Nel panorama complessivamente disarmante della politica italiana, c’è una domanda che aleggia da settimane: perché Matteo Renzi sta armando questo putiferio? Le ipotesi sono diverse, ma la maggior parte non funziona. La prima è quella elettorale. Forse Renzi è convinto che alzando la voce, facendosi notare, riuscirà a portare Italia Viva verso la tanto sospirata “doppia cifra”. Certo, sa anche lui che la presunta battaglia garantista sulla prescrizione non scalda i cuori delle masse, ma i voti a cui punta il leader di Rignano sono quelli della destra moderata. Peccato che, su questo fronte, la strategia non stia pagando: Iv rimane impantanata intorno al 4% e, in caso di elezioni, rischierebbe di non superare il sistema degli sbarramenti.

La seconda ipotesi è collegata alla prima. Renzi sta cercando di riposizionarsi nell’arco costituzionale spostandosi sempre più a destra. L’obiettivo sarebbe creare un partito comune insieme a quel che resta di Forza Italia, dove la vecchiaia di Berlusconi potrebbe convincere molti a cambiare cavallo. Solo che quelli di Forza Italia sono dipendenti aziendali sul libro paga di un padrone, e Renzi non ha i mezzi per sostituirsi in questo ruolo all’ex Cavaliere. La traiettoria politica di Italia Viva però sembra ormai certa: l’obiettivo è catalizzare i voti della destra che sa stare a tavola, quella che non digerisce la cialtroneria salviniana e il becerume meloniano.

Da questa prospettiva prende consistenza la terza ipotesi. Renzi sta cercando di far cadere questo governo principalmente per porre fine alla carriera politica di Giuseppe Conte, nei confronti del quale nutre un astio personale. È probabile che lo percepisca come l’unico vero avversario nel bacino elettorale che lo interessa. Il problema è che anche su questo versante la manovra sta fallendo: Conte rimane assai più popolare di Renzi e il Pd continua a ripetere che non esistono altre maggioranze in questa legislatura. Forse, se il capo di Iv si fosse mosso con più tatticismo e meno virulenza, i vecchi compagni dem non si sarebbero aggrappati con tanta angoscia alla giacca di Conte (definito da Zingaretti un “punto di riferimento fortissimo per i progressisti”) e il piano per la defenestrazione avrebbe avuto più possibilità di successo. Ma il vizio renziano di trasformare tutto in una crociata del Re contro gli infedeli continua a mandare all’aria ogni progetto.

La stessa riflessione vale anche per la quarta ipotesi. Renzi sta facendo tutto questo chiasso per ottenere qualche contropartita al tavolo delle nomine pubbliche. Ce ne sono ben 400 da decidere nei prossimi mesi e fra queste alcune decisive in aziende come Enel, Eni, Enav, Mps, Poste, Leonardo, Ferrovie dello Stato, Rai e Cassa Depositi e Prestiti.

Anche in questo caso, però, la strategia dell’ex premier non sta dando frutti. Al contrario, la violenza degli attacchi agli alleati ha indotto il resto della maggioranza a chiudersi a riccio, facendo scudo contro Iv. Non a caso, sulle prime nomine in ballo – il 24 febbraio si vota per il rinnovo dei vertici di Garante della Privacy e Agcom – Renzi è stato tenuto ai margini. Possibile che proprio in quell’occasione si consumi un nuovo strappo parlamentare pressoché mortifero per questa maggioranza. Già, ma a quel punto cosa accadrebbe?

Conte sta facendo proseliti in Parlamento per continuare a rimanere in piedi anche senza i voti di Renzi. Potrebbe riuscirci proprio convincendo alcuni transfughi di Iv a tornare nell’ovile del Pd. In questo modo il governo giallorosso regalerebbe a Italia Viva tre anni di comoda opposizione. E proprio questa, allo stato, sembra la prospettiva migliore per il partito di Renzi.

