militari e d’intelligence sul terreno; come forza lavoro ridotta in schiavitù. Agevolata dal ricorso all’orrore di una parte della resistenza palestinese, che ha fatto indietreggiare la causa non meno di quanto non lo abbiano fatto il malgoverno e la corruzione del notabilato legato all’ANP, utilizza l’estremismo di Hamas  come spauracchio da agitare per ottenere una solidarietà immotivata alle sue politiche brutali, che con la scusa della sicurezza applicano le più feroci ricette coloniali, compresa quella del furto della altrui terra.

 

Perché questo sono gli insediamenti: sono il saccheggio di risorse altrui, l’indifferenza a leggi e norme del diritto internazionale grazie all’impunità che i suoi amici europei e statunitensi gli offrono, sono una violazione degli accordi internazionali, un furto sistematico di proprietà, di dignità, di prospettiva.

 

Infatti, la politica degli insediamenti serve proprio a disinnescare l’ipotesi dei due stati per i due popoli. Perché impedisce lo sviluppo territoriale di quello palestinese, così minandone in radice la sua arma prospettica più efficace: quella demografica. Israele sa che il vantaggio numerico di cui ancore gode è scarso e che nel giro di qualche decennio verrà ribaltato.

 

Con questo si dovrà fare i conti, perché la demografia ribalterà gli equilibri in Palestina e, per quanto l’apparato militare continui ad essere strumento privilegiato per contenerla e sebbene il know-how tecnologico sia incomparabilmente sbilanciato a suo favore, il ribaltamento demografico sarà inarrestabile. D’altra parte, la stessa deterrenza nucleare, quando il nemico è ai tuoi confini, diviene inutile, perché il suo utilizzo colpirebbe in ugual misura anche il suo utilizzatore.

 

Israele sarà allora costretta ad arrivare ad un compromesso e si attrezza per arrivarvi nella posizione migliore. Quelle terre che oggi vengono occupate dai suoi pirati, eufemisticamente chiamati coloni, diverranno in parte merce al tavolo delle trattative future, quando la memoria del passato e l’incombere del futuro obbligheranno Tel Aviv alla scoperta che non c’è altra via d’uscita: nessun popolo è eletto e nessuna legge può essere violata ogni giorno per tutti i giorni.

 

I palestinesi, piegati dall’indifferenza internazionale e dai loro stessi errori, anche sotto i colpi delle armi israeliane continuano a battersi. E, soprattutto, non smettono di fare l’amore, convinti che solo generando potranno sperare che le pietre possano costruire una politica. Le prossime generazioni e i loro figli saranno l’arma decisiva per il recupero della loro identità nazionale, della loro terra e della loro storia. Si resiste anche amandosi. Un atto d’amore è destinato a vincere una guerra.

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