La deriva protezionista dell’amministrazione Trump ha segnato un passo probabilmente cruciale con la decisione, presa giovedì, di introdurre pesanti dazi sulle importazioni negli Stati Uniti di acciaio e alluminio provenienti da alcuni paesi alleati, tra cui quelli dell’Unione Europea.

 

Il provvedimento è coinciso con la conclusione del periodo di sospensione delle nuove tariffe doganali, già annunciate nel mese di marzo, in attesa di risultati mai arrivati dalle trattative in corso per cercare di riequilibrare la bilancia commerciale americana.

 

 

Per quanto riguarda l’Europa, mercoledì il segretario al Commercio di Trump, Wilbur Ross, aveva incontrato a Parigi la sua controparte europea, Cecilia Malmström, per discutere della questione dazi. Il Wall Street Journal aveva però rivelato come il colloquio non avesse portato a risultati concreti. Fonti interne alla Casa Bianca avevano poi confermato l’intenzione del presidente USA di procedere con l’applicazione delle tariffe. La notizia è stata alla fine confermata e, a partire dalla mezzanotte di giovedì, l’acciaio importato dall’Europa sarà gravato da un dazio del 25% e l’alluminio del 10%.

 

Per Ross, la decisione non comporterebbe la fine delle trattative commerciali con l’Europa, ma Bruxelles continua per ora a escludere che possano essere prese in considerazione concessioni a Washington senza un’esenzione più o meno permanente dal pagamento dei nuovi dazi. Anzi, l’UE ha subito annunciato una causa all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e si è detta pronta ad adottare a propria volta dei dazi su una lista di beni americani per un valore di quasi tre miliardi di euro.

 

Le misure volute da Trump colpiscono anche il Messico e il Canada, con cui gli Stati Uniti stanno a loro volta negoziando una complicata revisione del NAFTA (“Trattato di Libero Scambio del Nord America”). La minaccia dei dazi su acciaio e alluminio doveva essere una strategia per fare pressioni su questi paesi e convincerli ad accettare le richieste americane sui cambiamenti al NAFTA.

 

Anche in questo caso, i risultati sono ancora lontani dal materializzarsi e i governi di Ottawa e Città del Messico hanno subito promesso ritorsioni commerciali contro gli Stati Uniti. Il premier canadese, Justin Trudeau, ha definito i dazi “totalmente inaccettabili” e un “affronto” al suo paese, per poi annunciare a sua volta misure simili sui prodotti importati dagli USA a partire dal primo di luglio.

 

Il tentativo della Casa Bianca di affrontare il problema commerciale con minacce e ultimatum darà insomma difficilmente i frutti sperati. Alleati e rivali colpiti dalle misure punitive non hanno alcuna intenzione di subire passivamente, ma ricorrono a loro volta a dazi e tariffe contro Washington in una pericolosa di spirale che conferma la logica senza uscita di qualsiasi guerra commerciale.

 

Lo scontro sull’acciaio e l’alluminio è oltretutto solo uno dei fronti delle manovre protezioniste dell’amministrazione Trump. Con la Cina, la situazione continua a rimanere irrisolta e proprio questa settimana la Casa Bianca ha manifestato l’intenzione di sbloccare il pacchetto di dazi, già da tempo minacciato, per un importo di 50 miliardi di dollari. Sempre nei giorni scorsi, inoltre, Trump ha sollevato anche la possibilità di penalizzare le importazioni di automobili, con una mossa che andrebbe ancora una volta a discapito di alleati come Europa, Giappone, Corea del Sud, Canada e Messico.

 

Tra mercoledì e giovedì, i commenti dei giornali americani ed europei avevano ipotizzato la possibilità che sui dazi relativi ad acciaio e alluminio ci fossero ancora spiragli per evitare uno scontro frontale tra Washington e Bruxelles. Gli Stati Uniti chiedevano però, tra l’altro, l’accettazione da parte dell’Europa di quote fisse per le esportazioni, ma su questo fronte non vi era alcuna disponibilità.