Il governo trova una scappatoia per uscire dal pantano della prescrizione, ma il rischio d’incostituzionalità rimane dietro l’angolo, insieme al ditino accusatore di Matteo Renzi. Il lodo Conte bis - su cui convergono M5S, Pd e Leu - prevede un doppio binario: dopo il processo di primo grado, la prescrizione prosegue per gli assolti, mentre si blocca per i condannati; poi, al termine dell’appello, se la condanna viene confermata la prescrizione muore definitivamente, mentre in caso d’assoluzione l’imputato la recupera con una specie di bonus. Sembra un pasticcio, vero? Perché è un pasticcio.

Innanzitutto, non si capisce in che modo questa soluzione salvi la legge dalla falce della Consulta. La presunzione d’innocenza, il diritto alla difesa e quello alla ragionevole durata del processo sono princìpi costituzionali validi per tutti i cittadini, mentre il lodo Conte bis - di fatto - limita queste garanzie a chi viene assolto in primo grado. Di certo, il problema non si risolve concedendo una prescrizione posticcia agli assolti in secondo grado, perché a quel punto l’imputato può aver già subìto un processo di durata irragionevole.

In altri termini, se il diritto del cittadino è già stato violato, il riattivarsi della garanzia è completamente inutile. Le uniche eccezioni sono i (pochi) procedimenti in cui il Procuratore generale si oppone all’assoluzione pronunciata in appello: in quel caso il ricorso in Cassazione diventa impossibile se il reato è prescritto. D’altra parte, questo non basta a sanare la violazione dei diritti costituzionali dell’imputato fra il primo e il secondo grado di giudizio.

Sul versante politico, in ogni caso, il compromesso firmato Conte è un esercizio di equilibrismo che terrà insieme la maggioranza almeno per qualche altro mese. Martedì la norma sarà inserita nel decreto Milleproroghe e sostituirà la disciplina prevista dalla legge Bonafede (che blocca sempre la prescrizione dopo il primo grado). Una volta approvato l’emendamento in commissione, il ministro della Giustizia presenterà in Consiglio dei ministri la sua riforma del processo penale. Nel frattempo, la sospensione della legge Bonafede sulla prescrizione farà decadere gli emendamenti di Lucia Annibali (Italia Viva) e di Enrico Costa (Forza Italia), che chiedono il rinvio delle regole entrate in vigore il primo gennaio. Quanto al Milleproroghe, va approvato entro il 18 febbraio alla Camera ed entro il 28 al Senato, pena la decadenza, perciò è scontato che il governo porrà una doppia questione di fiducia.

In questo modo, la maggioranza pensa di aver imbrigliato Renzi. Un decreto ad hoc per il lodo Conte bis avrebbe fatto il gioco dell’ex Premier, dandogli tempo e spazio per alimentare polemiche e ricatti. Di fronte alla trovata dell’emendamento al Milleproroghe, invece, il leader di Italia Viva è costretto votare sì, piegandosi al volere degli alleati. Se facesse cadere il governo - lo sanno tutti - si autocondannerebbe alla scomparsa, visto che il suo partito galleggia ancora intorno al 4%.

Renzi però ha già pronto il contrattacco: subito dopo l’entrata in vigore del Milleproroghe presenterà un disegno di legge (di cui sarà primo firmatario) per cancellare il lodo conte Bis e tornare alle regole della legge Orlando. Senza Iv, la maggioranza rischia di non avere i voti per bocciare la proposta al Senato, ma comunque il Pd si troverà nell’imbarazzo di dover rinnegare la legge di un suo dirigente di punta. E tutto questo fra marzo e aprile, ossia in piena campagna elettorale per le regionali di primavera.

Certo, se nel frattempo il governo riuscisse a mettere in tavola qualche nuovo progetto, il rilancio di Renzi sulla prescrizione potrebbe anche uscire dal cono di luce. Ma visto l’attivismo dell’esecutivo negli ultimi mesi, non c’è da sperarci.

Il governo si rafforza, ma gli equilibri nella maggioranza cambiano. Nelle file dell’opposizione, invece, Matteo Salvini incassa una pesante sconfitta personale, mentre Giorgia Meloni continua a fare passi avanti. Questo, in sintesi, il riflesso sulla politica nazionale delle amministrative in Emilia Romagna e in Calabria.

Nella regione meridionale trionfa la forzista Jole Santelli (55,43%), che riesce quasi a doppiare il candidato del centrosinistra Pippo Callipo (30,08%). Un risultato scontato. La partita più importante è però quella vinta dal Pd nella ricca Emilia Romagna, dove Stefano Bonaccini si aggiudica il 51,42% dei voti, stracciando la leghista Lucia Borgonzoni, che non va oltre il 43,63%. A sostenere il governatore uscente, oltre alla scarsa credibilità dell’avversaria, hanno contribuito anche il voto disgiunto e l’effetto sardine sull’affluenza (arrivata al 67%, il 30% in più rispetto al 2014).

Tuttavia, il primo dato che salta agli occhi è l’estinzione del Movimento 5 Stelle. In Calabria, i grillini passano dal 43% delle scorse elezioni politiche a non avere nemmeno un posto in Consiglio regionale: il loro candidato, Francesco Aiello, ha ottenuto solo il 7,31%. Ancora peggio è andata a Simone Benini, che in Emilia Romagna ha portato a casa un umiliante 3,48%. Insomma, la strategia di correre da soli si è rivelata un suicidio.

Di fronte a numeri del genere, il Pd potrebbe chiedere all’alleato un rimpasto di governo per riequilibrare le forze tra i vari ministeri. Inoltre, di sicuro i dem faranno valere la loro nuova posizione di forza anche sui temi più controversi nella maggioranza, a cominciare dalla prescrizione giudiziaria e dalle concessioni autostradali. Difficile che i grillini possano resistere: visto il tracollo nelle urne, ormai è chiaro che faranno di tutto pur di evitare nuove elezioni a breve e questo li priva di un’importante leva negoziale.

Il voto emiliano segna anche il secondo smacco in sei mesi per Salvini. Reduce dal fallito golpe del Papeete con cui ad agosto aveva cercato d’imporre la fine della legislatura, negli ultimi mesi il leader della Lega si è esposto in prima persona per assaltare la fortezza rossa dell’Emilia e far cadere il governo Conte bis.

L’obiettivo era sempre lo stesso: spalancare la strada alle elezioni politiche anticipate. Ma anche gli errori sono rimasti gli stessi: presunzione, arroganza e incapacità a formulare un piano B. Le sparate improvvide delle ultime settimane (“in Emilia non vinciamo, stravinciamo”) impediscono oggi a Salvini di ridimensionare il risultato, di sdrammatizzare. Ha mantenuto Borgonzoni nell’ombra per tutta la campagna elettorale (comprensibilmente, peraltro) e ora ne paga le conseguenze. Lo sconfitto è lui e lui solo: nessun altro.

Questo però non significa che la Lega sia in parabola discendente a livello nazionale. Certo, rispetto ai fasti della scorsa estate il Carroccio ha perso brillantezza, ma rimane comunque - e di parecchio - il primo partito del Paese. Perciò, il dazio che Salvini dovrà pagare dopo le elezioni emiliane sarà probabilmente interno al centrodestra, dove continuano ad aumentare le quotazioni di Fratelli d’Italia. Anche perché, nel medio periodo, la presa della Lega sugli alleati calerà ancora quando (e se) il Parlamento produrrà una nuova legge elettorale in senso proporzionale.

La tregua in Libia non segna solo la sospensione (temporanea) del conflitto, ma anche la definitiva sconfitta dell’Italia in una regione decisiva su più fronti, dall’energia all’immigrazione. La vera notizia non è infatti il cessate-il-fuoco, ma il riassetto diplomatico che ha portato a questo risultato. Ossia l’accordo fra Turchia e Russia: la prima schierata con Serraj, la seconda con Haftar.