 

D’altronde, il modello poteva essere quello non esattamente entusiasmante della Corea del Sud, il cui governo ha ottenuto l’esenzione dalle tariffe USA a caro prezzo. Seoul ha dovuto cioè accettare una riduzione delle esportazioni di acciaio e alluminio del 70%, nel quadro di condizioni imposte da Washington che anche un negoziatore americano ha definito “draconiane”.

 

Come con la Cina, anche i negoziati con l’Europa sono caratterizzati comunque da frequenti cambiamenti di indirizzo, se non da vere e proprie inversioni di rotta, tanto che dichiarazioni o promesse fatte in una determinata direzione da un esponente dell’amministrazione Trump sono spesso seguite da prese di posizione opposte da parte di altri.

 

Ciò rende difficile da prevedere anche il futuro dei dazi imposti all’Europea e degli stessi rapporti commerciali tra le due sponde dell’Atlantico. Anche l’annuncio ufficiale di giovedì dell’applicazione delle nuove tariffe su acciaio e alluminio era stato anticipato infatti dalla precisazione che queste ultime sarebbero state soggette a ulteriori negoziati con Bruxelles.

 

La confusione e le contraddizioni che caratterizzano l’amministrazione Trump in questo ambito sono da ricondurre in primo luogo alle divisioni al suo interno tra i “falchi” delle politiche protezioniste e coloro che appaiono su posizioni più moderate. La stampa USA ha ampiamente descritto a questo proposito lo scontro tra il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, e i fautori della linea dura, soprattutto contro Pechino, come il consigliere del presidente per le questioni commerciali, Peter Navarro, e il delegato al Commercio, Robert Lighthizer.

 

Queste divergenze vanno collegate alla natura esplosiva delle politiche commerciali involutive promosse dall’amministrazione Trump, i cui possibili effetti allarmano molti all’interno della classe dirigente americana. Il tentativo di invertire il declino della posizione internazionale degli USA con il sovvertimento delle impalcature economiche e commerciali consolidate dal secondo dopoguerra rischia infatti di infiammare le rivalità su scala globale, mettendo a repentaglio anche i rapporti tra alleati storici.

 

Le guerre commerciali minacciano inoltre di avere conseguenze molto negative sugli stessi Stati Uniti e la loro economia. La scommessa dei protezionisti della Casa Bianca, almeno in apparenza, sembra essere quella di riuscire a ottenere modifiche ai trattati di libero scambio in vigore e un riequilibrio della bilancia commerciale americana senza andare incontro a ritorsioni grazie alla capacità di “persuasione” economica e militare di Washington.

 

Che ciò possa accadere è però molto dubbio e a dimostrarlo sono le misure reciproche che praticamente tutti i paesi colpiti o minacciati dai dazi USA starebbero preparando. Non solo, l’accanimento sui paesi alleati potrebbe favorire un’ulteriore disintegrazione dell’ordine internazionale unipolare più o meno dominato dagli Stati Uniti.

 

In questa prospettiva va ad esempio letto l’avvertimento, lanciato da media e governi europei, dell’impossibilità da parte dell’UE di coordinare eventuali azioni con Washington per correggere le “distorte” pratiche commerciali cinesi se dovesse persistere un atteggiamento ostile.

 

Le perplessità dei governi alleati degli USA dipendono infine dal fatto che la Casa Bianca sta dispensando dazi e tariffe doganali basandosi su giustificazioni legate ufficialmente alla sicurezza nazionale. Se in questa definizione c’è probabilmente una dose di retorica nazionalista utile a stimolare la base elettorale dell’amministrazione Trump, vi è tuttavia anche dell’altro.

 

Con l’intensificarsi delle tensioni internazionali, l’acuirsi della competizione per l’accesso a mercati e fonti energetiche e il rafforzamento delle tendenze multipolari, gli Stati Uniti vedono cioè gli alleati di oggi come potenziali rivali, su cui avvantaggiarsi in caso di un possibile conflitto nel prossimo futuro.

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