Non a caso, il generale di Bengasi - impegnato dallo scorso aprile nell’assalto a Tripoli - ha accettato di abbassare le armi solo perché a chiederglielo è stato Vladimir Putin, da cui finora ha ricevuto non pochi aiuti economici e militari. Di recente, le truppe di Haftar sono state rafforzate dall’arrivo dei mercenari di Wagner, società di Yevgheni Prigozhin, uomo d’affari molto vicino a Putin.

Quanto a Erdogan, l’azione in Libia risponde a una doppia logica, politica ed economica. Sul primo fronte, il Sultano vuole creare un punto d’irradiazione per l’Islam politico in Nord Africa ed espandere ulteriormente la propria area d’influenza (che già comprende Siria e Somalia), dando respiro al progetto propagandistico volto a recuperare la perduta grandezza ottomana. Il tutto, naturalmente, attraverso l’alleanza fra Ankara e i Fratelli Musulmani a Tripoli.

Sul versante economico, a preoccupare Erdogan è il recente accordo fra Cipro, Grecia e Israele per la realizzazione del gasdotto East-Med, che entrerebbe in concorrenza con il Turkish Steam, altra pipeline realizzata, guarda caso, da Turchia e Russia. Proprio quest’ultimo gasdotto è il simbolo della disfatta italiana: in origine doveva chiamarsi South Stream e a costruirlo doveva essere Saipem, che però fu bloccata da Usa e Ue per sanzionare la Russia a causa della vicenda ucraina. Peccato che in seguito Bruxelles e Washington non abbiano avuto nulla da dire quando la Germania ha raddoppiato il North Stream con Mosca, né quando la Turchia - da membro della Nato - si è accordata con Putin sul gas e perfino sul commercio di armi.

Ma non è finita. Visto che le violazioni alle regole internazionali non erano ancora abbastanza, di recente il Sultano ha fatto firmare a Sarraj un accordo per lo sfruttamento del gas offshore nel Mediterraneo orientale e a Cipro (dove peraltro Ankara non riconosce legittimità al governo greco-cipriota e per questo è stata sanzionata dall’Europa). Il rilancio piace a Mosca, ostile all’East-Med non solo perché abbatterebbe i profitti del Turkish Stream, ma soprattutto perché ridurrebbe in generale la dipendenza dell’Europa dal gas russo. 

È chiaro quindi che, per quanto schierate su fronti opposti, Russia e Turchia hanno sempre avuto tutto l’interesse a raggiungere un accordo sulla Libia, esattamente come hanno fatto in Siria. Il risultato sarà più o meno questo: la Cirenaica e il Fezzan rientreranno nell’orbita di Mosca - che ha dalla propria parte anche Egitto, Emirati Arabi e Francia - mentre la Tripolitania finirà nella sfera turca, con Misurata come punto di riferimento.

Questo significa che Erdogan ha sostanzialmente scalzato l’Italia dal Paese nordafricano. È proprio in Tripolitania, infatti, che si trovano i giacimenti Eni da cui dipende buona parte del nostro approvvigionamento energetico. Per non parlare della costa, da cui parte il gasdotto Greenstream (che arriva a Gela), oltre alla solita pioggia di barconi con migliaia di migranti. Tutti fronti su cui in futuro l’Italia dovrà trattare con i turchi. Senza avere una sola arma negoziale a suo favore.

Fra Stati Uniti e Iran rischia di scoppiare la guerra, ma in Italia non ce ne siamo accorti. La strategia è sempre la stessa: rimanere fermi, silenziosi, come gechi al sole. In attesa che qualcun altro decida anche sui nostri interessi. È lo stesso approccio che ci sta portando al disastro in Libia, dove Erdogan si prepara a soppiantarci in Tripolitania.
Ma torniamo alla cronaca più recente: l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso venerdì scorso all’aeroporto di Baghdad da un drone americano su ordine di Donald Trump. Un atto di guerra potenzialmente capace d’innescare una spirale di sangue: Teheran, oltre che intenzionata, è praticamente costretta a vendicarsi e il rischio di escalation è molto alto.


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